Nino Buttitta, Aldo Gerbino e F. Virga presentano la rivista nuovabusambra alla Libreria Broadway di Palermo
Mezzojuso, 5 marzo 1985: Nino Buttitta commemora Gabriele Buccola
Il compianto prof. Nino Buttitta ha seguito con simpatia la breve stagione della rivista nuovabusambra. E, oltre a contribuire alla sua diffusione nella città Palermo, ha permesso che venisse pubblicato, nella stessa rivista, il testo della sua commemorazione di Gabriele Buccola che si tenne il 5 marzo 1985 nella sede del Consiglio Comunale di Mezzojuso.
Riproponiamo il documento quale ulteriore testimonianza dell'attenzione mostrata da Nino Buttitta nei confronti delle diverse espressioni culturali del nostro territorio.
NINO BUTTITTA COMMEMORA GABRIELE BUCCOLA
Signor Sindaco, Eccellenza, Autorità, Cittadini di Mezzojuso, Chiarissimi
Colleghi, considero un onore poter rendere questa sera giustizia all’uomo Gabriele
Buccola e allo scienziato. Rendergli giustizia perché ingiustizia gli è stata
resa nel suo tempo, dagli uomini e dagli scienziati, o dai pretesi tali. Non
dirò dell’opera di Buccola, né come uomo né come scienziato, perché ci sarà
tempo nel convegno che è stato appena annunciato, per trattare soprattutto
l’aspetto scientifico della sua opera e perché, per altro, Aldo Brigaglia ne ha
fatto una esemplare sintesi sul Giornale
di Sicilia.
Consentitemi, però, due considerazioni di carattere generale che si
riferiscono alla vita dell’uomo Buccola e all’opera dello scienziato Buccola.
L’uomo. Un giovane dalla salute fragile, dall’animo gentile che si muoveva in
una società nella quale non diversamente da oggi gli elementi della foresta
erano prevalenti su quelli della civiltà. Tuttavia questo giovane così delicato
e così fragile, così profondamente legato agli affetti familiari, così radicato
nel suo paese e nella sua terra, decide di affrontare la foresta, non per
ambizioni ma per servire il suo paese. Tant’è che, quando grazie alla sua
vivida intelligenza e alla qualità dei suoi scritti, gli viene offerta una
cattedra di filosofia nell’Università di Genova, egli nettamente, senza
perplessità alcuna, la rifiuta.
Chi conosce il mondo universitario sa quanto possa essere tormentata e
difficile una scelta del genere. Ma perché la rifiuta? Non perché egli si
rifiuti di rendere un servizio sociale, di mettere gli altri a conoscenza degli
studi e delle sue scoperte, ma perché questo servizio lo vuole rendere alla sua
Terra. Vuole sì insegnare nell’Università - del resto era docente nell’Università
di Torino - egli vuole insegnare come cattedratico non a Torino, non a Genova,
ma a Palermo. Perché l’Università della terra in cui si riconosce è
l’Università di Palermo.
Palermo però gli rifiuta questa possibilità e gliela rifiuta in modo
vile, come vili sanno essere spesso alcuni professori universitari: non
bocciandolo, perché non possono bocciare uno studioso come Gabriele Buccola, ma
non assegnando la cattedra, fino a quando, spento da un male - ahimè incurabile!
- Buccola a Torino muore. In quella Torino che era stata ingiusta nei suoi confronti,
di questo grande clinico (questo è un aspetto dell’opera di Buccola che non
dobbiamo dimenticare), quella Torino che era stata altrettanto ingiusta nel
momento in cui gli aveva impedito di esercitare la sua attività di medico. Lo
aveva ostacolato cioè in un altro aspetto del suo impegno civile e sociale. Un
uomo dunque che, nel breve arco della vita che gli è stata data vivere, ha
subito ingiustizie. A cui pertanto bisogna rendere giustizia. Ed è giusto che
sia il suo paese a farlo.
