13 febbraio 2017

S. RONCHEY, La presa di Costantinopoli come seduzione


Panagiotis Zografos , La presa di Costantinopoli

“Bisanzio sei già mia”. La presa di Costantinopoli come seduzione 

 Silvia Ronchey


Ci sono giorni che possono cambiare la storia, date che diventano un simbolo, un ologramma, un mantra. L’11 settembre 2001, la caduta delle Torri Gemelle, per esempio, che ha impresso al XXI secolo il sigillo di quello che viene chiamato uno scontro di civiltà, comunque di un nuovo evo. O anche date meno agghiaccianti, ma ugualmente emblematiche, come quelle cui si è soliti riferire la nascita dell’evo moderno: il 1492, quando la scoperta dell’America proiettò lontano dall’area d’irradiazione dell’ex impero romano, poi bizantino, le rotte commerciali per secoli contese tra le repubbliche mercantili; o il 1517, quando Lutero affisse le sue novantacinque tesi sul portale della chiesa del castello di Wittemberg. Ma questi due eventi sono strettamente legati a un terzo, anzi, se ne potrebbero considerare epifenomeni. Se volessimo indicare il vero inizio della modernità, l’evento che ha cambiato rotta ai traffici mediterranei spingendoli a ovest, che ha tolto al papato l’antagonista secolare dell’ortodossia lasciando spazio alla Riforma protestante, dovremmo indicare un’altra data: il 29 maggio 1453, quando Costantinopoli cadde in mano ai turchi osmani di Mehmet II Fâtih, il Conquistatore. Questo è il giorno che ha inserito violentemente l’islam nella dinamica geopolitica europea, dove l’impero ottomano si insedierà, continuando peraltro a intrecciarsi alla tradizione grecoromana. Perché il 29 maggio 1453 è la data di una caduta o di una conquista, a seconda dell’ottica con cui la si vuole guardare.
“Quando l'ombra dei riccioli scompigliati della notte simile a un indiano scese sulla guancia bianca del giorno, i combattenti della jihâd traversarono il fossato e appoggiarono scudi e scale alte come il cielo alle mura delle torri. La battaglia durò fino al mattino, fino a che l’Armata Greca dell’Alba non ebbe irrorato di sangue la piana dell'aurora per contendere la Fortezza Celeste dalle dodici torri al Comandante Negro del Crepuscolo che l'aveva occupata”. Così racconta lo storico turco Tursun Bey nella sua Cronaca del Padre della conquista, il capolavoro della letteratura ottomana antica, di cui finalmente esce oggi da Mondadori la traduzione italiana integrale, fortemente voluta da Pietro Citati e affidata a Luca Berardi, sotto il titolo La conquista di Costantinopoli.
E’ incantata, quasi allucinata, la descrizione dell’assalto all’alba del 29 maggio 1453, così crudamente e tragicamente riportato invece da Isidoro di Kiev, uno dei testimoni oculari bizantini, rocambolescamente sfuggito alla strage. La conquista di Costantinopoli fu un trionfo di sangue e di morte, ma l’occhio ottomano la paragona a una seduzione. Fortezza inespugnata, hortus conclusus dietro le altissime mura di Teodosio, nel folto dei suoi giardini, la Polis è la “la Città vergine”. Per lei il giovane sultano prova un'attrazione fisica, come per una donna desiderata in modo incontenibile. Il simbolismo sessuale ricorre ossessivamente nello strano linguaggio di Tursun Bey, in cui la poesia si mescola alla prosa e il persiano all’arabo e al turco: «L'immagine della sposa novella, la conquista di Costantinopoli, era divenuta la compagna inseparabile delle sue notti».  E’ esplicitamente erotica la descrizione stessa della Città: grande fessura profonda tra il Mar Nero e l'Ak Deniz, è un immenso organo sessuale femminile “che può accogliere nel suo seno infiniti vascelli, e contiene giardini meravigliosi e odora dei soffi profumati del nord e del nord-est”.
Per tutto l’assedio, del resto, il ventenne Mehmet si astiene dai piaceri sessuali. Costantinopoli è “la compagna inseparabile delle sue notti”. La prosa di nuovo si contrae in versi: “Spero di espugnarti con il cannone dei miei sospiri”.
Se la frenesia di conquista di Mehmet è, ad occhi ortodossamente islamici, “provvidenziale” perché ispirata dall’“ordine dell’incomparabile Bontà Divina”, motore della storia, nella spiritualità islamica, animata dal “grande vento del platonismo”, a sua volta l’ordine divino si traduce, nella realtà terrena, in eros mistico, proprio come vediamo l’ordine celeste e zodiacale rispecchiarsi, per Tursun Bey, in uno stato di continuo presagio e di vero e proprio delirio astrologico.
Il simbolismo zodiacale, l’attenzione al cielo, alle sue congiunzioni, ai suoi segni, delineano la topografia e la cronologia dell’assedio, condizionano gli stati d’animo e determinano anche l’azione bellica: “Con zelante fervore in qualche giorno i soldati ottomani ridussero ad appiattirsi al suolo alcune torri, che prima costituivano una linea parallela alla costellazione dell’Ariete”.
La struttura dell’accampamento del sultano rispecchia un ordine non solo gerarchico ma anche esotericamente cosmico: “Al centro fu posta la sala del trono, simile al Mondo, adorna come il Padiglione dell’Eden. Le tende dei giannizzeri formavano un cerchio tutt'attorno e la circondavano così come l'alone circonda la luna”.
Ancora oggi la bandiera turca rispecchia la congiunzione di necessità provvidenziale e geometria astrale nel cielo di quella notte: una falce di luna calante, com’era il 29 maggio 1453, con accanto la fulgida stella mattutina della sospirata Città.
Panagiotis Zografos , La presa di Costantinopoli
Appendice
L'assedio a Santa Sofia visto dai Cristiani e dagli Islamici
L’OCCHIO GRECO
“Tutti i viali, le strade e i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che colava dai cadaveri dei civili sgozzati e fatti a pezzi. Dalle case venivano trascinate fuori le donne, nobili e libere, l’ancella insieme alla padrona, a piedi nudi. Avresti dovuto vedere la più infima soldataglia turca scovare e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose. Nella chiesa che si chiamava di Santa Sofia, e che ora è una moschea turca, buttarono giù e fecero a pezzi tutte le statue, le icone e le altre immagini di Cristo, dei santi e delle sante. Saliti come invasati sul ripiano dell’ambone, sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto.
Abbattute le porte dell’iconostasi, agguantavano tutte le suppellettili sacre e le sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette. Preferisco passare sotto silenzio ciò che hanno fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d’oro con le immagini di Cristo e dei santi li usavano come giacigli per i loro cani e per i loro cavalli”.

