Franco Cardini
L’Oriente sognato
dalla nave di Sindbad
Nel film “Les visiteurs
du soir” di Marcel Carné (tradotto in italiano come “L’amore e
il diavolo”) si ascoltava fascinosa la voce di sogno del
menestrello Gilles, un giovanissimo e bellissimo Alain Cuny, che al
centro della sala di un adorabile castello falsomedievale di
cartapesta cantava i versi di Jacques Prévert, i più belli forse
che egli abbia mai scritto. Il film era la favola bella del maniero
infestato dallo Spirito del Male e dell’amore che vince ogni cosa,
che tutto purifica, che respinge e mette in fuga il demonio. Uscito
nel 1942, era un messaggio di speranza per Parigi preda dell’incubo,
prigioniera del faustiano sogno di onnipotenza del Necromante di
Berlino e della sua armata che allora sembrava invincibile.
Quel verso
indimenticabile, che associava demoni e incantesimi a meraviglie e
maree, che sapeva di oceani e di leggende, evocava irresistibilmente
un capolavoro ispirato a Le Mille e Una Notte: la musica della
Sherazade di Nikolaj Andreievich Rimskij- Korsakov. Non era, non è
l’Oriente: non quello “vero” che del resto – Edward Said ha
ragione – non è mai esistito, è una proiezione dell’Occidente
che del resto non esiste nemmeno lui. Eppure senza quel sogno, che
per tanti versi ci definisce, noi che ci definiamo “occidentali”
soffriremmo di un deficit identitario in più. L’Oriente ci
avvolge, c’incanta, ci attrae e ci perseguita: e non è certo –
grazie a Dio – quello del “califfo” al-Baghdadi.
Che cosa significhi in
realtà quell’Oriente, tanto nella storia quanto nel nostro
immaginario, lo spiega in questi giorni una splendida mostra proprio
a Parigi, all’Institut du Monde Arabe, due passi da Place de la
Bastille. Aventuriers des mers. De Sindbad à Marco Polo, visitabile
fino al 26 febbraio (e poi dal 7 giugno al 9 ottobre a Marsiglia, al
Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée) vale
la pena di un viaggio apposito. E non perdetevi il suo catalogo
(pubblicato da Hazan).
Tema specifico della
mostra (oggetti, documenti, manoscritti, maquette, filmati, una
ricchissima cartografia) è in primo luogo lo sterminato mondo dei
viaggiatori e geografi musulmani del medioevo: da al-Idrîsî (ca
1100-1165) a Ibn Jubayr (1145-1217) a Ibn Battûta (1304-1377); senza
dimenticare però nemmeno il veneziano Marco Polo (ca. 1254-1324), il
più celebre fra i viaggiatori europei.
Ma c’è molto di più
di quanto viene promesso. Ci si trova davanti a un sorprendente coup
d’oeil sulla storia del mondo, che sconvolgerà molti di noi
assuefatti all’eurocentrismo e ai confini del Mediterraneo. Qui, il
protagonista è appunto l’Oceano Indiano de Le Mille e Una Notte
con il suo Ulisse arabo-persiano, Sindbad il Marinaio: e, in tempi di
matura globalizzazione, questo rovesciamento di prospettive sarà per
molti una vera e propria scoperta rivelatrice.
I romani conoscevano la
“Via dell’Incenso” (o “delle Spezie”; o “degli Aromi”)
che dall’estremità della penisola arabica conduceva preziose
mercanzie provenienti via mare dall’India o dalla Cina. Essi
avevano anche rapporti mercantili via terra, sia pur indiretti, con
l’Estremo Oriente e con il “paese dei seres”, cioè dei
produttori di seta: la Cina. Alessandro Magno si era del resto spinto
fino all’India: e della sua avventura era rimasta una possente
traccia leggendaria nella cultura occidentale.
I romani avevano però
guardato soprattutto a quel mondo mediterraneo che conoscevano
meglio: e i loro viaggiatori ed enciclopedisti (Pomponio Mela, Plinio
il Vecchio, Solino) si erano dati nel tempo a riempire il vuoto di
notizie a loro disposizione sul continente asiatico con una quantità
di nozioni in parte rispondenti a una realtà spesso fraintesa o
mista ad elaborazioni leggendarie.
La seta e le altre
preziose merci giungevano al Mediterraneo attraverso le rapide
ancorché pericolose rotte che rapide attraversavano, sfruttando il
clima monsonico, l’Oceano Indiano; dall’estremità della penisola
arabica si risaliva poi lungo le carovaniere fino a Damasco o si
trasferivano i carichi per via d’acqua lungo il Nilo fino ad
Alessandria.
