Il grande romanzo sperimentale. Il male oscuro di Giuseppe Berto
di Niccolò Scaffai
Se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male oscuro. Il capolavoro di Giuseppe Berto uscì nel 1964, quasi diciotto anni dopo il fortunato Il cielo è rosso, cui seguirono tra gli altri Il brigante (accolto assai peggio dalla critica, in particolare da Emilio Cecchi) e Guerra in camicia nera.
Già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), Berto si era
arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era
stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel
Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. Tornò in Italia nel ’46, a
trentadue anni (era nato a Mogliano Veneto nel 1914); con sé aveva i
manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi pubblicherà di lì a poco. Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro
– in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e
civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. Dopo i suoi
primi romanzi, Berto era considerato un neorealista – lo ricorda
l’autore stesso, in uno scritto di commento al Male oscuro. Ma
già nel 1950 «il neorealismo era finito perché era finita anche l’ultima
illusione che uno scrittore potesse essere tra i protagonisti della
vita d’un paese». D’altra parte, la crisi del neorealismo «portava lo
scrittore alla libertà»; occorrevano «una maggiore penetrazione
psicologica» e «un linguaggio più curato e complesso» – commenta Berto –
e fu allora che «venne la nevrosi». Il male oscuro è appunto
il memoriale di quella nevrosi (non di una generica depressione, sebbene
oggi l’espressione ‘male oscuro’ sia usata indistintamente per definire
la sofferenza psicologica), della sua radice nel rapporto con
l’autorità super-egotica del Padre (il narratore definisce il racconto
come storia di una «lunga lotta col padre»), del suo alimento nella
fatica inappagata della scrittura (il protagonista è uno sceneggiatore
malpagato, che non riuscirà mai a finire un suo romanzo, il
‘capolavoro’), della sua causa scatenante nel male fisico, delle sue
conseguenze nella crisi coniugale e nel distacco dalla famiglia. L’aver
abbandonato, per disgusto, il padre sul letto di morte ha generato nel
figlio un senso di colpa che lo porterà ad attribuire alla postuma
vendetta paterna ogni caduta e malessere patito; e guarigione non vi
sarà, se non accogliendo quella vendetta e finendo per assomigliare al
padre e ripeterne i gesti.
Molto di ciò che Berto racconta corrisponde alla sua biografia, eppure non è questa la più importante verità del Male oscuro.
Non è la verità che il libro dice, bensì la verità di cui è fatto; la
sua sostanza, cioè, non consiste in una fedeltà, ma in una forma
narrativa. Per questo, l’antenato del personaggio che scrive ‘io’ nel
romanzo di Berto, pur così direttamente autobiografico, è il narratore
Zeno, non l’autore Svevo. Così come il suo fratello maggiore è Gonzalo:
proprio dalla Cognizione è prelevata, del resto, l’espressione
‘male oscuro’. (Ma nel carattere del personaggio entrano pure certi
connotati pratici della macchietta satirica, di cui si nutre all’epoca
anche la commedia all’italiana).
Non sono pochi i contatti e le
somiglianze tra i romanzi di Svevo e Berto, a cominciare dal tema della
morte del padre; più in generale, comune ai due libri è lo scenario
enunciativo, cioè la psicanalisi come istigazione alla scrittura di un
memoriale. Non mancano altri specifici segnali allusivi (è un caso che
il protagonista del Male oscuro insista per chiamare la figlia
‘Augusta’, come la moglie di Zeno?) e le immediate citazioni: «pare che
la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si
potrebbe dire che la esalti come dimostrato ad abundantiam dal caso di
Italo Svevo». Proprio il confronto con La coscienza di Zeno,
tuttavia, aiuta a capire quale diversa disposizione nei confronti della
verità narrativa assuma il protagonista di Berto. La «distanza tra Svevo
e Berto, verificata direttamente sulla pagina, appare incolmabile»; a
osservarlo, giustamente, è Emanuele Trevi nel saggio che correda ora,
insieme a una postfazione di Gadda (da «Terzo Programma», 1965), la
nuova edizione del romanzo: Giuseppe Berto, Il male oscuro, Vicenza, Neri Pozza Editore, pp. 512, euro 18,00.
