12 febbraio 2017

ABHINAVAGUPTA INSEGNA A DARE RESPIRO AI PENSIERI


Scultura  di Salvatore Rizzuti, in cipresso e ulivo


 


Chi era Abhinavagupta, il maestro del Kashmir autore delle “Considerazioni sull’assoluto”? Un testo difficile, ma estremamente affascinante, che ci ha fatto pensare alla pratica dell' esicasmo dei monaci del monte Athos.

Giuseppe Montesano

L’uomo che insegnò a respirare pensieri

Siamo intorno all’Anno Mille, e mentre l’Europa dovrà aspettare due secoli per raggiungere i vertici intellettuali di un Duns Scoto e di un Tommaso d’Aquino, in India un pensatore che si chiama Abhinavagupta ed è nato intorno al 950 nel Kashmir sta seduto nella posizione del loto e pensa il Mondo.

Ma in che modo pensa il Mondo Abhinavagupta? Non legge né scrive, perché lettura e scrittura senza respiro non sono reale sapienza, ma solo gusci morti di ciò che veramente c’è nella parola; non sta nemmeno insegnando qualcosa a qualcuno, perché la meditazione prevede l’assoluta concentrazione dell’Io; e nemmeno prega come un occidentale intenderebbe il pregare, perché il sapiente Abhinavagupta non ha niente da implorare a quella Divinità che è il Mondo e che per lui è il dio che danzando distrugge e crea: Shiva.

E come pensa, allora, Abhinavagupta? L’autore del sublime Tantraloka ovvero Luce dei Tantra, capolavoro in cui è descritta la congiunzione sessuale tra il Sapiente e la Sapiente come un rito essenziale per la conoscenza, pensa cantando.

In verità Abhinavagupta non sta proprio cantando, ma sta modulando sillabe e fonemi: la lettera A che è il “Senza Famiglia” e il “Senza Superiore” ovvero l’Assoluto, l’AU che è l’arma con cui Shiva “scuote” la psiche per liberarla dalle catene e aprirla alla conoscenza, la S che si sperimenta nell’unione sessuale e nella perturbazione erotica come nella concentrazione mentale che vede la realtà senza inganni: e nel suo respiro- parola Abhinavagupta lascia che dai suoni si irradi potere, e che le palatali, e le velari, e “il florido PH labiale, il fiammeo R cerebrale, il triangolo E gutturoplatale”, attraverso la vibrazione che provocano al suo intero corpo che è anche la sua intera mente, gli concedano di essere riassorbito nel Tutto che è la Divinità e il Mondo, un Tutto che quando la vibrazione della parola raggiunge il culmine non è più separabile dall’essere respirante e pensante che è Abhinavagupta, ma che potrebbe in quel culmine essere il dio Shiva che è il Tutto.

In quello stadio supremo che non è più conoscenza concettuale ma conoscenza- vita, quell’uomo che sta respirando pensiero sta anche ripercorrendo il cammino stesso della nascita di tutte le cose, il cammino che secondo le Upanishad è cominciato dal Suono originario che si è incarnato nell’alfabeto sanscrito e che è il respiro stesso del Mondo. E stando nel centro del suo pensare-respirare attraverso la voce, Abhinavagupta, o chiunque si liberi dalla trappola del pensiero che inganna se stesso, è arrivato alla condizione fisiologica in cui ci si stupisce di ogni attimo dell’esistenza: «Il pensiero consiste in una vocalità, la quale è costituita da un discorso interiore… Questa vocalità è indipendente da convenzioni e consiste in uno stupirsi ininterrotto… Essa si può paragonare a un cenno interiore del capo e costituisce il principio vitale di tutte le parole convenzionali che sono solo apparenza…».

