Gianpasquale
Santomassimo
La
determinazione del grande mediatore
Il
centenario della nascita di Aldo Moro ha dato vita a ricostruzioni e
ripensamenti che hanno consentito di andare oltre il «caso Moro», ossia di
superare l’attenzione esclusiva ai «misteri» veri o presunti della sua tragica
fine, che pure resta inevitabilmente il nucleo dell’attenzione prevalente
dell’opinione pubblica attorno alla sua figura. Riemerge così la valutazione
della sua dimensione politica, che è quella di uno dei grandi e indiscussi
protagonisti della storia repubblicana.
Tra i libri
usciti di recente, quello di Massimo Mastrogregori (Moro, Salerno Editrice, pp.
439, euro 26) si presenta come una biografia complessiva, non solo politica,
che assegna eguale spazio alla trattazione della sua formazione e maturazione
come all’esplicarsi pieno della sua attività di uomo di partito e di governo.
Si parte
dall’affermazione che nella sua personalità vi sia «qualcosa di enigmatico»;
che rimane tuttora, e che contrasta col modo che abbiamo acquisito di intendere
e immaginare oggi i leaders politici.
Innanzitutto
era un personaggio assai poco «televisivo», che rifiutava di essere truccato
prima delle tribune politiche, appariva impacciato e mai sintetico
nell’esposizione dei concetti (nei comizi era molto più comprensibile, ma il
suo tono era pur sempre quello di un conferenziere più che di un tribuno). Non
conosceva le lingue, tranne il francese e un po’ di tedesco «tecnico» dei libri
giuridici. Eppure fu a lungo ministro degli Esteri, con risultati notevoli, e
in quella veste viaggiò in tutto il mondo (ovunque, tranne che in America
Latina). Non guidava l’automobile. Si rifugiava al cinema (prediligendo, come
sappiamo, western) quando era troppo oppresso da un’agenda pesante di
impegni.
Riuscì a
mantenere costantemente una doppia vita: politico e docente universitario,
impegno quest’ultimo assolto fino alla fine con scrupolo e con grande capacità
di ascolto. E proprio la capacità di ascolto sembra uno dei tratti distintivi
della sua personalità, e sono in molti a ricordare i suoi lunghi silenzi nei
colloqui con i collaboratori, sempre ricevuti singolarmente e mai in gruppo,
come pure il prendere la parola per ultimo nelle riunioni politiche, dopo aver
ascoltato tutti, proponendo una «linea» di mediazione accettabile.
La sua
formazione era avvenuta nelle strutture laicali della Chiesa, nelle
peregrinazioni della sua famiglia tra Maglie, Potenza, Taranto e Bari.
Dirigente della Fuci e dell’Azione Cattolica, in rapporto con monsignor
Montini, aveva osservato un blando filofascismo, senza lo zelo di un Fanfani,
ma la sua visione del mondo, come quella di gran parte degli italiani, era
stata terremotata dalla catastrofe del 1943.
L’approdo
alla Democrazia Cristiana era stato tormentato, per l’ostilità anche
generazionale da parte dei vecchi popolari, e si dice avesse svolto approcci
anche con i socialisti e addirittura con i comunisti.
Ma una volta
eletto all’Assemblea Costituente diverrà uno dei protagonisti della giovane
generazione cattolica nell’intenso lavorio che avrebbe portato all’elaborazione
della Carta, apprezzato anche da Togliatti per la sua opera di intelligente
mediazione.
E proprio
come grande mediatore era destinato ad affermarsi nella Dc, nei ruoli politici
e di governo ricoperti nel corso del tempo, fino alla sua ascesa alla
segretaria del partito e dal 1963 alla guida del primo centro-sinistra
«organico».
