06 febbraio 2017

IL CINEMA AI TEMPI DI H. BOGART





Sessant'anni fa moriva Humphrey Bogart, il più grande attore del noir. Eroe malinconico, conquistava lo spettatore con lo sguardo disincantato e il sorriso amaro. Rivedendo i suoi films si capisce l'imbarbarimento di gran parte del cinema d'oggi che per creare emozioni sa solo utilizzare effetti speciali, esibizioni muscolari, inseguimenti in auto e fiumi di sangue.

Alberto Manguel

Quando diventammo Bogart

Di solito le facce degli attori sono immediatamente riconoscibili, come marchi o loghi nel vocabolario mitologico della nostra epoca. Gli uomini e le donne invecchiano, ma le loro facce diventano congelate nel tempo, nell’istante della loro massima venerazione: la faccia di Charlie Chaplin a trent’anni, quella di Marilyn Monroe a venti, quella di Anna Magnani a cinquanta.

La faccia di Bogart — lo sguardo inflessibile, la sigaretta appesa alle labbra, la mascella bellicosa — è diventata un’icona in un’età imprecisata, né giovane né ancora anziana. Sulle locandine dei suoi film, dal Mistero del falco a Casablanca, il volto che ci fissa con aria… — come? Sprezzante? Beffarda? Minacciosa? — sembra senza età. Nello slang americano del XXI secolo, to bogart significa tenersi stretto qualcosa egoisticamente, per esempio una canna.

Walter Benjamin è famoso per aver osservato che una volta che un’opera d’arte viene riprodotta, diventa riproducibile all’infinito. Per dirla in altre parole, se si lascia che un’immagine venga moltiplicata più volte nello stesso identico modo, genera di per sé una sorta di monotona immortalità. Aby Warburg (celebre critico d’arte, ndt) affrontava il problema da un altro punto di vista e distingueva tra un’immagine che viene fatta resuscitare e una che sopravvive senza mai scomparire dal nostro immaginario. Quest’ultima condizione la definiva «l’oltretomba delle immagini» e la comparava a quei fantasmi senza età che continuano a essere presenti fra noi anche dopo che sono morti.

La rappresentazione artistica di solito ricerca la singolarità, ma spesso viene infettata dalla potenza di questo “oltretomba”. I romani ne erano consapevoli quando riproducevano immagini dei Cesari che diventavano simboli del potere imperiale separati dalle caratteristiche psicologiche individuali o dalla ritrattistica biografica terrena, come anche, più tardi, la figura del Cristo nelle sue varie rappresentazioni (il Cristo nel presepe, il Cristo sofferente, il Cristo sulla croce). E ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

di Benjamin, il processo è diventato più semplice, se non obbligatorio. Un’opera teatrale, quando viene messa in scena, esiste in uno spazio e un momento specifici, un film invece esiste sub specie aeternitatis. È questo che rende così pregnante la scena in cui Norma Desmond guarda e riguarda sullo schermo le immagini di lei più giovane, in Viale del tramonto: invecchia ma al tempo stesso rimane giovane, il suo fantasma fissato in eterno sullo schermo impietoso.

Gli attori che fanno il salto dal palcoscenico allo schermo o viceversa lo fanno a loro rischio e pericolo: l’immortale Sarah spezzava i cuori a teatro, ma suscitava risatine soffocate su pellicola; Al Pacino, di certo una delle star più elogiate di Hollywood, è stato fischiato nella sua esecuzione di China Doll a Broadway. L’immagine riprodotta meccanicamente e l’immagine creata ex novo ogni sera richiedono qualità recitative differenti.
Ma esistono attori che per qualche oscuro motivo hanno successo in entrambi i regni, e sono in grado di produrre una performance completa sul palco e un’interpretazione taglia- e-incolla per lo schermo. Humphrey Bogart era uno di questi. Cominciò la sua carriera in teatro nel 1921, nel ruolo di un cameriere giapponese che aveva solo una battuta, con accetto pseudo-orientale: «Da bele pel mia signola e suoi molto onolevoli ospiti». Qualche anno dopo, diede prova del suo talento ne La foresta pietrificata di Robert Sherwood, in cui interpretava la parte di un omicida evaso in modo talmente convincente che il pubblico si lasciò sfuggire un grido di orrore la prima volta che entrò sul palco.

Un critico fortunato, che aveva assistito a una delle rappresentazioni e successivamente aveva visto la versione cinematografica, disse che i tic nervosi e l’aura di malvagità che emanava Bogart sul palcoscenico nel film si erano mutati in qualcosa di molto più freddo e meno espressivo.

Sul grande schermo, Bogart ti ipnotizzava perché non faceva quasi nulla. Quello sguardo freddo in cui gli spettatori leggevano qualcosa a metà strada fra astio e disprezzo, quelle posture sgraziate giudicate estremamente virili, e in particolare quell’eloquio strascicato che contrastava così efficacemente con i toni rochi di Lauren Bacall, venivano ripetuti film dopo film in modo quasi identico. Le sue partner cambiavano — la Bacall, Mary Astor, Katharine Hepburn — il contesto cambiava — le strade malfamate nei suoi film di gangster, le dune desolate di Una pallottola per Roy, il fiume nella giungla de La regina d’Africa — ma Bogart rimaneva invariabile.

Che cos’è che fa di Bogart quasi un mostro sacro, nei nostri capricciosi vocabolari culturali? Certamente le caratteristiche stereotipate e ripetute dei suoi film, la famosa incuranza apparente dei suoi movimenti, per non dimenticare le memorabili battute che squadre di sceneggiatori gli fornivano per infondere vita a quel volto impietrito: «Se ti danno uno schiaffo, te lo tieni e ringrazi», «Non mi importa se i miei modi non le piacciono; in confidenza non piacciono neanche a me, ci piango su spesso, specialmente durante le lunghe sere d’inverno »; «La sola cosa che mi interessa della tua testa è quanto ci metterò a rompertela», e l’immensamente famoso «Louis, credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia».

Tutto questo spiega in parte la fascinazione esercitata da Bogart. Si dice che il regista Rouben Mamoulian abbia consigliato alla Garbo, durante le riprese de La regina Cristina, nella scena in cui lei fissa il mare notturno dal ponte della nave, di «non pensare a nulla». In quei lineamenti vuoti gli spettatori leggevano fiumi di angoscia esistenziale e desiderio. Lo stesso si può dire, in buona parte, su Bogart.

La Repubblica – 28 gennaio 2017

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