Ma i cinesi, le
spedizioni e le esplorazioni dei quali si spinsero pur fino al Golfo
Persico, non dimostrarono mai per l’Occidente un entusiasmo o una
curiosità pari a quelli che gli occidentali dimostravano nei loro
confronti.
Del resto, noi avevamo
molto da chieder loro (“le spezie” erano indispensabili per la
medicina, la gastronomia, la tintura delle stoffe), ma praticamente
nulla da offrire. D’altra parte, quello che può sfuggire a un
occidentale odierno è che comunque, nel medioevo come
nell’antichità, l’Europa altro non era che un piccolo e
sottosviluppato annesso nordoccidentale della grande Asia.
Se gli europei sapevano
dunque poco di quel continente, molto più di loro conoscevano gli
arabi che erano abituati a viaggiare in quel continente e a
commerciare con esso. E a partire dal VII secolo, con la nascita e
l’espansione dell’Islam, si venne a creare un ponte continuo fra
Oriente asiatico e Occidente europeo. Mediterraneo e Nordafrica ne
furono i tramiti.
Fin dal IX secolo i
mercanti del Golfo Persico frequentavano la Cina mentre le navi
giavanesi giungevano, favorite dal regime stagionale dei monsoni,
fino alla penisola arabica. Anche se per via di terra il commercio
era florido, e il fascio carovaniero che noi chiamiamo la “Via
della Seta” attraversava i deserti del Gobi e le oasi turkestane,
furono soprattutto le vie d’acqua quelle che favorirono i commerci
e gli scambi. Già nel VI secolo la produzione della seta si era
impiantata a Bisanzio, anche se fu solo dal VII e dalla prima
intermediazione araba che essa si fece più diffusa.
Insieme alla seta la
produzione della carta di stracci, sostituto sia del papiro sia della
pergamena, cominciò a diffondersi grazie agli arabi a partire dalla
stessa epoca. Ma, oltre alla seta, altre merci viaggiavano sulle vie
commerciali eurasiatiche. Le più richieste e pregiate erano l’oro
e l’argento di Sumatra, della Malesia e della Corea; il sandalo, il
bambù, l’albero della canfora da cui si estraeva un’apprezzata
essenza; gli aromi come l’incenso e il muschio; le pietre preziose
come rubini e zaffiri, provenienti da Ceylon o dall’India.
Altrettanto ricco era
quello delle spezie vere e proprie: pepe, noce moscata, cannella
(“cardamomo”), chiodi di garofano. Una sezione dell’esposizione
parigina mette alcune di queste spezie in evidenza all’interno di
teche: ed è una riscoperta, perché da generazioni certe sostanze un
tempo familiari anche nelle nostre farmacie sono ormai scomparse.
E c’erano altre merci
ancora, forse addirittura più importanti: strumenti scientifici,
carte geografiche, libri, culti religiosi, idee, racconti. Di qui il
richiamo, nel titolo della mostra, a Sindbad: se Marco Polo
rappresenta il mercante europeo, sia pure affascinato dall’Asia, il
leggendario marinaio delle Mille e Una Notte è il richiamo a una
dimensione dell’immaginario che molto deve alla cultura
indopersiana.
Sindbad, al pari del
divino Ulisse, molto vide e molto soffrì: affrontò l’isola del
Monte della Calamita che, attraendo il ferro, sfasciava le navi i cui
scafi erano rafforzati da chiodi (i marinai dell’Oman lo
sapevano…); sfidò l’immenso Uccello Ruk, un leggendario volatile
del quale parla anche Marco Polo e di cui qualche decennio fa si
occupò Rudolph Wittkower (1901-1971), il quale – indagando la
“migrazione dei simboli” da est a ovest - ne ha individuato le
origini nel combattimento tra l’uccello solare Garuda e il serpente
ctonio Naga, entrambe figure del mito induista.
Ma esso ha un parallelo
preciso in Persia, dove una creatura alata del tutto simile prende il
nome di Simurgh. Dall’India e dalla Persia le storie e le immagini
di questa creatura si diffusero verso il mondo turcofono dell’Asia
centrale (e oltre, fino alla Cina) e da là al Caucaso fino a
raggiungere la stessa Grecia: e il grifone che Dante incontra sulla
cima del monte del Purgatorio forse ne dipende.
Questo commercio
intercontinentale, per tanti versi poco noto, è stato la base reale
della nostra prosperità moderna: e non stupirà se vie, rotte e
mercanzie concretissime grondassero di leggende. Noi siamo fatti
della stessa stoffa dei nostri sogni.
La Repubblica – 28
gennaio 2017
Nessun commento:
Posta un commento