Chi era Abhinavagupta, il maestro del Kashmir autore delle “Considerazioni sull’assoluto”? Un testo difficile, ma estremamente affascinante, che ci ha fatto pensare alla pratica dell' esicasmo dei monaci del monte Athos.
Giuseppe Montesano
L’uomo che insegnò
a respirare pensieri
Siamo intorno all’Anno
Mille, e mentre l’Europa dovrà aspettare due secoli per
raggiungere i vertici intellettuali di un Duns Scoto e di un Tommaso
d’Aquino, in India un pensatore che si chiama Abhinavagupta ed è
nato intorno al 950 nel Kashmir sta seduto nella posizione del loto e
pensa il Mondo.
Ma in che modo pensa il
Mondo Abhinavagupta? Non legge né scrive, perché lettura e
scrittura senza respiro non sono reale sapienza, ma solo gusci morti
di ciò che veramente c’è nella parola; non sta nemmeno insegnando
qualcosa a qualcuno, perché la meditazione prevede l’assoluta
concentrazione dell’Io; e nemmeno prega come un occidentale
intenderebbe il pregare, perché il sapiente Abhinavagupta non ha
niente da implorare a quella Divinità che è il Mondo e che per lui
è il dio che danzando distrugge e crea: Shiva.
E come pensa, allora,
Abhinavagupta? L’autore del sublime Tantraloka ovvero Luce dei
Tantra, capolavoro in cui è descritta la congiunzione sessuale tra
il Sapiente e la Sapiente come un rito essenziale per la conoscenza,
pensa cantando.
In verità Abhinavagupta
non sta proprio cantando, ma sta modulando sillabe e fonemi: la
lettera A che è il “Senza Famiglia” e il “Senza Superiore”
ovvero l’Assoluto, l’AU che è l’arma con cui Shiva “scuote”
la psiche per liberarla dalle catene e aprirla alla conoscenza, la S
che si sperimenta nell’unione sessuale e nella perturbazione
erotica come nella concentrazione mentale che vede la realtà senza
inganni: e nel suo respiro- parola Abhinavagupta lascia che dai suoni
si irradi potere, e che le palatali, e le velari, e “il florido PH
labiale, il fiammeo R cerebrale, il triangolo E gutturoplatale”,
attraverso la vibrazione che provocano al suo intero corpo che è
anche la sua intera mente, gli concedano di essere riassorbito nel
Tutto che è la Divinità e il Mondo, un Tutto che quando la
vibrazione della parola raggiunge il culmine non è più separabile
dall’essere respirante e pensante che è Abhinavagupta, ma che
potrebbe in quel culmine essere il dio Shiva che è il Tutto.
In quello stadio supremo che non è più conoscenza concettuale ma conoscenza- vita, quell’uomo che sta respirando pensiero sta anche ripercorrendo il cammino stesso della nascita di tutte le cose, il cammino che secondo le Upanishad è cominciato dal Suono originario che si è incarnato nell’alfabeto sanscrito e che è il respiro stesso del Mondo. E stando nel centro del suo pensare-respirare attraverso la voce, Abhinavagupta, o chiunque si liberi dalla trappola del pensiero che inganna se stesso, è arrivato alla condizione fisiologica in cui ci si stupisce di ogni attimo dell’esistenza: «Il pensiero consiste in una vocalità, la quale è costituita da un discorso interiore… Questa vocalità è indipendente da convenzioni e consiste in uno stupirsi ininterrotto… Essa si può paragonare a un cenno interiore del capo e costituisce il principio vitale di tutte le parole convenzionali che sono solo apparenza…».
Le parole del linguaggio sono apparenza, ma senza questa apparenza è impossibile arrivare a ciò che non è apparenza, perché in ognuno dei fonemi scaturiti dalla Parola è presente un pezzo della Divinità che crea e anima il Mondo in una continua operazione vocale senza la quale ogni cosa svanirebbe. Qualcosa del genere, riassunto qui in modo terribilmente brusco, anima le Considerazioni sull’assoluto, un libro di Abhinavagupta tradotto e introdotto dal grande indologo Raniero Gnoli per le edizioni La Lepre: che hanno avuto l’idea di ripubblicare, in una edizione rivista, un testo uscito nel 1965 col titolo La Trentina della Suprema nell’Enciclopedia di autori classici fondata da Giorgio Colli per Boringhieri.