Un grande
mediatore, ma anche uomo fermo nel suo proposito di fondo, che sarà sempre
l’immissione delle masse nello Stato, prima con l’inclusione dei socialisti
nell’area di governo, poi ponendosi il compito più arduo dello stabilire un
rapporto con i comunisti. Con un corollario sostanziale, però: mantenere
l’unità di tutta la Dc, che era condizione preliminare per esplicare quella
strategia. Negli ultimi giorni della sua vita si trovò a ripetere spesso la
frase: «il destino non è più nelle nostre mani», ma si trattava in realtà della
accentuazione di una consapevolezza che aveva sempre avuto, e non aveva mai
assecondato l’idea di una autosufficienza del partito cattolico nella gestione
del paese.
Mastrogregori
individua due fasi distinte nella sua attività politica, e situa il tornante
nel 1968. Personalmente, ricordo di aver letto con sorpresa i suoi editoriali
sul «Giorno» in quell’anno, che evidenziavano – e da parte del Presidente del
Consiglio in carica – attenzione e comprensione molto diverse rispetto al modo
di porsi di gran parte del quadro politico di governo. Fu quello nella vita di
Moro un momento di svolta che aprì una fase nuova, che lo portò a una
valutazione estremamente sensibile di quanto di nuovo si muoveva nella società,
a una «strategia dell’attenzione» nei confronti del Pci, e a divenire
oppositore interno nel suo partito, assumendo di fatto la leadership della
composita sinistra democristiana.
«I problemi…
– scriveva a Piero Pratesi nel febbraio 1969 – mi sono abbastanza chiari; ma
trovo una grande difficoltà ad immaginare soluzioni attendibili nel reale
contesto storico in cui viviamo. La tormentosa esperienza del governare mi ha
fatto toccare mille volte il dato di questo limite e ciò fa da freno ad ogni
visione libera, creativa ed appagante della rivoluzione sociale, quale
l’intelligenza e il cuore suggeriscono. E tuttavia questi problemi ci sono e
richiedono soluzioni nuove».
Già nelle
prime pagine del libro Mastrogregori prende posizione in maniera netta su un luogo
comune che si è diffuso dopo la tragedia del rapimento e dell’omicidio,
affermando di non credere alla «favola che Moro è stato ucciso perché stava
preparando il compromesso storico coi comunisti». Cosa tecnicamente
inoppugnabile, sia perché la disperata ignoranza dei suoi assassini impediva
qualunque discernimento tra posizioni politiche interne al mondo democristiano,
sia perché non rientrava certo tra gli obiettivi di Moro realizzare la
strategia scelta da Enrico Berlinguer. Moro si sarebbe proposto il compito più
limitato ma essenziale di realizzare una «tregua armata» tra Dc e Pci. Eppure
nella fase che precede immediatamente il suo sequestro, come l’autore rileva,
Moro sottolineava che l’intesa pur limitata non era «una mera tregua di
significato negativo», non era alleanza politica ma «accordo programmatico»:
che però era quanto bastava per risvegliare i sospetti e le ostilità che da
molte parti gravavano sulla sua persona.
Un'ultima
annotazione: andrebbero finalmente sfatate le leggende sul linguaggio di Moro.
Non pronunciò mai l’espressione «convergenze parallele», divenuta proverbiale
come citazione obbligata sul «bizantinismo» della lingua della Prima
Repubblica, che fu in realtà invenzione nel 1960 da parte di Eugenio Scalfari,
che a Moro fu sempre ostile. Certamente non sapremmo immaginarlo nella
dimensione di un politico che oggi comunica attraverso i tweet. Il suo
linguaggio era certamente complesso, ricco di sfumature che volevano offrire
un’interpretazione della realtà non semplicistica né scontata, ma era sempre
comprensibile, e talvolta esplicito e limpido nelle sue affermazioni.
Come nel suo
ultimo scritto da uomo libero, l’articolo dedicato al decennale del Sessantotto
che portava con sé in Via Fani al momento dell’agguato: «una specie di
rivoluzione, di cui sono certamente riflessi i fatti operai del ’69… una
straordinaria esperienza che ha contrassegnato la nostra epoca, dato uno
spessore nuovo alla democrazia, difeso tutto ed anche la sinistra dalle
cristallizzazioni ritardatrici e devianti».
Il Manifesto
– 7 febbraio 2017
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