Buccola merita giustizia anche come scienziato, perché a torto è stato
messo in disparte, a torto è stato dimenticato e si trattava di un grandissimo
scienziato. Perché la scienza italiana gli ha reso questo torto? Bisogna
rifarsi all’attività di Buccola come studioso, come intellettuale per poterlo
capire. Buccola inizia, stante gli studi che quasi tutti abbiamo fatto, cioè
gli studi classici, inizia a dar prova della sua intelligenza come critico
letterario e, giovanissimo, scrive due saggi - più di due ma i più
significativi sono due - uno su Carducci, l’altro su Di Giovanni. Produce anche
uno studio di contenuto scientifico: l’inizio del lungo cammino che lo porterà
a quella che è la sua opera fondamentale per gli studi di psicologia nel nostro
Paese e non solo. È: La dottrina
dell’eredità e i fenomeni psicologici. Non è ancora laureato e questo
saggio gli procura immediatamente la simpatia e l’appoggio di una parte degli
studiosi italiani ma anche l’ostilità di altri. Perché uno studio in cui i
fenomeni del pensiero, i meccanismi intellettuali o psicologici sono studiati
in termini sperimentali, ottiene il favore di alcuni e il rifiuto netto e
rabbioso di altri? Ma perché è evidente agli uni e agli altri che questo
giovane studioso, secondo la tradizione intellettuale, che è propria della
nostra terra, si muove all’interno di una storia intellettuale che è da
ritenere la marca di nobiltà della nostra Isola.
Una tradizione intellettuale che va in continuità dall’Empirismo all’Illuminismo
e da questo al Positivismo: una tradizione intellettuale che in Italia, ha
trovato, insigni cultori i quali ne hanno purtroppo enfatizzato gli aspetti più
grossolanamente materialistici. È ovvio che abbia trovato i suoi avversari. Avversari
di due tipi. Da un lato quelli che, declinando in modo conservatore un certo
Cattolicesimo, erano radicati
in una forma gretta di Spiritualismo. Dall’altro gli ostili che ritenevano di
potersi collocare su una posizione più avanzata rispetto allo Spiritualismo da
un lato e al Positivismo dall’altro Penso ai cosiddetti idealisti, di cui il Meridione
di Italia ha avuto rappresentanti insigni: Croce e Gentile che costituiscono, è
bene dirlo una volta per tutte, una declinazione dialettale di Hegel. Come
giustamente ha notato Brigaglia, è stato proprio Gentile, siciliano e
idealista, a emettere la condanna definitiva, (intendeva esserlo, ma non lo fu
se siamo qui questa sera a parlarne in termini diversi) della tradizione
culturale e politica di cui Gabriele Buccola già da giovane si faceva
portavoce.
Che cosa dice Gentile? Ubriaco dell’idealismo tedesco, la tradizione
intellettuale siciliana che come abbiamo avuto occasione di segnalare in altri
luoghi e in altri tempi, non ha niente da invidiare a quella europea e
occidentale tout court, viene da lui
bollata di provincialismo. Gentile non è del tutto in mala fede. In realtà
questo illustre nostro conterraneo conosceva male la storia della cultura
siciliana pur essendo l’unico ad avere scritto un volume sul tramonto della
cultura siciliana: un’opera nella quale si cerca di fare un panorama della
cultura dell’Isola tra Sette e Ottocento. Gentile in realtà la conosceva male,
tanto male da affermare, come hanno sostenuto gli altri che lo hanno seguito su
questa strada, che in Sicilia per ragioni storico-politiche non era mai
arrivato l’Illuminismo.
Basta entrare in qualunque biblioteca, anche minuscola dei nostri paesi,
non dico della biblioteca della Società di Storia Patria, né dico della
Biblioteca Comunale di Palermo, non dico della vostra Biblioteca, basta entrare
in qualunque biblioteca, scorrere l’indice degli autori e delle opere per
accorgersi che di letteratura illuministica in Sicilia se n’è prodotta
parecchia. Era una ricerca intellettuale che non aveva larga diffusione perché
i movimenti culturali in quel tempo non avevano ampia estensione. Non c’è
dubbio tuttavia che gli intellettuali siciliani erano partecipi della cultura
europea del loro tempo. E poiché ne stiamo parlando - potrei ricordare varie
cose, per esempio l’Istituto Castelnuovo, ma, lasciamo perdere, questo riguarda
altri settori disciplinari. Poiché stiamo parlando di medicina,
sostanzialmente, di una disciplina di tipo sperimentale, sul versante
medico-clinico, possiamo tuttavia affermare che Buccola non è un fiore nato nel
deserto. Spesso - consentitemi questa digressione - quando qualche importante
intellettuale siciliano si afferma a livello nazionale e internazionale,
qualcuno dei critici dice: “toh, guarda, ma come, in Sicilia, dove ci sono
questi individui tutti piccoli, neri e mafiosi, toh, guarda, c’è Sciascia, toh,
guarda, c’è Bufalino. Come è possibile che sia nato Pirandello, in Sicilia?”
