I politici della finta sinistra odierna da tempo, com'è noto, si occupano d' altro. Stefano Rodotà, nell'articolo seguente, indica chiaramente cosa dovrebbero fare se volessero davvero raccogliere il messaggio contenuto nell'esito del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre. fv
La dignità della persona
di Stefano Rodotà
«Siate
realisti: chiedete l’impossibile». Questo ammonimento, che Albert Camus
affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di
riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente — e
comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio
concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che,
se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione
critica, come l’unica misura e regola del possibile, ben possono
trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente
rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire
una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.
È
quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere
considerata inconsapevole o innocente. L’attribuire ai nudi fatti la
competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine
ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole
artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che,
nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalle procedure
democratiche alle dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto
naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie
al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare
soggetti che abbiano la competenza per governarlo.
Conclusione
che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione
dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è
piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la
democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e
controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione
spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la
rilevanza assunta dall’insieme delle dinamiche che determinano e
accompagnano nel tempo l’azione di una molteplicità di attori.
L’attuale
discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la
necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà
quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la
prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che
invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo
vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel
presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna
addirittura alla profezia. Si riscopre l’«utopia concreta» di Marc
Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari.
Il
senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione
corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non
possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto
ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con
l’abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare
l’impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe
essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la
cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.
Ma
non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa
consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un
ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica
adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere
collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la
possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più
chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra
esistenza e risorse finanziarie.
In
Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura
alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha
una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo
di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi
Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio
l’impossibilità di eludere una questione che riguarda l’antropologia
stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto
politico italiano — qui distratto, come in troppi altri casi — dovrebbe
sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe
Bronzini nell’ambito delle attività della Rete italiana per il reddito
di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una
impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’esistenza stessa
della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di
mettere a punto una proposta di legge d’iniziativa popolare che le
Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.
Così
la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue
effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento
e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse
richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui
si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un
vero e proprio «diritto all’esistenza»: unico nel suo riconoscimento,
articolato per consentirne l’effettiva attuazione. Questo spiega la
ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da
specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a
universale) o un particolare contesto (familiare) — un insieme di
variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni,
che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della
questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso
dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.
Un
tema tanto significativo per la costruzione dell’agenda politica non
può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire
rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige
l’individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la
possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione
di una politica costituzionale.
È
una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal
lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della
Repubblica e più avanti, nell’articolo 36, come la condizione sociale
necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si
possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o
sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’attenzione diretta
per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri
strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni
materiali inseparabili appunto dall’effettiva condizione di libertà e
dignità del vivere.
Una
esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919,
non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve
concretamente manifestarsi come esistenza «degna dell’uomo»,
«dignitosa». Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo
riferimento — appunto la dignità — compare oggi in apertura della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, affiancando in maniera
particolarmente significativa gli storici principi della libertà,
dell’eguaglianza, della solidarietà.
Nella
storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’evocazione della dignità è
divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un
dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei
nuovi «dannati della terra», come i braccianti della piana di Rosarno.
Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro
complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del
potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più
evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.
Fonte: La Repubblica 12 febbraio 2017
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