Secondo Asor Rosa Anna
Karenina dimostra che i capolavori hanno bisogno di amori
tragici. Una tesi interessante, ma forse un po' troppo unilaterale.
Alberto Asor Rosa
Anna Karenina
Nei mesi scorsi ho letto
per la seconda volta, dopo cinquant’anni, “Anna Karenina” di
Lev Tolstoj. Cinquanta? Che dico: almeno sessanta. La copia
preistorica, che possiedo ancora, è quella Einaudi con la traduzione
di Leone Ginzburg (e una sintetica, ma al tempo stesso bellissima,
introduzione di Natalia Ginzburg). Il mio testo, rigorosamente di
seconda mano, come era d’obbligo in quei tempi difficili, porta la
data del 1949; ma brevi e attendibili ricerche portano alla conclusione che la
prima edizione sia del 1946. Dunque, per quanto mi riguarda, gli anni
dell’università o, più esattamente, della Facoltà di Lettere a
Roma: quando leggere un testo di Tolstoj, o di Dostoevskij, o di
Balzac, o di Stendhal, poteva non solo procurare un immenso piacere
allo spirito ma aprire un orizzonte che prima non c’era, ossia
cambiare la vita. Oggi l’Anna Karenina l’ho riletta nella nuova
traduzione (sempre Einaudi) di Claudia Zonghetti, diversissima dalla
prima: più fluida, scorrevole, avvolgente, quella di Ginzburg; più
coincisa ed essenziale e decisamente più modernizzante, quella di
Zonghetti.
Non ho nessuna
competenza, naturalmente, per entrare nel merito della qualità e del
rispetto del testo originario da parte dei due traduttori (mi risulta
che nel merito ferva una polemica). Mi limito a osservare, ai fini di
questo mio sprovveduto discorso, che le due traduzioni presentano due
libri profondamente diversi fra loro.
Questo ci mette di fronte
al mondo misterioso e affascinante della traduzione, il quale, non
solo, bontà sua, rende possibile la trasmissione di universi
letterari, che altrimenti resterebbero incomunicabili; ma al tempo
stesso li formalizza secondo modi e abitudini, che rispondono di
volta in volta a bisogni e consuetudini diversi. Fra la comparsa
della traduzione Ginzburg e quella della traduzione Zonghetti
passano, come ho già sommariamente accennato, settant’anni, ossia
un’intera fase storica.
Nel frattempo è cambiata
anche la lingua del traduttore, cioè, se si può ancora definire
così, l’italiano. Si può leggere l’opera nello stesso modo? Nel
testo originario probabilmente sì. Ma quel che ne risulta dalle
traduzioni, a quanto sembra, altrettanto ovviamente no. Se poi si
aggiunge alla temporalità delle traduzioni la temporalità del
lettore, – leggere lo stesso libro a vent’anni non può essere la
stessa cosa che leggerlo a ottanta, e questo allora vale anche per il
testo originario – la poliedricità delle interpretazioni possibili
aumenta a dismisura.
La lunga premessa mi
serve a giustificare perché io mi sia concesso il lusso di ragionare
in pubblico di un capolavoro come l’Anna Karenina. In fondo, io
qui, spogliato di ogni specialismo, sono uno qualsiasi di quei
milioni che in passato e nel presente hanno letto e continuano a
leggere, o a rileggere, questa grandiosa opera. Che ne diresti,
lettore d’imbastire questa volta un discorso più ravvicinato fra
noi?
Anna Karenina, nella sua
accezione vulgata, è la storia dell’amore, colpevole e disperato,
fra l’eroina eponima del romanzo e il brillante, ovviamente nobile
e ricco, ufficiale della Guardia Aleksej Vronskij. Una prima lettura,
tanto più se generazionalmente precoce, non può non focalizzarsi
pressoché esclusivamente su questa vicenda centrale e capitale. La
mia impressione più recente è che non sia esattamente così, e per
due motivi, in cui, forse, soprattutto si concentra la grandezza del
narratore, e che vanno ambedue nel senso di una gigantesca
moltiplicazione della macchina narrativa.
Il primo è che, nel
senso più letterale del termine, qualunque sia il punto di partenza
dell’episodio in questione, la narrazione si allarga a macchia
d’olio, ramificando in tutte le direzioni, tutte libere a loro
volta di espandersi in tutte le direzioni, ma al tempo stesso tutte
governate da un superiore assetto strategico; la moltitudine dei
personaggi, anche loro tutti capaci, se necessario, di venire di
volta in volta in primo piano; la ricchezza inaudita degli ambienti
esterni circostanti, dalla società nobiliare e cortese, che continua
comunque a rappresentarne il fulcro riservato e pressoché esclusivo,
alla multiforme e depressa realtà contadina, anch’essa però
capace, nella sua apparente millenaria arretratezza e chiusura, di
suggerire un diverso modo di vivere e d’interpretare le cose.