Perché dicono queste cose? Taluni per malizia, altri in buona fede, perché non
conoscono la storia della cultura siciliana.
Questo grande medico, perché di un grande medico stiamo parlando,
Buccola, non nasce in Sicilia, per caso. La verità è che in Sicilia fin dal
tempo della dominazione musulmana, si è affermata una grande scuola di studi
medici. Non è un caso che nel Rinascimento i parigini che volevano studiare le
prime forme di cura della lue, venivano a Modica, dove fioriva in quel momento una
scuola, nella quale per la prima volta se ne sperimentava la terapia. Non è un
caso che Buccola decida di studiare medicina nell’Università di Palermo, dove operava
una affermata tradizione di studi in questo ambito. Non in tutti i settori, ma ce ne erano
alcuni che costituivano punte avanzate della ricerca medica.
L’appartenenza a una precisa corrente di pensiero in un determinato
momento della storia politica e culturale della propria Isola, è un fatto che può
avere determinato nel giovane Buccola la sensazione di trovarsi in una condizione
discrasica rispetto al contesto scientifico nazionale. Proprio perche vuole
rendere un servizio e vuole renderlo bene alla sua Terra, questa sensazione lo induce
a cercare altrove i luoghi e i modi della sua crescita intellettuale: Firenze,
Reggio Emilia, Torino. Non a caso Torino, perché lì nel settore in cui Buccola
ha deciso di impegnarsi, opera Morselli, - e non solo Morselli, ovviamente -
uno dei più grandi studiosi positivisti italiani.
Dobbiamo cercare di capire il valore vero dell’opera di Buccola. Il
profano può restare impressionato dal fatto che da un lato si registrano forme
di radicale rifiuto del suo lavoro scientifico; dall’altro invece, esiste un
numero esteso di testimonianze attraverso le quali la figura del Buccola emerge
come superiore alla media scientifica del tempo. Si può pensare che i giudizi
favorevoli sull’opera del Buccola siano legati a ragioni emotive. Si può
pensare che a un certo punto, trattandosi di uno studioso giovane, brillante,
che muore anzi tempo, i chiamati a formulare giudizi su di lui, suggestionati
da questo fatto, dicano: “rimpiangiamo la morte di una grandissimo studioso”.
Quando si commemora qualcuno, se ne dice in genere bene. Quindi leggendo le
testimonianze, le lettere, gli scritti, a favore di Buccola, si potrebbe
pensare che siano ragioni di carattere emotivo ad aver portato questi testimoni
a essergli tanto favorevoli.
C’è però una spia che fa capire il valore grande dell’opera del Nostro. È
una lettera che Morselli, il maestro di Buccola, scrive molti anni dopo la sua
morte a Francesco Guardione, già cieco. È una cosa che mi ha molto commosso. Il
fatto che nel silenzio generale, nella dimenticanza generale, nell’oblio e
nell’ingiustizia generale, sia un cieco a rendere testimonianza a favore
dell’opera di Buccola, è un fatto che mi ha colpito e mi ha fatto pensare,
parafrasando, a Pascal, quando dice che “nessuno è più cieco del vedente in un
mondo di ciechi”. La verità è che l’unico che non fosse cieco era Guardione e
gli altri, invece, lo erano, perché accecati dalla loro sottocultura
provinciale.
Nella lettera che Morselli scrive a Guardione dopo anni, quando
quest’ultimo decide di raccogliere gli scritti inediti di Buccola e di
pubblicarli, Morselli non solo ripete l’elogio dell’opera di Buccola, ma dice
“io che fui discepolo di Buccola”. Perché afferma questo e lo sottolinea?
