04 febbraio 2017

NINO BUTTITTA E LA RIVISTA NUOVABUSAMBRA


Nino Buttitta, Aldo Gerbino e F. Virga presentano la rivista nuovabusambra alla Libreria Broadway di Palermo



       
Mezzojuso, 5 marzo 1985: Nino Buttitta commemora Gabriele Buccola


      Il compianto prof. Nino Buttitta ha seguito con simpatia la breve stagione della rivista nuovabusambra. E, oltre a contribuire alla sua diffusione nella città Palermo, ha permesso che venisse pubblicato, nella stessa rivista, il testo della sua commemorazione  di Gabriele Buccola che si tenne il 5 marzo 1985 nella sede del Consiglio Comunale di Mezzojuso. 
Riproponiamo il documento quale ulteriore testimonianza dell'attenzione mostrata da Nino Buttitta nei confronti delle diverse espressioni culturali del nostro territorio. 

NINO BUTTITTA COMMEMORA GABRIELE BUCCOLA

Signor Sindaco, Eccellenza, Autorità, Cittadini di Mezzojuso, Chiarissimi Colleghi, considero un onore poter rendere questa sera giustizia all’uomo Gabriele Buccola e allo scienziato. Rendergli giustizia perché ingiustizia gli è stata resa nel suo tempo, dagli uomini e dagli scienziati, o dai pretesi tali. Non dirò dell’opera di Buccola, né come uomo né come scienziato, perché ci sarà tempo nel convegno che è stato appena annunciato, per trattare soprattutto l’aspetto scientifico della sua opera e perché, per altro, Aldo Brigaglia ne ha fatto una esemplare sintesi sul Giornale di Sicilia.
Consentitemi, però, due considerazioni di carattere generale che si riferiscono alla vita dell’uomo Buccola e all’opera dello scienziato Buccola. L’uomo. Un giovane dalla salute fragile, dall’animo gentile che si muoveva in una società nella quale non diversamente da oggi gli elementi della foresta erano prevalenti su quelli della civiltà. Tuttavia questo giovane così delicato e così fragile, così profondamente legato agli affetti familiari, così radicato nel suo paese e nella sua terra, decide di affrontare la foresta, non per ambizioni ma per servire il suo paese. Tant’è che, quando grazie alla sua vivida intelligenza e alla qualità dei suoi scritti, gli viene offerta una cattedra di filosofia nell’Università di Genova, egli nettamente, senza perplessità alcuna, la rifiuta.
Chi conosce il mondo universitario sa quanto possa essere tormentata e difficile una scelta del genere. Ma perché la rifiuta? Non perché egli si rifiuti di rendere un servizio sociale, di mettere gli altri a conoscenza degli studi e delle sue scoperte, ma perché questo servizio lo vuole rendere alla sua Terra. Vuole sì insegnare nell’Università - del resto era docente nell’Università di Torino - egli vuole insegnare come cattedratico non a Torino, non a Genova, ma a Palermo. Perché l’Università della terra in cui si riconosce è l’Università di Palermo.
Palermo però gli rifiuta questa possibilità e gliela rifiuta in modo vile, come vili sanno essere spesso alcuni professori universitari: non bocciandolo, perché non possono bocciare uno studioso come Gabriele Buccola, ma non assegnando la cattedra, fino a quando, spento da un male - ahimè incurabile! - Buccola a Torino muore. In quella Torino che era stata ingiusta nei suoi confronti, di questo grande clinico (questo è un aspetto dell’opera di Buccola che non dobbiamo dimenticare), quella Torino che era stata altrettanto ingiusta nel momento in cui gli aveva impedito di esercitare la sua attività di medico. Lo aveva ostacolato cioè in un altro aspetto del suo impegno civile e sociale. Un uomo dunque che, nel breve arco della vita che gli è stata data vivere, ha subito ingiustizie. A cui pertanto bisogna rendere giustizia. Ed è giusto che sia il suo paese a farlo.
