Sessant'anni fa moriva
Humphrey Bogart, il più grande attore del noir. Eroe malinconico,
conquistava lo spettatore con lo sguardo disincantato e il sorriso
amaro. Rivedendo i suoi films si
capisce l'imbarbarimento di gran parte del cinema d'oggi che per creare emozioni sa
solo utilizzare effetti speciali, esibizioni muscolari, inseguimenti
in auto e fiumi di sangue.
Alberto Manguel
Quando diventammo
Bogart
Di solito le facce degli
attori sono immediatamente riconoscibili, come marchi o loghi nel
vocabolario mitologico della nostra epoca. Gli uomini e le donne
invecchiano, ma le loro facce diventano congelate nel tempo,
nell’istante della loro massima venerazione: la faccia di Charlie
Chaplin a trent’anni, quella di Marilyn Monroe a venti, quella di
Anna Magnani a cinquanta.
La faccia di Bogart —
lo sguardo inflessibile, la sigaretta appesa alle labbra, la mascella
bellicosa — è diventata un’icona in un’età imprecisata, né
giovane né ancora anziana. Sulle locandine dei suoi film,
dal Mistero del falco a Casablanca, il volto che
ci fissa con aria… — come? Sprezzante? Beffarda? Minacciosa? —
sembra senza età. Nello slang americano del XXI secolo, to bogart
significa tenersi stretto qualcosa egoisticamente, per esempio una
canna.
Walter Benjamin è
famoso per aver osservato che una volta che un’opera d’arte viene
riprodotta, diventa riproducibile all’infinito. Per dirla in altre
parole, se si lascia che un’immagine venga moltiplicata più volte
nello stesso identico modo, genera di per sé una sorta di monotona
immortalità. Aby Warburg (celebre critico d’arte,
ndt) affrontava il problema da un altro punto di vista e
distingueva tra un’immagine che viene fatta resuscitare e una che
sopravvive senza mai scomparire dal nostro immaginario. Quest’ultima
condizione la definiva «l’oltretomba delle immagini» e la
comparava a quei fantasmi senza età che continuano a essere presenti
fra noi anche dopo che sono morti.
La rappresentazione
artistica di solito ricerca la singolarità, ma spesso viene
infettata dalla potenza di questo “oltretomba”. I romani ne erano
consapevoli quando riproducevano immagini dei Cesari che diventavano
simboli del potere imperiale separati dalle caratteristiche
psicologiche individuali o dalla ritrattistica biografica terrena,
come anche, più tardi, la figura del Cristo nelle sue varie
rappresentazioni (il Cristo nel presepe, il Cristo sofferente, il
Cristo sulla croce). E ne L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica
di Benjamin, il processo
è diventato più semplice, se non obbligatorio. Un’opera teatrale,
quando viene messa in scena, esiste in uno spazio e un momento
specifici, un film invece esiste sub specie aeternitatis. È questo
che rende così pregnante la scena in cui Norma Desmond guarda
e riguarda sullo schermo le immagini di lei più giovane, in Viale
del tramonto: invecchia ma al tempo stesso rimane giovane, il
suo fantasma fissato in eterno sullo schermo impietoso.
Gli attori che fanno il
salto dal palcoscenico allo schermo o viceversa lo fanno a loro
rischio e pericolo: l’immortale Sarah spezzava i cuori a teatro, ma
suscitava risatine soffocate su pellicola; Al Pacino, di certo
una delle star più elogiate di Hollywood, è stato fischiato nella
sua esecuzione di China Doll a Broadway. L’immagine
riprodotta meccanicamente e l’immagine creata ex novo ogni sera
richiedono qualità recitative differenti.
Ma esistono attori che
per qualche oscuro motivo hanno successo in entrambi i regni, e sono
in grado di produrre una performance completa sul palco e
un’interpretazione taglia- e-incolla per lo schermo. Humphrey
Bogart era uno di questi. Cominciò la sua carriera in
teatro nel 1921, nel ruolo di un cameriere giapponese che aveva solo
una battuta, con accetto pseudo-orientale: «Da bele pel mia signola
e suoi molto onolevoli ospiti». Qualche anno dopo, diede prova del
suo talento ne La foresta pietrificata di Robert
Sherwood, in cui interpretava la parte di un omicida evaso in modo
talmente convincente che il pubblico si lasciò sfuggire un grido di
orrore la prima volta che entrò sul palco.
Un critico fortunato, che
aveva assistito a una delle rappresentazioni e successivamente aveva
visto la versione cinematografica, disse che i tic nervosi e l’aura
di malvagità che emanava Bogart sul palcoscenico nel film si erano
mutati in qualcosa di molto più freddo e meno espressivo.
Sul grande schermo,
Bogart ti ipnotizzava perché non faceva quasi nulla. Quello sguardo
freddo in cui gli spettatori leggevano qualcosa a metà strada fra
astio e disprezzo, quelle posture sgraziate giudicate estremamente
virili, e in particolare quell’eloquio strascicato che contrastava
così efficacemente con i toni rochi di Lauren Bacall, venivano
ripetuti film dopo film in modo quasi identico. Le sue partner
cambiavano — la Bacall, Mary Astor, Katharine Hepburn — il
contesto cambiava — le strade malfamate nei suoi film di gangster,
le dune desolate di Una pallottola per Roy, il fiume nella
giungla de La regina d’Africa — ma Bogart rimaneva
invariabile.
Che cos’è che fa di
Bogart quasi un mostro sacro, nei nostri capricciosi vocabolari
culturali? Certamente le caratteristiche stereotipate e ripetute
dei suoi film, la famosa incuranza apparente dei suoi movimenti, per
non dimenticare le memorabili battute che squadre di sceneggiatori
gli fornivano per infondere vita a quel volto impietrito: «Se ti
danno uno schiaffo, te lo tieni e ringrazi», «Non mi importa se i
miei modi non le piacciono; in confidenza non piacciono neanche a me,
ci piango su spesso, specialmente durante le lunghe sere d’inverno
»; «La sola cosa che mi interessa della tua testa è quanto ci
metterò a rompertela», e l’immensamente famoso «Louis, credo che
questo sia l’inizio di una bella amicizia».
Tutto questo spiega in
parte la fascinazione esercitata da Bogart. Si dice che il regista
Rouben Mamoulian abbia consigliato alla Garbo, durante le riprese
de La regina Cristina, nella scena in cui lei fissa il mare
notturno dal ponte della nave, di «non pensare a nulla». In quei
lineamenti vuoti gli spettatori leggevano fiumi di angoscia
esistenziale e desiderio. Lo stesso si può dire, in buona
parte, su Bogart.
La Repubblica – 28
gennaio 2017
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