E come si può resistere
ad Abhinavagupta? Il grande pensatore kashmiro fu un grammatico e un
logico senza pari come un Gorgia unito a un Gödel, ma solo se essi
fossero stati anche alchimisti e cabbalisti; fu un filosofo immenso
come il Platone del Parmenide e l’Aristotele dell’Organon, ma
capace di fare a meno dei concetti come un mistico Juan de la Cruz;
fu un esploratore del tantrismo sessuale come nessun occidentale, e
delle sottigliezze dell’arte come se il Rimbaud di Voyelles, oltre
a scrivere un sonetto in cui le vocali avevano colori (“A nera, E
bianca, I rossa”) e suoni poetici (“vibrazioni divine”), avesse
esplorato il potere fisiologico di quei suoni. Anche leggendo poche
frasi sulla “vocalità” del pensiero è impossibile non pensare a
quella Parola- Dio che si fa carne in Giovanni, e alla teoria che i
Maestri ebraici della Qabbalah svilupparono intorno allo Zohar e
all’erotica mistica, e che interpreti come Scholem in Il nome di
Dio e Idel in Eros e Qabbalah hanno studiato, inabissandosi nel
pensiero che il Mondo non sia altro che un’emissione della Parola,
e che nelle parole ci sia il Dio che è maschio e femmina.
Ma oggi ciò che
forse colpisce di più in Abhinavagupta è la definizione della
sapienza come dell’essere perpetuamente stupiti di tutto, uno
stupore senza il quale per lui come per Platone non c’è
conoscenza. In un momento decrepitamente e ripetitivamente
post-storico come questo, in cui si vuole far credere che attività
chiave come la lettura e la conoscenza delle parole siano divenute
attività superate, il potere conoscitivo che Abhinavagupta
attribuisce alle parole e alle immagini squilla come un allarme:
Attenzione, qui non è in gioco solo la filosofia di uno stravagante
pensatore dell’Anno Mille, ma ciò che si vuole fare della nostra
esistenza.
Lo stupore concede di
vedere la realtà in modo nuovo e creativo, e la condizione di
stupore perenne in cui Abhinavagupta sostiene che debba trovarsi il
sapiente è nota anche agli artisti, come sapeva Borges: «Per un
vero poeta, ogni momento della vita, ogni fatto, dovrebbe essere
poetico, giacché lo è nella sua essenza…», con la differenza che
per Abhinavagupta la poesia non era un fine ma un gradino per
arrivare da un’altra parte. Forse là dove anche per noi si
aprirebbe la conoscenza suprema?
Ma no, quella
toccherà solo agli yogin, non a noi che ci agitiamo nella trappola
dei nostri pensieri senza respiro e senza pensiero, chiusi nel
circolo meschino di una sessualità da cani di Pavlov che niente ha a
che fare con il potere in cui eros e linguaggio si uniscono nei
Tantra: ma forse noi, praticando in qualche ora libera e concentrata
i mondi evocati da Abhinavagupta, apriremo qualche finestra in questa
prigione occidentale che oggi più che mai avrebbe da guadagnare dal
guardare a tempi e luoghi “altri”, un gesto che ci concederebbe
di osservare la Storia di quello che chiamiamo mondo globale con
occhi più acuti e orecchie più aperte: «Nel processo di
liberazione non viene in realtà fatto nulla di nuovo, né viene
illuminata una cosa che prima non lo fosse veramente, bensì
semplicemente viene rimossa l’idea che ciò che è luminoso non sia
tale…». Così sussurra Abhinavagupta chiedendoci di ripensare,
ancora e da capo, tutto ciò che credevamo già pensato.
La repubblica – 8
febbraio 2017
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