Buccola merita giustizia anche come scienziato, perché a torto è stato messo in disparte, a torto è stato dimenticato e si trattava di un grandissimo scienziato. Perché la scienza italiana gli ha reso questo torto? Bisogna rifarsi all’attività di Buccola come studioso, come intellettuale per poterlo capire. Buccola inizia, stante gli studi che quasi tutti abbiamo fatto, cioè gli studi classici, inizia a dar prova della sua intelligenza come critico letterario e, giovanissimo, scrive due saggi - più di due ma i più significativi sono due - uno su Carducci, l’altro su Di Giovanni. Produce anche uno studio di contenuto scientifico: l’inizio del lungo cammino che lo porterà a quella che è la sua opera fondamentale per gli studi di psicologia nel nostro Paese e non solo. È: La dottrina dell’eredità e i fenomeni psicologici. Non è ancora laureato e questo saggio gli procura immediatamente la simpatia e l’appoggio di una parte degli studiosi italiani ma anche l’ostilità di altri. Perché uno studio in cui i fenomeni del pensiero, i meccanismi intellettuali o psicologici sono studiati in termini sperimentali, ottiene il favore di alcuni e il rifiuto netto e rabbioso di altri? Ma perché è evidente agli uni e agli altri che questo giovane studioso, secondo la tradizione intellettuale, che è propria della nostra terra, si muove all’interno di una storia intellettuale che è da ritenere la marca di nobiltà della nostra Isola.
Una tradizione intellettuale che va in continuità dall’Empirismo all’Illuminismo e da questo al Positivismo: una tradizione intellettuale che in Italia, ha trovato, insigni cultori i quali ne hanno purtroppo enfatizzato gli aspetti più grossolanamente materialistici. È ovvio che abbia trovato i suoi avversari. Avversari di due tipi. Da un lato quelli che, declinando in modo conservatore un certo Cattolicesimo, erano radicati in una forma gretta di Spiritualismo. Dall’altro gli ostili che ritenevano di potersi collocare su una posizione più avanzata rispetto allo Spiritualismo da un lato e al Positivismo dall’altro Penso ai cosiddetti idealisti, di cui il Meridione di Italia ha avuto rappresentanti insigni: Croce e Gentile che costituiscono, è bene dirlo una volta per tutte, una declinazione dialettale di Hegel. Come giustamente ha notato Brigaglia, è stato proprio Gentile, siciliano e idealista, a emettere la condanna definitiva, (intendeva esserlo, ma non lo fu se siamo qui questa sera a parlarne in termini diversi) della tradizione culturale e politica di cui Gabriele Buccola già da giovane si faceva portavoce.
Che cosa dice Gentile? Ubriaco dell’idealismo tedesco, la tradizione intellettuale siciliana che come abbiamo avuto occasione di segnalare in altri luoghi e in altri tempi, non ha niente da invidiare a quella europea e occidentale tout court, viene da lui bollata di provincialismo. Gentile non è del tutto in mala fede. In realtà questo illustre nostro conterraneo conosceva male la storia della cultura siciliana pur essendo l’unico ad avere scritto un volume sul tramonto della cultura siciliana: un’opera nella quale si cerca di fare un panorama della cultura dell’Isola tra Sette e Ottocento. Gentile in realtà la conosceva male, tanto male da affermare, come hanno sostenuto gli altri che lo hanno seguito su questa strada, che in Sicilia per ragioni storico-politiche non era mai arrivato l’Illuminismo.
Basta entrare in qualunque biblioteca, anche minuscola dei nostri paesi, non dico della biblioteca della Società di Storia Patria, né dico della Biblioteca Comunale di Palermo, non dico della vostra Biblioteca, basta entrare in qualunque biblioteca, scorrere l’indice degli autori e delle opere per accorgersi che di letteratura illuministica in Sicilia se n’è prodotta parecchia. Era una ricerca intellettuale che non aveva larga diffusione perché i movimenti culturali in quel tempo non avevano ampia estensione. Non c’è dubbio tuttavia che gli intellettuali siciliani erano partecipi della cultura europea del loro tempo. E poiché ne stiamo parlando - potrei ricordare varie cose, per esempio l’Istituto Castelnuovo, ma, lasciamo perdere, questo riguarda altri settori disciplinari. Poiché stiamo parlando di medicina, sostanzialmente, di una disciplina di tipo sperimentale, sul versante medico-clinico, possiamo tuttavia affermare che Buccola non è un fiore nato nel deserto. Spesso - consentitemi questa digressione - quando qualche importante intellettuale siciliano si afferma a livello nazionale e internazionale, qualcuno dei critici dice: “toh, guarda, ma come, in Sicilia, dove ci sono questi individui tutti piccoli, neri e mafiosi, toh, guarda, c’è Sciascia, toh, guarda, c’è Bufalino. Come è possibile che sia nato Pirandello, in Sicilia?” Perché dicono queste cose? Taluni per malizia, altri in buona fede, perché non conoscono la storia della cultura siciliana.
