Simone de Beauvoir
e i suoi critici
Rossana Rossanda
L’indegna vecchia
signora è Simone de Beauvoir. Come in Francia, l’Italia
puntualmente si duole che non ci abbia lasciato l’immagine d’un
Sartre morente che le fosse apparso come Goethe agli occhi, un po’
offuscati, di Eckermann: il corpo d’un giovane iddio. Se ne duole
anche Enrico Filippini, su “Repubblica” di domenica, anche se
dice che non va bene; ma termina anche lui con lo stesso giudizio —
per non parlare dell’elegante titolo («E poi tutto fu Nausea»,
gioco di parole pseudo-sartriano: ma, dei titoli, non sarà
responsabile lui). Del resto, “il manifesto” ha fatto lo stesso.
Non voglio tornare sulla Cerimonia degli addii, l’ho fatto
su “Orsaminore”: ma chi, specie se uomo, legge “Orsaminore”?
Una rivista di donne non si legge per definizione, neanche da parte
di Enrico Filippini, che — non dubito, ci avrebbe almeno messo fra
parentesi (salvo “Orsaminore”). Voglio solo chiedermi quale
paura, dunque, abbiamo della malattia e del corpo che si deteriora, e
non sempre per l’avvicinarsi della morte, da non poter attribuire
che a una singolare durezza di cuore il parlarne? O siamo ancora così
vittoriani da trovare «indecente» che si pani di mancanze, gambe
tremanti, memorie cadute, barcollamenti e, dio non voglia, urine? O
così inconsapevolmente ipocriti da non volere che il «grande»,
cioè quello che «si vede» — perché i piccoli restano invisibili
sempre, giovani o vecchi che siano — resti fino all’ultimo
decorosamente esente dagli oltraggi che ci infligge il ciclo della
vita, in modo da non turbare l’immagine della nostra fine
attraverso la descrizione della sua?
Si parla e riparla d’un
nuovo rapporto, laico, ravvicinato, con il corpo, ma di esso
accettiamo solo il profilo giovanilistico: di Sartre non si sarebbe
mai potuto dire «hollywoodiano», ma ci viene sempre ricordato che
la sua bruttezza era riscattata dall’intelligenza. Ma perché
riscattata? E come mai corpo non sono anche le malattie del corpo,
concepite tuttavia come «decadimento» rispetto alla nostra tuttora
prassitelica idea dell’umana forma? Perché, se malato, va nascosto
come una vergogna? Perché la testimonianza d’un impari dibattersi
con il male non può essere attribuita a un tragico rapporto finale
di tenerezza e dolore, ma solo a perversità o vendetta? O
voyeurismo, appena non si somigli ai bronzi di Riace?
La verità è che per
noi, così moderni, anzi postmoderni, il corpo resta vergognoso e
segreto, per fortuna coperto dal guscio della pelle e da quello degli
abiti, esponibile solo al suo meglio, perdonabile nella sua nudità
solo se soggetto o oggetto di erotismo. Per il resto, da tener ben
celato. Luogo della debolezza, della paura, dell’io indifeso.
Per questo, pavidi come
siamo, la vecchiezza ci fa orrore; fa orrore anche alle femministe,
che pur dicono di avere una diversa sensibilità, non astratta e
crudele, ma ravvicinata e diretta col corpo, che sarebbe propria
delle donne, come figlie più prossime della natura.
Ma la natura crea le
forme della vita e regolarmente le distrugge; vita e morte,
giovinezza e vecchiaia sono assolutamente e ugualmente naturali.
Anche la malattia lo è. E non sempre siamo così fortunati da esser
colpiti dalla freccia di Apollo o di Artemide, in modo da lasciare ai
posteri, o solo ai nostri cari, l’ultimo colpo d’occhio su di noi
assolutamente integri; solo, ma è una breve parentesi prima dei
funerali, non vivi.
Davvero, per essere paesi che invecchiano per il decrescere della natalità e l’allungarsi della «speranza di vita», vi arriviamo con una cultura che al «vecchio» non può che far paura. Anzi, perché non consigliargli di coprirsi il volto, o la persona, con un velo, come il peccatore di Hawthorne — deperire è «peccato» —, stabilire che i municipi decentrino gli ospedali fuori vista come i cimiteri, e istituire per gli intellettuali un’unica censura, che ci protegga tutti dall’offesa alla morale, ai sentimenti e al comune senso del pudore, quando osassero parlare del disfarsi d’una «forma». Sia punito, e non solo dai recensori, chi ce lo ricorda come destino umano e quasi sempre ineluttabile.
Davvero, per essere paesi che invecchiano per il decrescere della natalità e l’allungarsi della «speranza di vita», vi arriviamo con una cultura che al «vecchio» non può che far paura. Anzi, perché non consigliargli di coprirsi il volto, o la persona, con un velo, come il peccatore di Hawthorne — deperire è «peccato» —, stabilire che i municipi decentrino gli ospedali fuori vista come i cimiteri, e istituire per gli intellettuali un’unica censura, che ci protegga tutti dall’offesa alla morale, ai sentimenti e al comune senso del pudore, quando osassero parlare del disfarsi d’una «forma». Sia punito, e non solo dai recensori, chi ce lo ricorda come destino umano e quasi sempre ineluttabile.
"il manifesto", ritaglio senza data ma 1981
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