L'ULTIMO MARX E NOIdi Annibale C. Raineri 10 febbraio 2017
Nel 2016 Donzelli ha pubblicato il libro di Marcello Musto L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale. Vale la pena soffermarcisi.
Come chiarito dal sottotitolo, si tratta di un saggio di biografia intellettuale, che si avvale della gran mole di materiali che negli ultimi anni sono divenuti accessibili e che, secondo Musto, modificano l’immagine del vissuto e del pensiero di Marx fin ora consolidata.
Anzitutto biografia: Musto ci consegna l’immagine di Marx uomo negli ultimi tre anni della sua vita, alle prese con le sofferenze, i dolori e le (poche) gioie che quegli anni gli hanno concesso, ma che conserva la sua umanità nonostante il destino ostile, che lo perseguita financo con un’avversione climatica che fiacca il corpo malato. Marx affronta questo destino con lo spirito tenace di un combattente, che continua a tenere per le vicende più ampie della storia dell’umanità, nonostante viva, soggettivamente e non solo oggettivamente, una condizione di isolamento anche e specialmente nei confronti di quelli che dovrebbero essere i suoi più affini solidali, la frastagliata famiglia del movimento socialista nella penultima decade dell’Ottocento.
Resterebbe deluso chi cercasse in questo libro l’approfondimento teorico delle questioni irrisolte nell’ultima ricerca di Marx. Tuttavia il volume ci offre lo spunto per ridefinire la prospettiva nella quale dovrebbero collocarsi coloro che alle opere e alla vita di Marx continuano a fare riferimento, prendendo a testimone il lavorio cui lo stesso Marx sottopose il proprio pensiero, cercando nuovi orizzonti a partire dai quali superare l’impasse in cui si era trovata tanto la pratica che la teoria del “marxismo”.
Caratteristica di questo periodo è l’estremo ampliamento dell’ambito delle ricerche di Marx, nonostante il succedersi dei drammi familiari, l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, e l’urgenza interiore di completare l’opera cui aveva dedicato la sua vita, Il capitale, e alla quale assegnava un ruolo fondamentale («Emblematicamente, quando proprio nel 1881 Marx fu interrogato da Karl Kautsky, circa l’opportunità di un’edizione completa dei suoi testi, egli rispose causticamente: – Questi dovrebbero prima di tutto essere scritti.», p. 78)
Provo a indicare i punti che mi sembrano essenziali:
1. l’approfondimento delle scoperte in ambito antropologico, cui si dedica con intensità negli anni 1881-82;
2. la ripresa della ricerca storiografica di lunga durata;
3. la ferma opposizione all’oppressione coloniale in India, Egitto e Algeria ed il sostegno alla lotta di liberazione dell’Irlanda;
4. l’attenzione per la conoscenza delle forme di proprietà comune pre-capitalistica, non solo dal punto di vista storico, ma anche nei processi a lui contemporanei di esistenza/trasformazione delle forme di proprietà comune e di organizzazione politico-sociale non statuale (in particolare per le trasformazioni che vive la comune rurale in Russia, ma anche per le forme economiche e politiche non borghese-privatistiche né statuali del mondo islamico, con cui ha occasione di entrare in contatto grazie al suo viaggio in Algeria alla ricerca – fallita – di un clima più mite, secondo l’indicazione sanitaria).
Marx si era occupato delle formazioni sociali precapitalistiche sin dagli anni Cinquanta, tornandovi alla fine degli anni Settanta. Ma perché tornarvi, dedicando a tali studi non solo di storia economica, ma propriamente antropologici, un tale dispendio di tempo, in un’epoca in cui per ragioni di salute le sue energie erano ridotte? perché dedicarvi tanto tempo e tante energie in un periodo in cui sente così acutamente il peso del non essere riuscito a chiudere gli studi sul Capitale e a darne una versione completa e per lui appagante? La risposta di Marcello Musto, con cui mi sento di convenire, è che «questo gli serviva anche per dare delle fondamenta storiche più solide alla possibile trasformazione di tipo comunista della società» (p. 21). È questo un punto al quale sono particolarmente interessato: mentre Marx continua a cercare di descrivere la dinamica strutturale del modo di produzione capitalistico, e quindi la logica cui sono sottoposte le società in cui esso domina, si affaccia al suo pensiero l’ipotesi (certo non pienamente cosciente, ma tuttavia fortemente operante in lui) che il fondamento di una società comunistica deve in qualche modo essere connesso a un piano più di fondo dell’essere umano, per scorgere il quale è necessaria una visione più ampia e profonda, che abbracci l’insieme della storia del genere umano, e che comprenda le vicende storiche del capitalismo e del suo superamento con lo sguardo dell’antropologo, che cerca di individuare le logiche di funzionamento delle società in quanto umane (significativo è l’interesse di Marx per le strutture familiari), e, insieme, con lo sguardo dello storico di lunga durata, che descrive i molti modi in cui queste logiche si sono trasformate nel corso dei secoli e dei millenni. In questo modo la “rettifica” che Marx opera nel suo laboratorio intellettuale negli ultimi tre anni lo ricollega all’intera sua ricerca, e a quell’esordio così straordinario che fu il primo emergere del suo pensiero: i Manoscritti del ’44 e l’idea radicale di comunismo.