Questo grande medico, perché di un grande medico stiamo parlando, Buccola, non nasce in Sicilia, per caso. La verità è che in Sicilia fin dal tempo della dominazione musulmana, si è affermata una grande scuola di studi medici. Non è un caso che nel Rinascimento i parigini che volevano studiare le prime forme di cura della lue, venivano a Modica, dove fioriva in quel momento una scuola, nella quale per la prima volta se ne sperimentava la terapia. Non è un caso che Buccola decida di studiare medicina nell’Università di Palermo, dove operava una affermata tradizione di studi in questo ambito. Non in tutti i settori, ma ce ne erano alcuni che costituivano punte avanzate della ricerca medica.
L’appartenenza a una precisa corrente di pensiero in un determinato momento della storia politica e culturale della propria Isola, è un fatto che può avere determinato nel giovane Buccola la sensazione di trovarsi in una condizione discrasica rispetto al contesto scientifico nazionale. Proprio perche vuole rendere un servizio e vuole renderlo bene alla sua Terra, questa sensazione lo induce a cercare altrove i luoghi e i modi della sua crescita intellettuale: Firenze, Reggio Emilia, Torino. Non a caso Torino, perché lì nel settore in cui Buccola ha deciso di impegnarsi, opera Morselli, - e non solo Morselli, ovviamente - uno dei più grandi studiosi positivisti italiani.
Dobbiamo cercare di capire il valore vero dell’opera di Buccola. Il profano può restare impressionato dal fatto che da un lato si registrano forme di radicale rifiuto del suo lavoro scientifico; dall’altro invece, esiste un numero esteso di testimonianze attraverso le quali la figura del Buccola emerge come superiore alla media scientifica del tempo. Si può pensare che i giudizi favorevoli sull’opera del Buccola siano legati a ragioni emotive. Si può pensare che a un certo punto, trattandosi di uno studioso giovane, brillante, che muore anzi tempo, i chiamati a formulare giudizi su di lui, suggestionati da questo fatto, dicano: “rimpiangiamo la morte di una grandissimo studioso”. Quando si commemora qualcuno, se ne dice in genere bene. Quindi leggendo le testimonianze, le lettere, gli scritti, a favore di Buccola, si potrebbe pensare che siano ragioni di carattere emotivo ad aver portato questi testimoni a essergli tanto favorevoli.
C’è però una spia che fa capire il valore grande dell’opera del Nostro. È una lettera che Morselli, il maestro di Buccola, scrive molti anni dopo la sua morte a Francesco Guardione, già cieco. È una cosa che mi ha molto commosso. Il fatto che nel silenzio generale, nella dimenticanza generale, nell’oblio e nell’ingiustizia generale, sia un cieco a rendere testimonianza a favore dell’opera di Buccola, è un fatto che mi ha colpito e mi ha fatto pensare, parafrasando, a Pascal, quando dice che “nessuno è più cieco del vedente in un mondo di ciechi”. La verità è che l’unico che non fosse cieco era Guardione e gli altri, invece, lo erano, perché accecati dalla loro sottocultura provinciale.
Nella lettera che Morselli scrive a Guardione dopo anni, quando quest’ultimo decide di raccogliere gli scritti inediti di Buccola e di pubblicarli, Morselli non solo ripete l’elogio dell’opera di Buccola, ma dice “io che fui discepolo di Buccola”. Perché afferma questo e lo sottolinea? Perché il grande Morselli di un giovane ormai morto, ormai scomparso dall’orizzonte scientifico italiano, da cui certamente nessun vantaggio accademico gli poteva venire, dice “io che fui discepolo di Buccola”? Perché?
