Da poco in libreria
una biografia di Emma Goldman, militante anarchica che seppe vedere e
denunciare già nella Russia di Lenin i segni di quello che poi
sarebbe diventato lo stalinismo.
Alessandra Pigliaru
Lo sguardo obliquo di
una insorta
Di Emma Goldman,
pensatrice, anarchica, femminista, immigrata e irriducibile
rivoluzionaria, si è detto e scritto molto – con maggiore
trasporto dagli anni Settanta in avanti. Eppure la figura di questa
«piccola Giovanna D’Arco», come sovente veniva chiamata da
qualche giornalista che ne aveva incrociato – e ne temeva anche un
poco – la forza politica, abitava il terreno del mito fino dagli
anni Trenta del Novecento. Fascinazione comprensibile, a percorrere
la sua vita sembra di stare dentro un romanzo straordinario. Uno di
quelli che ha come protagonista l’esistenza tempestosa di chi nasce
già insorta, a cavallo tra due secoli, facendo parte della storia e
scrivendola. La storia degli ultimi, degli operai e delle operaie con
cui si confronta Emma Goldman, la storia che la trafigge anzitutto
nella coscienza incarnata che la interroga sulla sessualità, sulla
riproduzione e il controllo delle nascite, sul suffragio e tanto
altro ancora.
La storia di cui ha fatto
parte Emma Goldman è insomma quella che ha nutrito un pensiero
anti-capitalistico e capace di raccontare cosa significa il fermento
libertario, quali le sue genealogie, le sue scommesse, come
l’anarchismo. E il suo incontro con il conflitto della classe
operaia, l’antimilitarismo contro il fanatismo della prima guerra
mondiale, la rivoluzione russa prima, la guerra civile spagnola poi.
Forse una vita non basta per reggere tutto questo, quella di Emma
sì.
Disfare l’affronto di essere nata donna per un padre ottuso e autoritario, è il modo in cui Goldman debutta nella decostruzione simbolica del già dato. Sceglie di rimettersi al mondo, lo fa numerose volte. La prima, come lei stessa scrive, è il 15 agosto del 1889 quando a vent’anni arriva a New York.
Da Kovno (l’odierna
Kaunas), cittadina portuale della Lituania, se n’era già andata
tempo prima per raggiungere la sorella Helena che abitava nel
Connecticut. Lì Emma confeziona corsetti in una fabbrica e segue
laboratori di cucito che poco dopo, oltre alla sopravvivenza, le
avrebbero dato il senso della relazione con le lavoratrici del
tessile.
Frequenta circoli
radicali e di operai, studia, ascolta, scrive, legge moltissimo,
stringe rapporti con alcuni esponenti del movimento anarchico.
Trascorre qualche mese e la figura di questa giovane donna, dapprima
misteriosamente comparsa su un carretto a Union Square a tenere un
discorso e a resistere alle cariche della polizia, diviene centrale
sia sui giornali che all’interno del movimento.
Proprio in quei primi comizi di piazza la si ricorda avvolta da una bandiera. Era rossa, da qui – insieme alla furia mostrata contro ogni potere costituito – la nominazione di Emma the Red. E proprio Emma la Rossa (eléuthera, pp. 223, euro 16, prefazione di Normand Baillargeon, traduzione di Carlo Milani) si intitola il volume di Max Leroy che ne ripercorre la parabola cominciando dal fulgore di quegli anni di apprendistato alla rivolta.
Appassionato e all’orlo
di una festa del cuore verso chi ha speso la propria vita per la
libertà e la giustizia, il libro di Leroy propone un ritratto
puntuale, servendosi di un apparato bibliografico interessante che
conduce lettori e lettrici sulle tracce di Goldman, di ciò che ha
scritto – due le opere che si ricordano principalmente: My
Disillusionment in Russia (1923) e Living My Life (1931),
la sua autobiografia (si dica per inciso che entrambe sono state
tradotte in Italia tra gli anni ’70 e ’80 da La salamandra.
Di più recenti invece si
segnalano Femminismo e anarchia, edito da Bfs con una splendida
prefazione di Bruna Bianchi, e Anarchia e prigioni, edito da
Ortica). Ulteriore pregio di Leroy è quello di aver tenuto conto
della dedizione di biografi e in particolare biografe come Alice
Wexler e Candace Falk (direttrice dell’Emma Goldman Papers
Project che a Berkeley ha raccolto dal 1980 a oggi più di
ventimila carte relative alla sua produzione e ai suoi scambi
epistolari).
Se «lo Stato è un
saccheggiatore al soldo del capitalismo», scrive convinta ripensando
al suo arresto occorso all’età di 24 anni per incitamento alla
sommossa, la maggiore oppressione viene inferta alle donne, ai
bambini e alle bambine. Da quell’oppressione, gravida di nodi da
sciogliere, e da alcune sue esperienze (non ultima quella di
levatrice per cui segue un corso a Vienna), impara molto e si mette
in cammino. Verso un femminismo che non la abbandonerà mai più; gli
incontri più importanti sono due: quello con Voltairine de Cleyre,
scrittrice e militante anarchica, e con Louise Michel, la «vergine
rossa» deportata in Nuova Caledonia dopo la repressione della Comune
di Parigi. Il resto è la lettura di Mary Wollstonecraft (così come
nella sua formazione decisivi sono stati Henry David Thoreau e
Michail Bakunin). Molti illustri esponenti del movimento anarchico la
ammirano; da Johann Most, Edward Brady a Pëtr Kropotkin. A qualcuno
concede di amarla.
In una lettera ad
Aleksandr Berkman – compagno di lotte e presenza cruciale nella sua
vita – nell’agosto del 1927, riesce a raccontare il tenore della
sua differenza, quella in fondo che la sa consegnare alla gratitudine
delle generazioni politiche successive: «Le sole teorie non sono
sufficienti a smuovermi. Comprendere le nostre idee non è
abbastanza. È necessario sentirle in ogni fibra come una fiamma,
come una febbre divorante, una passione elementare».
Il manifesto – 20
gennaio 2017
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