Le parole del linguaggio sono apparenza, ma senza questa apparenza è impossibile arrivare a ciò che non è apparenza, perché in ognuno dei fonemi scaturiti dalla Parola è presente un pezzo della Divinità che crea e anima il Mondo in una continua operazione vocale senza la quale ogni cosa svanirebbe. Qualcosa del genere, riassunto qui in modo terribilmente brusco, anima le Considerazioni sull’assoluto, un libro di Abhinavagupta tradotto e introdotto dal grande indologo Raniero Gnoli per le edizioni La Lepre: che hanno avuto l’idea di ripubblicare, in una edizione rivista, un testo uscito nel 1965 col titolo La Trentina della Suprema nell’Enciclopedia di autori classici fondata da Giorgio Colli per Boringhieri.

E come si può resistere ad Abhinavagupta? Il grande pensatore kashmiro fu un grammatico e un logico senza pari come un Gorgia unito a un Gödel, ma solo se essi fossero stati anche alchimisti e cabbalisti; fu un filosofo immenso come il Platone del Parmenide e l’Aristotele dell’Organon, ma capace di fare a meno dei concetti come un mistico Juan de la Cruz; fu un esploratore del tantrismo sessuale come nessun occidentale, e delle sottigliezze dell’arte come se il Rimbaud di Voyelles, oltre a scrivere un sonetto in cui le vocali avevano colori (“A nera, E bianca, I rossa”) e suoni poetici (“vibrazioni divine”), avesse esplorato il potere fisiologico di quei suoni. Anche leggendo poche frasi sulla “vocalità” del pensiero è impossibile non pensare a quella Parola- Dio che si fa carne in Giovanni, e alla teoria che i Maestri ebraici della Qabbalah svilupparono intorno allo Zohar e all’erotica mistica, e che interpreti come Scholem in Il nome di Dio e Idel in Eros e Qabbalah hanno studiato, inabissandosi nel pensiero che il Mondo non sia altro che un’emissione della Parola, e che nelle parole ci sia il Dio che è maschio e femmina.
Ma oggi ciò che forse colpisce di più in Abhinavagupta è la definizione della sapienza come dell’essere perpetuamente stupiti di tutto, uno stupore senza il quale per lui come per Platone non c’è conoscenza. In un momento decrepitamente e ripetitivamente post-storico come questo, in cui si vuole far credere che attività chiave come la lettura e la conoscenza delle parole siano divenute attività superate, il potere conoscitivo che Abhinavagupta attribuisce alle parole e alle immagini squilla come un allarme: Attenzione, qui non è in gioco solo la filosofia di uno stravagante pensatore dell’Anno Mille, ma ciò che si vuole fare della nostra esistenza.

Lo stupore concede di vedere la realtà in modo nuovo e creativo, e la condizione di stupore perenne in cui Abhinavagupta sostiene che debba trovarsi il sapiente è nota anche agli artisti, come sapeva Borges: «Per un vero poeta, ogni momento della vita, ogni fatto, dovrebbe essere poetico, giacché lo è nella sua essenza…», con la differenza che per Abhinavagupta la poesia non era un fine ma un gradino per arrivare da un’altra parte. Forse là dove anche per noi si aprirebbe la conoscenza suprema?
Ma no, quella toccherà solo agli yogin, non a noi che ci agitiamo nella trappola dei nostri pensieri senza respiro e senza pensiero, chiusi nel circolo meschino di una sessualità da cani di Pavlov che niente ha a che fare con il potere in cui eros e linguaggio si uniscono nei Tantra: ma forse noi, praticando in qualche ora libera e concentrata i mondi evocati da Abhinavagupta, apriremo qualche finestra in questa prigione occidentale che oggi più che mai avrebbe da guadagnare dal guardare a tempi e luoghi “altri”, un gesto che ci concederebbe di osservare la Storia di quello che chiamiamo mondo globale con occhi più acuti e orecchie più aperte: «Nel processo di liberazione non viene in realtà fatto nulla di nuovo, né viene illuminata una cosa che prima non lo fosse veramente, bensì semplicemente viene rimossa l’idea che ciò che è luminoso non sia tale…». Così sussurra Abhinavagupta chiedendoci di ripensare, ancora e da capo, tutto ciò che credevamo già pensato.


La repubblica – 8 febbraio 2017


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