Musto, ripercorrendo i materiali di questi ultimi anni dell’opera di Marx, ed in particolare le lettere, che acquistano un ruolo decisivo per comprendere il profilo del Moro in questo squarcio di esistenza, conclude che il confronto con gli studiosi a lui contemporanei di antropologia, combinato con l’approfondimento delle sue ricerche storiche (fra l’autunno del 1881 e l’inverno del 1882 destinò gran parte delle sue energie intellettuali agli studi storici, ripercorrendo la storia mondiale a partire dal I secolo a. C.) portarono Marx a differenziarsi nettamente da una interpretazione della storia in senso evoluzionistico-darwinistico (prevalente fra gli antropologi dell’epoca), «conservando il suo caratteristico approccio: complesso, duttile e multiforme (…) non condivise i rigidi schemi sull’ineluttabile successione di determinati stadi della storia umana (e) respinse le rigide rappresentazioni che legavano i mutamenti sociali alle sole trasformazioni economiche. Marx difese, invece, la specificità delle condizioni storiche, le molteplici possibilità che il corso del tempo offriva e la centralità dell’intervento umano per modificare l’esistente e realizzare il cambiamento» (pp. 29-30). Dalla lettura del libro di Musso emerge come questo più articolato sguardo teorico alla storia umana, che incrina l’eurocentrismo della sua precedente elaborazione teorica, sia connesso ad un diverso approccio alla questione coloniale (complice l’attenzione ai fatti di attualità e le relazioni intrattenute con i soggetti che in esse promuovevano le lotte ai colonialismi): se negli anni Cinquanta l’accento di Marx era rivolto essenzialmente all’opera di “civilizzazione” che la dominazione coloniale realizzava, nei primi anni Ottanta prevale la consapevolezza di quanto il dominio coloniale con la sua opera abbia spinto i popoli indigeni non in avanti, ma indietro, in particolare attraverso la distruzione degli istituti comunitari (dalla distruzione della proprietà comune alle connesse forme sociali e politiche non statuali, tanto in riferimento alla politica coloniale inglese, p. 65, che francese, p. 109); senza peraltro con ciò mitizzare le società precapitalistiche.
Questo diverso modo di intendere lo sviluppo storico appare in tutta evidenza nella controversia sullo sviluppo del capitalismo in Russia, o, più esattamente, sul ruolo che la comune rurale russa (l’istituto tradizionale della obščina) avrebbe potuto avere nella prospettiva di un processo rivoluzionario in senso socialista. È forse il capitolo teoricamente più pregnante. Marcello Musso descrive la trasformazione della posizione di Marx sulla Russia, considerata per lungo tempo «uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe lavoratrice» e vista adesso come il luogo che presentava le condizioni più propizie per una rivoluzione. Musso sottolinea come la Russia era diventata progressivamente sempre più importante nello studio di Marx, portandolo ad imparare il russo per approfondire la conoscenza storica e l’attualità di quel paese. Tale centralità viene a coincidere, nel 1881, con i suoi studi antropologici, facendogli vedere con altri occhi la questione che divideva allora il movimento rivoluzionario russo: da un lato coloro che si consideravano (o tali si sarebbero definiti di lì a poco) “marxisti”, che ritenevano necessaria la rapida dissoluzione della comune rurale russa al fine di permettere il rapido sviluppo del capitalismo, ritenuto premessa necessaria per la successiva rivoluzione socialista; e dall’altro i populisti che al contrario vedevano nella permanenza della comune una possibile base su cui costruire la prospettiva socialista. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare sulla base dei suoi scritti precedenti, Marx condivideva le posizioni di questi populisti “di sinistra”. Con molta nettezza Marx afferma, contraddicendo la lettera dei suoi scritti, che la storia del mondo non deve ripercorrere le strade che lui ha descritto nelle analisi storiche dedicate allo sviluppo capitalistico dell’Europa occidentale (ed in particolare dell’Inghilterra), e che sono possibili, e perfino auspicabili, percorsi alternativi, quali quelli che sarebbero potuti derivare dallo sviluppo della obščina come germe di una futura società comunista (p. 63).
Nel 2001, intervenendo nel dibattito sulla globalizzazione aperto da Luigi Cavallaro sul “manifesto”, avevo ripercorso la posizione marxiana in merito alla possibilità di un processo rivoluzionario che avesse nell’antichissimo istituto della obščina – insieme economico, politico e sociale – la propria base, sottolineando come quella posizione marxiana, ma non marxista, potesse essere per noi fonte di orientamento per l’oggi. Ne riporto qualche passaggio.