Perché il grande Morselli di un giovane ormai morto, ormai scomparso
dall’orizzonte scientifico italiano, da cui certamente nessun vantaggio
accademico gli poteva venire, dice “io che fui discepolo di Buccola”? Perché?
Qual è il vero valore dell’opera di Buccola che giustamente merita di
essere ristampata: I fenomeni del
pensiero. Qual è il suo vero valore? Perché è così importante l’opera di
questo giovane da far dire al suo maestro che egli, il discepolo, era in verità
il maestro? Consentitemi di fare un
discorso filologico. La nostra tradizione culturale, dico la tradizione
culturale occidentale, da Platone in poi si è articolata sulla dicotomia
spirito-materia. La più parte degli intellettuali dell’Occidente ha
privilegiato lo spirito rispetto alla
materia, una minoranza la materia sullo spirito. Addirittura i partigiani dello spirito hanno negato l’esistenza della materia, i sostenitori della materia
hanno invece riportato anche lo spirito
alla materia, negando l’esistenza del
primo. In questa che è la sua opera principale - perché le altre in sostanza
sono tutte legate allo stesso tema che poi è quello che viene organicamente
trattato nel volume che abbiamo qui sul tavolo - Buccola cerca di superare e
supera questa dicotomia, riportandola ad unità, negando l’esistenza della
dicotomia stessa. Non c’è da una parte lo spirito,
cioè il pensiero, e dall’altra parte la materia,
il corpo, ci troviamo in presenza di un fenomeno unico e questo rende possibile
il suo studio sperimentale. Su questa idea si sviluppano le riflessioni di
Buccola.
Ecco perché Morselli, nella testimonianza che è stata ricordata dal
Sindaco, dice: “non lo piango tanto per quello che ha fatto, quanto per quello
che avrebbe fatto”. Morselli capisce che la strada imboccata da Buccola è una
strada nuova, non è quella del Positivismo grossolano, dei Lombroso, dei
Mantegazza, dei Niceforo e, per certi aspetti, dello stesso Sergi. È una strada
diversa. È la via di un Positivismo maturo che si apre già a nuove e più complesse
forme di rappresentazione e analisi della realtà. Non v’ha dubbio che quando
Morselli dice che Buccola gli è stato maestro, intende riferirsi a tutto
questo. Morselli infatti non aveva bisogno di maestri positivisti, conosceva
molto bene i positivisti francesi, forse meglio quelli tedeschi. Erano gli
autori che egli stesso aveva fatto studiare a Buccola: da Spencer a Comte, ma
soprattutto a Wundt: in quel momento il principale esponente di quella che un
tempo si chiamava Völkerpsychologie.
Se dice che Buccola è il suo maestro, è perché ha capito che l’allievo ha
ampiamente assorbito e digerito la lezione positivista e che prepara - in
quest’opera fondamentale della storia della ricerca psicologica non solo
italiana - un tempo nuovo. Fonda un nuovo approccio alla realtà dei fenomeni
psicologici, anticipa una pagina diversa delle scienze umane. Una pagina che
non si è aperta per la chiusura provinciale della nostra cultura, per le amare
vicende politiche che tutti abbiamo vissuto, per il trionfo - per merito/demerito
dei Croce e dei Gentile - di quel hegelismo dialettale che, ahimè, nel nostro
Paese tarda ad essere sradicato.
Consentitemi, per concludere, il ricordo di una esperienza personale. Io
ho avuto l’onore di conoscere il figlio di quel Giuseppe Seppilli che fu
l’amico più caro e lo studioso più vicino a Gabriele Buccola, quel Seppilli che
ha scritto il più bel ricordo di Buccola. Quando io conobbi il figlio di
Seppilli’[1] (era
il marito di quell’Anita Seppilli che ha pubblicato vari volumi con Einaudi,
padre dell’antropologo Tullio Seppilli), mi disse: “Sono contento che lei sia
siciliano, perché io ho conosciuto la Sicilia attraverso il ricordo che mio
padre mi ripeteva di Buccola”. Bene. Se un uomo riesce a marcare nella memoria
degli altri in modo cosi incisivo il proprio Paese, la propria Terra, allora
quell’uomo è veramente grande. Vi ringrazio di avermelo fatto ricordare e
capire.
Antonino Buttitta
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