Milano, P.zza Duomo, 1961
La pietà oggettiva di Pagliarani
di Massimo Raffaeli
Si intitolava Il mare dell’oggettività il
saggio di Italo Calvino che apriva il secondo numero del “Menabò”, la
rivista redatta per Einaudi con Elio Vittorini, e dava conto di quella
che si sarebbe definita anche in Italia letteratura industriale: era il
1960, anno baricentrico del Boom economico, e nel fascicolo oltre a una
rassegna di Franco Fortini comparivano testi di Roberto Roversi, Paolo
Volponi, Francesco Leonetti e di un romagnolo di Viserba da tempo
residente a Milano, trentatreenne, Elio Pagliarani, già presente in
“Officina” e firmatario di un paio di plaquettes (Cronache e altre poesie, Schwarz 1954, Inventario privato,
Veronelli 1960) che ne facevano un tramite fra lo sperimentalismo anni
cinquanta e la neoavanguardia successiva, tanto che la sua presenza
nella antologia dei Novissimi (1961) lo avrebbe subito individuato quale voce laterale, estranea a qualunque poetica organica, e outsider del
Gruppo 63. Refrattaria alla messa in pagina di un io autocentrato e
dunque proclive all’ascolto delle presenze e delle voci del mondo, la
poesia di Pagliarani, memore innanzitutto della lezione di Ezra Pound,
castigando il narcisismo secolare si disponeva ad accogliere i dati
della realtà più imminente, un mondo ormai a colori e in tumultuosa
trasformazione. Milano era il suo panottico, la specola da cui scrutare,
per frammenti e scorci, un paese i cui assetti arcaici si avviavano in
poco d’ora a divenire gli stessi di una potenza industriale e
compiutamente neocapitalista. Perciò la pietas iscritta nella
parola del poeta, vale a dire la capacità di accogliere i dati della sua
esperienza diretta del mondo, non avrebbe potuto che essere, stante la
potenza di un suo verso poi proverbiale, una pietà oggettiva.
Di tutto questo era flagrante testimone, in quel numero del “Menabò”, il
poemetto pubblicato in volume da Mondadori nel ’64, ritenuto da molti,
sottotraccia, un classico e infatti come tale oggi riedito, La ragazza Carla (Il
Saggiatore, “Le Silerchie”, pp. 63, € 16.00) con una partecipe
prefazione di Aldo Nove che ne legge lo spazio ambiente in un set infernale
“in cui il poeta funge da regista e, anzi, si sottrae anche alla
funzione di sceneggiatore: il che ci fa pensare più al cinema che alla
poesia, e alla definizione che Eizenstejn dette del cinema stesso come
arte del montaggio”. Non è un caso che un
giovanissimo Pagliarani, appena approdato a Milano, nell’immediato
dopoguerra avesse pensato a un simile soggetto da inviare a De Sica e
Zavattini per un film. Scritto fra il ’54 e il ’57, si tratta di un
poemetto diviso in sette parti alla pari di una suite in versi
liberi che alternano tonale e atonale; al centro c’è il romanzo di
formazione di “Carla Dondi fu Ambrogio, di anni diciassette”, la quale
abita in una casa di ringhiera lontana dal centro, vive con sua madre
pantofolaia e la sorella Nerina, malmaritata. Carla ha smesso di
studiare, è dattilografa in un ufficio intorno a cui sfavillano insegne
luminose, traffici, merci (vita ferro città pedagogia, dice qui
un asindeto micidiale) e dentro cui la attendono un lavoro ripetitivo e
le viscide attenzioni del capufficio dal nome allusivo, il “Pratèk”. In
realtà, Carla è una eroina che non sa di esserlo e insieme è un capro
espiatorio della nuova città industriale di cui assorbe i ritmi ciclici
della produzione, li subisce e diventa via via un necessario ingranaggio
di essa. Nonostante un pallido o presunto fidanzato, Aldo, lei non ha
nemmeno una vita sentimentale, la sua domenica le sembra così vuota che è
costretta a prendere sonniferi per farla trascorrere in fretta. Di
tanto benessere sopraggiunto, Carla deve accontentarsi di quasi nulla,
di una blusa nuova, di un rossetto, infine del semplice spettacolo del
benessere che è sempre, tuttavia, il benessere altrui. Pagliarani
insegue il Bildungsroman di Carla, necessariamente
fallimentare, da poeta epico e capace di assorbire le voci e le strida
della città affluente per poi impaginarle in una vera e propria,
stridente e percussiva, polifonia. E quanto a ciò, disse uno dei suoi
critici maggiori, Fausto Curi, che “nella poesia di Pagliarani il
lettore percepisce la atmosfera sociale della parola e che la parola di Pagliarani è in qualche modo, sempre, la parola altrui”.