Qual è il vero valore dell’opera di Buccola che giustamente merita di essere ristampata: I fenomeni del pensiero. Qual è il suo vero valore? Perché è così importante l’opera di questo giovane da far dire al suo maestro che egli, il discepolo, era in verità il maestro?  Consentitemi di fare un discorso filologico. La nostra tradizione culturale, dico la tradizione culturale occidentale, da Platone in poi si è articolata sulla dicotomia spirito-materia. La più parte degli intellettuali dell’Occidente ha privilegiato lo spirito rispetto alla materia, una minoranza la materia sullo spirito. Addirittura i partigiani dello spirito hanno negato l’esistenza della materia, i sostenitori della materia hanno invece riportato anche lo spirito alla materia, negando l’esistenza del primo. In questa che è la sua opera principale - perché le altre in sostanza sono tutte legate allo stesso tema che poi è quello che viene organicamente trattato nel volume che abbiamo qui sul tavolo - Buccola cerca di superare e supera questa dicotomia, riportandola ad unità, negando l’esistenza della dicotomia stessa. Non c’è da una parte lo spirito, cioè il pensiero, e dall’altra parte la materia, il corpo, ci troviamo in presenza di un fenomeno unico e questo rende possibile il suo studio sperimentale. Su questa idea si sviluppano le riflessioni di Buccola.
Ecco perché Morselli, nella testimonianza che è stata ricordata dal Sindaco, dice: “non lo piango tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che avrebbe fatto”. Morselli capisce che la strada imboccata da Buccola è una strada nuova, non è quella del Positivismo grossolano, dei Lombroso, dei Mantegazza, dei Niceforo e, per certi aspetti, dello stesso Sergi. È una strada diversa. È la via di un Positivismo maturo che si apre già a nuove e più complesse forme di rappresentazione e analisi della realtà. Non v’ha dubbio che quando Morselli dice che Buccola gli è stato maestro, intende riferirsi a tutto questo. Morselli infatti non aveva bisogno di maestri positivisti, conosceva molto bene i positivisti francesi, forse meglio quelli tedeschi. Erano gli autori che egli stesso aveva fatto studiare a Buccola: da Spencer a Comte, ma soprattutto a Wundt: in quel momento il principale esponente di quella che un tempo si chiamava Völkerpsychologie.
Se dice che Buccola è il suo maestro, è perché ha capito che l’allievo ha ampiamente assorbito e digerito la lezione positivista e che prepara - in quest’opera fondamentale della storia della ricerca psicologica non solo italiana - un tempo nuovo. Fonda un nuovo approccio alla realtà dei fenomeni psicologici, anticipa una pagina diversa delle scienze umane. Una pagina che non si è aperta per la chiusura provinciale della nostra cultura, per le amare vicende politiche che tutti abbiamo vissuto, per il trionfo - per merito/demerito dei Croce e dei Gentile - di quel hegelismo dialettale che, ahimè, nel nostro Paese tarda ad essere sradicato.
Consentitemi, per concludere, il ricordo di una esperienza personale. Io ho avuto l’onore di conoscere il figlio di quel Giuseppe Seppilli che fu l’amico più caro e lo studioso più vicino a Gabriele Buccola, quel Seppilli che ha scritto il più bel ricordo di Buccola. Quando io conobbi il figlio di Seppilli’[1] (era il marito di quell’Anita Seppilli che ha pubblicato vari volumi con Einaudi, padre dell’antropologo Tullio Seppilli), mi disse: “Sono contento che lei sia siciliano, perché io ho conosciuto la Sicilia attraverso il ricordo che mio padre mi ripeteva di Buccola”. Bene. Se un uomo riesce a marcare nella memoria degli altri in modo cosi incisivo il proprio Paese, la propria Terra, allora quell’uomo è veramente grande. Vi ringrazio di avermelo fatto ricordare e capire.

Antonino Buttitta



[1] Alessandro Seppilli (1902-1995) n.d.r.

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