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Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte
di Paolo Godani
Il saggio di Walter Benjamin
sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è senza
dubbio uno dei testi filosofici più influenti del XX secolo, che ha non
soltanto segnato la riflessione estetica sulla fotografia e sul cinema,
ma anche rinnovato radicalmente la comprensione dei rapporti tra arte e
politica.
Sono rarissimi i casi che
hanno potuto evitare di confrontarsi con almeno una delle sue tesi.
Tutti conoscono questo saggio o tutti, almeno, potevamo dire di
conoscerlo prima di scoprire sino a che punto, nel segreto delle diverse
versioni (cinque, per la precisione) scritte da Benjamin tra il 1935 e
il 1939, si nascondessero intuizioni e formulazioni che, per i lettori
di una qualche versione standard del testo, risultano ancora
oggi radicalmente inattese. Negli ultimi decenni, parecchi studiosi
hanno lavorato all’edizione critica delle diverse stesure del testo e
alla loro traduzione italiana, fornendo un’immagine più precisa di
questo classico del Novecento. Per questo diventa necessario tornare a
leggerlo alla luce delle recenti acquisizioni, così come hanno iniziato a
fare gli studiosi dell’Associazione italiana Walter Benjamin, con un
ciclo di seminari dedicati, i cui atti sono ora raccolti nel volume Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte (a
cura di Marina Montanelli e Massimo Palma, Quodlibet Studio, 2016), in
cui si trova anche quella che, ad oggi, è l’unica traduzione italiana
della prima versione del testo. L’essenziale di questa raccolta di studi
(con contributi di Alessandra Campo, Fabrizio Desideri, Dario Gentili,
Clemens-Carl Härle, Marina Montanelli, Massimo
Palma, Andrea Pinotti, Mauro Ponzi, Franco Rella, Elena Tavani,
Massimiliano Tomba, Francesco Valagussa) non risiede soltanto nella
precisa ricostruzione filologica della genesi del testo benjaminiano, ma
anche e soprattutto nella rilevazione di alcuni punti chiave della
riflessione di Benjamin rimasti finora in ombra e capaci di aprire sull’Opera d’arte prospettive ermeneutiche inedite.
Come ricorda Andrea Pinotti
in un saggio dedicato alla questione del mutamento storico della
percezione, alcune lettere benjaminiane del 1935 testimoniano che il
saggio sulla riproducibilità tecnica era stato pensato “come una sorta
di teoria materialistica dell’arte da anteporre a mo’ di premessa
gnoseologica al grande progetto sui passages parigini” (p. 95); il che suggerisce di leggere l’Opera d’arte non
tanto e non solo come un testo di estetica, ovvero riguardante i
rapporti tra estetica e politica, bensì, più in generale, secondo la
formulazione di Alessandra Campo, come un saggio di “antropologia
politica” (p. 174). In questione, in effetti, non è soltanto il celebre
contrasto tra estetizzazione fascista della politica e politicizzazione
comunista dell’arte (benché anche su questo, come mostra Fabrizio
Desideri, si possa trovare nel testo di Benjamin ben più di quanto la
sua vulgata abbia conservato, ad esempio una riflessione sulla
relazione tra crisi della democrazia e condizioni di esposizione
dell’uomo politico), o l’altrettanto nota diagnosi riguardante la
“decadenza dell’aura”, bensì la possibilità di pensare l’emergere “di
una nuova configurazione sociale e antropologica” (p. 191).
Che l’Opera d’arte
vada intesa come un testo di antropologia politica è testimoniato già
dalla possibilità di leggerla proficuamente a partire dalle riflessioni
benjaminiane sull’infanzia e sul gioco. Per Benjamin, come nota a giusto
titolo Marina Montanelli, “soltanto una radicale rifondazione
dell’antropologia può far balenare chance politico-rivoluzionarie, non solo per l’arte, ma tout court.
Il gioco e il giocattolo ci dicono che il primo montatore, prima ancora
dell’artista politico e dello storico materialista, è il bambino” (p.
54), con la sua naturale capacità di combinare, assemblare, costruire,
scomporre, distruggere. E l’infante è anche l’esempio primo di
un’esperienza dai tratti impersonali (ché il bambino è colui che ancora è
incapace, fra l’altro, di dire “io”), di un’esperienza cioè la cui povertà può
assumere certo una connotazione negativa, ma solo quando sia messa al
lavoro per la valorizzazione capitalista – in se stessa essendo semmai
l’indizio di una antropologia non individualista.
Massimiliano
Tomba mostra con grande finezza come sia proprio l’interpretazione di
un certo mutamento antropologico a dividere il campo del pensiero
critico contemporaneo, soprattutto su una questione capitale (messa a
tema anche nel saggio di Dario Gentili): quella del destino o della
funzione dell’individuo nelle società contemporanee. I
dispositivi tecnici di cui l’arte inizia a far uso alla fine del XIX
secolo non producono soltanto nuovi oggetti per la contemplazione
estetica, ma modificano alla radice la maniera stessa in cui i soggetti
organizzano la propria esperienza. Lo spettatore cinematografico, ad
esempio, non figura come soggetto attivo delle proprie esperienze
visive, bensì come mera superficie di registrazione di una complessa
sintesi prestabilita di immagini. In tal senso, si può dire che “per
Benjamin, la liquidazione dell’individuo annunciata da Marx nel campo
economico quando parlava degli individui come di «categorie
personificate», si [sia] ora palesata nell’arte. Non c’è più un soggetto
che contemplando l’opera d’arte si abbandona al «flusso delle sue
associazioni». Piuttosto, il flusso è costruito collettivamente nel
montaggio filmico e il soggetto è spossessato della funzione
sintetico-trascendentale che gli era propria” (p. 198). La situazione
che in questo senso è venuta profilandosi può prospettare una
dissoluzione delle condizioni stesse dell’individualismo borghese, ma
può dare luogo, con altrettanta probabilità, ad un esito inverso, e cioè
al fantasma di una società di massa costituita da individui seriali.
Non sono solo le posizioni di Benjamin e Adorno che si oppongono
impugnando, rispettivamente, l’una e l’altra prospettiva, ma più in
generale è il pensiero contemporaneo che ancora si dibatte in
un’alternativa del genere, dividendosi tra coloro che, con Adorno,
attribuiscono all’arte e all’individualità non omologata “un ruolo di
«resistenza» rispetto alla cultura e alla società di massa” (Gentili, p.
145), e coloro che cercano piuttosto di vedere come la stessa società
di massa possa dar luogo ad un’arte politicizzata capace forse di
contribuire a quel “cambiamento dei rapporti di proprietà” che non può
non essere l’orizzonte di qualsiasi politica rivoluzionaria.
Provare a seguire Benjamin
alla ricerca di un’antropologia non individualistica, capace di assumere
i connotati della società di massa neutralizzando però il loro uso
capitalistico, è forse l’unico modo che abbiamo di prospettare la figura
concreta di un nuovo modo di essere, e non solo l’indeterminata
apertura di una speranza. Si tratta di pensare il nostro essere seriale e
persino l’omologazione che caratterizza i nostri comportamenti nelle
società di massa come germi di una immagine dell’umano, in cui le
peculiarità individuali altro non siano che variazioni di tratti da
tutti condivisi, e in cui l’esperienza della vita comune venga sentita
non come un dovere o come un ideale, ma come una potenza superiore
rispetto alla rachitiche passioni dell’individuo isolato.
Testo e immagine ripresi da http://www.leparoleelecose.it/?p=26367
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