Raccolti in volume gli
scritti di Gramsci sulla rivoluzione russa. Ne emerge il tentativo
vivo di uscire da un marxismo ossificato e deterministico, anche se in
questi scritti Gramsci ci pare ancora segnato da un volontarismo di
matrice più
mussoliniana che bergsoniana. Ci riferiamo al ruolo, spesso
sottovalutato, che la rivista Utopia ebbe nella formazione dei futuri
fondatori del Pcd'I, compreso Bordiga che non a caso riprese (senza
aggiungervi la firma) uno scritto di Mussolini nella sua Storia della
sinistra comunista.
Fabio Frosini
Quando la politica
prende di petto la storia
L’agile raccolta di
testi gramsciani degli anni 1917- 1918 curata da Guido Liguori
(Antonio Gramsci, Come alla volontà piace. Scritti sulla
Rivoluzione russa, Roma, Castelvecchi, pp. 144, euro 16,50) giunge
per varie ragioni benvenuta. Nell’anno da poco iniziato,
caratterizzato dalla doppia ricorrenza dell’ottantesimo della morte
di Gramsci e del centenario della rivoluzione, essa ci permette
infatti di rivisitare i primissimi momenti di un incontro che segnò
in modo definitivo la personalità di un sardo sbarcato a Torino
qualche anno prima per studiare filologia moderna, e diventato invece
un rivoluzionario. Siamo così messi in diretto contatto con la
concitazione di quei mesi compresi tra il marzo e il novembre 1917,
concitazione dovuta non solamente alle notizie che venivano dalla
Russia, ma ai drammatici avvenimenti italiani, dai moti per il pane a
Torino alla rotta di Caporetto. Assistiamo al quotidiano tentativo di
decifrare lo svolgersi degli avvenimenti russi e di combattere contro
i detrattori di destra e di sinistra del bolscevico «forzare la
“via”».
Bisogna dire che Gramsci
fu tra i pochi – in Occidente – a sforzarsi di dare una lettura
della Rivoluzione che partisse da essa, invece di costringerla dentro
qualche schema già pronto. Di qui le incertezze e gli andirivieni
disseminati nei suoi interventi; ma al contempo una serie di temi
chiave che tornano, si affinano e approfondiscono a diretto contatto
con questo singolare esercizio di ermeneutica rivoluzionaria.
Questi temi marcano
altrettanti aspetti profondi del pensiero di Gramsci. Prendiamo la
volontà, che ricorre con frequenza negli scritti torinesi precedenti
«L’Ordine Nuovo». Nel giustamente celebre La rivoluzione contro
«Il Capitale» (1° dicembre 1917) questa è posta alla base della
storia.
In contrapposizione al
«marxismo» che decretava la fatale necessità che tutti i Paesi
passassero attraverso l’inferno della rivoluzione industriale,
Gramsci afferma che il vero pensiero «immanente, vivificatore»
consegnato a Il Capitale «pone come massimo fattore di storia non i
fatti economici bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini,
degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro,
sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà
sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici e li giudicano,
e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice
dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e
si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione,
che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla
volontà piace». Qui l’opposizione non è solamente tra una
spiegazione della storia a partire da entità metafisiche, poste come
assolute, e la coppia società-volontà, ma anche tra questa coppia e
l’attività dei singoli (in altri articoli Gramsci articola questa
opposizione qualificando come «arbitraria» l’azione individuale,
«necessaria» quella sociale).
In definitiva, e
nonostante il tono enfatico, qui di «soggettivistico» c’è ben
poco. Piuttosto c’è molto Bergson nell’idea di un tempo storico
che in Russia si ritrova spaventosamente contratto: «Ma in Russia la
guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le
sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all’unisono
molto rapidamente». Il bergsonismo è però del tutto stravolto,
perché spostato in una prospettiva direttamente politica, per cui
alla fine dinnanzi all’Europa la Russia assume il ruolo assegnato
alla Germania nella marxiana Introduzione alla critica della
filosofia del diritto di Hegel: un anacronismo, allo stesso tempo
arretrato e avanzato rispetto al ritmo dominante della storia del
capitalismo.
La tensione tra il
ricorso a Bergson e il suo stravolgimento politico appare chiaramente
nel più tardo Utopia (25 luglio 1918), dove Gramsci riassume nella
formula «slancio vitale della nuova storia russa» un condensato
lucidissimo del suo materialismo storico (che tanto deve ad Antonio
Labriola): l’idea che «non la struttura economica determina
direttamente l’azione politica, ma l’interpretazione che si dà
di essa e delle così dette leggi che ne governano lo svolgimento»;
le leggi economiche come effetti di conformismo a livello di massa;
l’apparenza di automatismo e passività data dalla disgregazione
reale delle «grandi masse»; il carattere «individuo» di «ogni
fenomeno storico»; l’opposizione non di ordine a disordine, ma di
due ordini alternativi (altra idea bergsoniana); l’intuizione –
che sarà alla base de «L’Ordine Nuovo» – del soviet come
principio aggregatore che dal «caos» popolare fa scaturire la forma
spontanea, perché autonoma, dell’ordine proletario.
A dimostrazione della
persistenza di certe rappresentazioni, quest’ultima immagine era
presente già nel primo articolo di Gramsci sulla rivoluzione di
marzo, Morgari in Russia: «i socialisti russi (…) sono ora la
calamita che muta la disposizione caotica delle molecole umane, e
chiarifica gli aggregati». Sono tutti temi che Gramsci porrà
nei Quaderni del carcere alla base della «filosofia della
praxis», ma dopo aver compiuto un passo ulteriore, decisivo: lì
infatti non si tratterà più di riutilizzare le categorie della
filosofia contemporanea, trasferendole sul terreno politico, ma di
criticare quelle categorie come trasferimento sul piano teorico di
una prassi politica, che ne risultava così al contempo giustificata
e neutralizzata. Uno spostamento piccolo, ma decisivo.
Il manifesto – 18
febbraio 2017
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