In secondo luogo, – e
questo davvero, penso, può essere colto solo da un occhio
sufficientemente adulto – non è vero che il romanzo poggi le sue
fondamenta soltanto sulla storia dell’amore infelice fra Anna e
Vronskij. Ci sono almeno altre due coppie (e anche questo è un modo
peculiare di guardare il mondo da parte di Tolstoj) che ne
fiancheggiano le vicende, assumendo su di esse, in momenti specifici
della narrazione, e soprattutto nelle conclusioni, addirittura il
sopravvento.
Sono quelle di Oblonskij,
mite, anzi buono, ma al tempo stesso irrimediabilmente superficiale e
vanesio, e incline alle più disparate avventure femminili, e di sua
moglie Dolly, sfiorita anzitempo in seguito alle sette maternità
(cinque figli superstiti, cui si dedica anima e corpo), ferita a
fondo dalle leggerezze del marito e tuttavia incapace di liberarsene;
e di Levin, anche lui aristocratico, ma anche convinto proprietario
terriero, che dedica ai suoi beni una cura attenta e lungimirante, e
di sua moglie, la dolcissima Kitty, che, dopo l’infatuazione
iniziale per Vronskij, si sprofonda nel rapporto matrimoniale come in
un confortante paradiso, rallegrato a un certo punto an- che dalla
difficile ma inebriante esperienza della maternità.
Ancor più significativo,
secondo me, è che il romanzo si apra con le vicende di Oblonskij e
di Dolly (le prime cinquanta pagine) e si chiuda con quelle, del
resto coltivate a lungo anche in precedenza (le ultime cinquanta) di
Levin e Kitty, le quali oltre tutto assicurano all’opera, intensa e
drammatica, un inaspettato lieto fine. La storia, sventurata e
terribile, di Anna e Vronskij, s’incastona così nelle altre due,
quella mediocre e patetica di Oblonskij e Dolly e quella affettuosa e
positiva di Levin e Kitty.
L’impressione di
eccezionalità e di sfortuna suscitata dalle vicende dei primi due si
accentua ancora di più se si tiene presente che fra le tre coppie
corrono addirittura rapporti di contiguità famigliare: Oblonskij,
infatti, è fratello di Anna; e Dolly sorella di Kitty. Si direbbe
che a restar fuori, isolato, sia soprattutto Vronskij. È così o è
solo una mia impressione? Entriamo per questa strada nel vivo del
romanzo.
Anna lascia per Vronskij
il melenso marito Karenin ma anche l’adoratissimo figlio; Vronskij
lascia per Anna la sua brillante carriera di ufficiale della Guardia.
La loro passione è illimitata; ma, mentre li avvicina oltre misura
fra loro, sfiorando sempre di più l’ossessione e l’eccesso, li
distanzia in modo irrimediabile dal resto del mondo. In questo modo,
non si può esser felici, si dev’essere per forza sventurati. Sono
pensieri di Anna che va verso la disperazione finale: «Quando
finisce l’amore comincia l’odio…»; e: «Pensò che lo amava e
lo odiava alla follia».
Seconda domanda: per
Tolstoj è impossibile che amore e felicità scaturiscano dalla
colpa? La domanda (penso) è legittima, ma la cosa non incide sulla
potenza e, direi, sull’onestà illimitata del punto di vista
tolstojano. L’autore che ne fornisce la chiave fin dalle prime due
(leggendarie) righe del romanzo: «Le famiglie felici si somigliano
tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo». È per
questo, si direbbe, che una storia romanzesca, come lui la
concepisce, è fatta soprattutto di storie infelici, e quelle felici
possono comparire solo a contraltare, magari ottimistico, di quelle
infelici.
Questa così evidente
dichiarazione di poetica – come si diceva una volta – spiega fin
dall’inizio il processo di moltiplicazione narrativa, di cui
abbiamo già parlato; ma al tempo stesso giustifica sul piano etico
(non più semplicemente letterario) il punto di vista dell’autore.
È molto più difficile capire, interpretare e spiegare un capolavoro
che un libro mediocre.
Ma se un’ipotesi nel
caso suo può esser tentata, io penso che sia questa: i grandissimi
scrittori non decidono mai da che parte stare. Soltanto i mediocri
scelgono, per questo sono così facilmente interpretabili. I russi in
questo sono stati maestri. Un loro romanzo non è mai un solo
romanzo: è sempre una molteplicità di romanzi.
Tolstoj è Oblonskij, è
Dolly, è Levin, è Kitty, è Anna, è Vronskij; e di ognuno di loro
lui assume di volta in volta caratteristiche, pensieri e passioni. È
come se, rinunciando a giudicare, stesse dentro ognuno dei personaggi
rappresentati, trovando in quello in quel momento, e non in altri, il
corrispettivo, per quanto temporaneo e discutibile, della propria
visione del mondo. Chi legge, o rilegge, e non perde la bussola
cammin facendo, si trova o ritrova ogni volta di fronte al grande
caleidoscopio del mondo.
La Repubblica – 1
febbraio 2017
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