Carla appare spossessata della vita viva e va incontro al lettore quasi
fosse, alla fine, un insetto inglobato nel quarzo durissimo della città
industriale. La sua esistenza, valore d’uso, è divenuta tutta quanta
valore di scambio come dicono i versi presaghi, pronunciati fuoricampo e
persino sapienziali, che suggellano il poemetto: “Quanto di morte noi
circonda e quanto/ tocca mutarne in vita per esistere/ è diamante sul
vetro, svolgimento/ concreto d’uomo in storia che resiste/ solo vivo
scarnendosi al suo tempo/ quando ristagna il ritmo e quando investe/ lo
stesso corpo umano a mutamento”. Fatto sta, sia detto ora per allora,
che forse nessun altro testo ha saputo tradurre con altrettanta
intensità e vividezza allegorica il passaggio decisivo, in Italia, fra
gli anni della Ricostruzione e del Miracolo, nessuno ha saputo dedurne
con pari “oggettività” (questa, fuori dal suo abuso consueto, è proprio
la parola-chiave di Pagliarani) il costo umano, immenso e per lo più
silenzioso. Oggi lo commemora, alla lettera, il bellissimo film di
Alberto Saibene, La ragazza Carla dal poema omonimo di Elio Pagliarani
(dvd Museo Interattivo del Cinema- Rai Cinema, s.i.p.) con Carla
Chiarelli e la partecipazione di Elio. Docile alla partitura poetica
senza esserne la didascalia, il film è incentrato sul corpo/voce di
Carla Chiarelli che sa tradurne con esattezza e grande naturalezza la
polifonia e perciò la grana di una voce ora in grado di precipitare in
chiose strette e lancinanti ora di dilatarsi, invece, in assembramenti
descrittivi e in blocchi di prosa-prosa. Carla non si esprime in prima
persona, non è mai in primo piano ma è sempre richiamata, incombente.
C’è semmai in controluce la sua silhouette, il moto desultorio
della sua parabola individuale e sociale, come un ritmo di dolorosa
fatalità che le immagini di repertorio (un biancoenero classico e mai
retorico, interni dignitosi ma poveri, esterni di vita quotidiana,
ordinaria) assecondano e talora riportano al qui-e-ora, negli inserti
dolcemente eppure efferatamente ironici di Elio come nelle immagini
girate al presente, costellate di nuove solitudini, di esistenze spesso
mutamente deragliate e opacizzate. Scrive Saibene nella brochure allegata
al dvd: “Di fronte avevamo un capolavoro misconosciuto della poesia
italiana del secondo Novecento che racconta una vicenda universale (il
drammatico ingresso nella vita di un’adolescente) in un preciso tempo
storico (la Milano del dopoguerra). Per ricostruire quel clima siamo
ricorsi ai repertori d’epoca che abbiamo messo a specchio con l’identità
della Milano di oggi, cercandone le analogie”. Per parte sua, Elio
Pagliarani in una pagina autobiografica racconta che iniziò a scrivere
il poemetto (“Di là dal ponte della ferrovia/una traversa di viale
Ripamonti”) in un’aula di terza media milanese, nell’autunno del ’54,
dopo avere dettato il titolo di un compito in classe, e che una
ragazzina incuriosita venne subito alla cattedra per sbirciare nel
foglio: era certo anche lei una ragazza Carla, del tutto ignara del
proprio destino.
Pezzo già uscito su «Alias». Noi l'abbiamo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=26295
Nessun commento:
Posta un commento