Di fronte al conflitto fra la potenza dissolutrice del denaro nella sua funzione di capitale – che irrompe sulla scena di un paese non ancora pienamente sviluppato – e le preesistenti formazioni sociali di tipo comunistico, quindi non ancora assoggettate agli “automatismi del mercato” e alla conseguente atomizzazione delle relazioni sociali, Marx riteneva possibile una pratica che né si attestasse su posizioni “reazionarie” di difesa dei vecchi istituti né accettasse come inevitabile pagare i “prezzi della modernizzazione capitalistica”. Anzi, riteneva Marx, proprio il carattere pubblico e comunitario di tali istituti li rendeva soggetti fondamentali nella lotta per il superamento della società borghese, avendo qualcosa da insegnare ai soggetti il cui orizzonte di vita è costituito dai “paesi ancora asserviti dal regime capitalistico”.
La possibilità di questo nuovo sviluppo storico si fondava, per Marx, sulla contemporaneità fra la esistenza di antichi istituti comunitari e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico sulla cui base si sono sviluppati tanto i processi di universalizzazione delle relazioni sociali quanto l’emergere del valore della individualità con la connessa idea moderna di libertà: «se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico» (Prefazione alla edizione russa del Manifesto, del 21 gennaio 1882).
Se, come spesso ci ricorda Cavallaro, il nodo che abbiamo da sciogliere è quello di superare/sopprimere il dominio del denaro (capitale) nella determinazione del quanto, come e cosa produrre, è altrettanto vero che questo compito, che segna per le sue dimensioni una intera epoca storica, non può essere ridotto alla definizione di una autorità centrale a (livello planetario), ma ci riconsegna il problema della invenzione e costruzione di percorsi decisori pubblici e democratici, non (più) mutuabili dalle esperienze degli stati nazionali, senza ovviamente con ciò volere demonizzare le esperienze del Novecento, né darne una rappresentazione caricaturale, come troppo spesso capita di leggere. Questa invenzione storica, anche di articolazioni istituzionali, oltre che economiche e sociali, può essere solo il prodotto di un movimento in cui cooperino creativamente tutti i soggetti che già oggi fanno pratica (contraddittoria quanto si vuole) di relazioni sociali non mercantili e non autoritarie.[1]
Queste considerazioni ci fanno comprendere come l’affermazione del vecchio Marx: «Quel che è certo è che io non sono marxista», sia più di una semplice battuta, e sia invece il frutto di un ripensamento su questioni fondamentali, anche se spesso poste nella forma di una mera reinterpretazione dei propri testi piuttosto che di una loro smentita (mai fatta).
Sul cambio di prospettiva realizzatosi nel pensiero di Marx negli anni Ottanta aveva insistito molto Enrique Dussel (El último Marx (1863-1882) y la liberacion latinoamericana [1990], ed. it. L’ultimo Marx, manifestolibri 2009), che nel capitolo finale, Dall’ultimo Marx all’America Latina, mostra come la concezione unilaterale della storia universale abbia dominato il pensiero di Marx fino alla pubblicazione del primo libro del Capitale, per essere poi abbandonata alla fine degli anni Sessanta anche in relazione ai rapporti sempre più significativi con i rivoluzionari russi di tendenza populista. Dussell legge il cambio di prospettiva dell’ultimo Marx – in opposizione alla continuità engelsiana – anche confrontandosi con Rosa Luxemburg, nella prospettiva della costruzione di un diverso orizzonte etico-politico dell’agire, che colga l’importanza della dimensione popolare e nazionale, cui Marx avrebbe iniziato a guardare proprio seguendo con partecipazione quanto accadeva in Irlanda e ripensando con diversi occhi la questione contadina. Da queste letture marxiane Enrique Dussel può quindi ricavare ispirazione per l’orientamento nell’azione politico-sociale in America Latina, dove il modello europeo di movimento socialista sarebbe privo di prospettive.
Rispetto al testo di Dussel, il recente volume di Marcello Musto (a parte diversità di accenti, che comunque non mi sembra modifichino l’essenziale, se non per uno sguardo accademico e museale all’opera di Marx) ci offre una visione più ampia della vita intellettuale dell’ultimo Marx. Da essa emerge con forza la testimonianza (quanto di più prezioso ci lasciano i suoi ultimi anni) di una ricostruzione unitaria dell’intero suo lavorio privo di attese dottrinarie. Ma soprattutto, confrontata con i compiti cui siamo oggi chiamati, ci impone la consapevolezza che l’unico orizzonte sensato dentro cui pensare la parola comunismo è quello che pone al centro della sua costituzione la dimensione antropologica, l’essere umano in quanto tale, cogliendo le sue vicissitudini non solo nella lunga storia della modernità (sin dal suo esordio, vedi le interpretazioni radicali della riforma protestante), ma specialmente nella lunghissima storia della nostra umanità, che, per tempi cronologicamente maggioritari e antropologicamente costitutivi, ha visto nel comune l’ambito primario dello svolgersi della sua esistenza.
[1] L’articolo, pubblicato l’11.9.2001, è ancora reperibile nel web col titolo Le comuni rurali: Marx censurato. L’attentato alle Torri gemelle interruppe il dibattito per ovvie ragioni politiche e giornalistiche. L’intero dibattito è stato poi pubblicato nel 2002 da Deriveapprodi in appendice a Karl Marx, Discorso sul libero scambio.
La recensione di Annibale Raineri è già apparsa in http://www.palermo-grad.com/lultimo-marx-e-noi.html
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