Per il narratore del Male oscuro,
raccontare non significa camminare sul bordo di un vuoto, facendo della
reticenza e della bugia un sistema retorico, una chiave per accedere ai
sensi impliciti. Nel Male oscuro, il vuoto viene saturato da
un’unica eloquente diceria: la pagina, perciò, non è più un velo, come
quello che Zeno stende tra sé e il passato, ma è una tela ossessivamente
riempita di caratteri, in cui i motivi essenziali si ripetono, appena
intervallati dalle virgole. Queste, d’altra parte, anziché organizzare
il discorso, gremiscono una pagina già fitta come un quadro di art brut. La verità non è, perciò, questione di controllo ed equilibrio, ma di esplicitazione ed eloquenza. Un horror vacui verbale, non meno sintomatico della menzogna, in cui si realizza lo stile psicoanalitico di Berto.
Si può paragonare (non assimilare)
questa modalità con il flusso di coscienza; ma è più utile riflettere
sulla poetica implicata da una simile scrittura, cioè sulla posizione
che, attraverso lo stile, questa scrittura e il suo autore occupano nel
campo letterario a loro contemporaneo. È lo stesso romanzo a dare le
coordinate, accennando alla cura «di cui ora molti parlano […] alquanto
superficialmente come del resto fanno anche certi romanzieri nostrani
per i quali il tocco psicoanalitico è dato dal particolare che Antonio
da piccolo tirava la coda al gatto». Gli scrittori dal «tocco
psicoanalitico» usano la materia per alludere senza dire, costruendo il
racconto intorno a un nucleo, a un nodo pulsionale o traumatico taciuto,
o meglio non commentato. Berto all’opposto fa di quel nodo il tema di
una continua affabulazione disperatamente polemica e umoristica, che
procede avanti e indietro nel tempo come una lancetta mossa ad arbitrio
sul quadrante.
Se il male è oscuro, Berto sfida
l’oscurità come tecnica narrativa e prospettiva conoscitiva. È una sfida
sofferta e, nella vicenda del protagonista, perduta. Le diverse istanze
– la scrittura, la paura del male e la cura, l’eros misogino – non si
conciliano e anzi producono lacerazioni sempre più profonde, perdita
affettiva, sconfitta professionale. Fino al conclusivo isolamento, che
sfata il clima di un’epoca, gli ideali di progresso, la meccanica
dell’ascesa sociale. L’aspirazione alla gloria letteraria resta
insoddisfatta, l’ambizione di rivaleggiare con quelli che il
protagonista chiama i ‘radicali’ – gli intellettuali di successo, i
Moravia, i Tecchi, i Bellonci – viene frustrata. Ma la frustrazione
diventa una risorsa del racconto, permettendo al narratore di dipingere
con la tinta del suo amaro umorismo la società culturale romana – gli
scrittori di riferimento, i produttori, gli sceneggiatori «ai tavolini
di Canova o Rosati a piazza del Popolo, o al caffè Greco […] o ai caffè
di via Veneto» – e di prendere contropelo quel tratto di Novecento
spesso idealizzato con nostalgia un po’ elitaria. In quella
frustrazione, si sconta certo anche la convinta militanza giovanile
dell’autore dalla parte sbagliata. Ma il sentimento è elevato a stile e
assunto come espressione idiosincratica del mondo: nel Male oscuro,
osserva Gadda, il racconto di una nevrosi s’incrocia con quello di una
psicosi, i «cittadini e cittadine della Città folle vengono colti e
ritratti nei loro giudizi sbagliati, nei loro movimenti sbagliati».
Il male oscuro è un libro di
peculiare importanza e di miglior tenuta rispetto ad altre opere
emblematiche o programmaticamente sperimentali uscite negli stessi anni.
Per almeno due motivi. Il primo è la rappresentazione di «un tempo in
cui tutto va per via di amicizie e raccomandazioni», che somiglia al
tempo in cui viviamo, tentati in pari misura – come l’eroe fallito di
Berto – dalla rivolta e dalla rinuncia; oppressi e attratti da estinti
modelli paterni, imbarazzati dal futuro (come il protagonista dinanzi
alla figlia ormai cresciuta). Il secondo motivo è la scrittura, che
resta leggibile anche nell’oltranza dello stile; una scrittura fatta per
raccontare la realtà di tutti, attraverso il sentire patologico di un
individuo che parla sempre di sé – è vero – ma che lo fa reagendo alle
ossessioni di un’intera società.
Da http://www.leparoleelecose.it/?p=26113
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