(Lettera di Isidoro di Kiev a Bessarione, spedita da Candia il 6 luglio 1453. )

 Gentile Bellini, Ritratto del sultano Mehmet II
L
L’OCCHIO TURCO
“Mentre il sultano passeggiando visitava le file di abitazioni, le strade e I mercati di quell’antica metropoli e vasta fortezza, espresse il desiderio di visitare la chiesa chiamata Aya Sofya, che è modello del paradiso: O sufi, se cerchi il paradiso,/ Aya Sofya del paradiso è sommo cielo.
Dopo aver goduto dello spettacolo delle meravigliose e strabilianti opere d’arte presenti sulla superficie concava della cupola, il Sovrano dell’Universo salì sulla sua superficie convessa: la scalò come Gesù – l’Alito di Dio – ascese al Quarto Cielo. Dopo avere ammirato, dalle gallerie che sono fra i suoi piani, il pavimento simile a un mare ondoso, uscì all’esterno della cupola. Quando vide la degradazione e la rovina degli edifici annessi, pensò all’instabilità e alla volubilità del mondo. Considerò che la sua fine è la rovina, e malinconicamente, dalla sua favella che diffonde zucchero, scaturì questo distico: Il ragno tira le tende alla finestra di Cosroe,/ il gufo suona la musica di guardia nel palazzo di Efrâsyâb.

(Da Tursun Beg, Conquista della fortezza di Costantinopoli, pp. 81-82. )

 Testi ripresi dal blog di 

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