Nato a Sofia, allievo
di Barthes, difese i valori dell’Illuminismo dagli oscurantismi e
indagò l’universo concentrazionale.
Massimiliano Panarari
Addio al filosofo
Tzvetan Todorov. Celebrò l’uomo contro i totalitarismi
Uno studioso versato negli attraversamenti disciplinari e predisposto alla contaminazione. Un profondo «umanista contemporaneo» (come è stato definito in Francia) e un indomito intellettuale pubblico, europeista convinto. Ecco l’identikit del teorico della letteratura, storico delle idee («etichetta» che lui stesso preferiva a quella di filosofo) e saggista Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel marzo del 1939 e scomparso ieri a Parigi all’età di 77 anni. Una figura, insignita di molti premi e riconoscimenti per le scienze sociali, votata alla rottura degli steccati tanto nel sapere quanto nel modo di pensare le società e l’umanità.
Todorov cominciò a muovere i suoi passi sulla scena intellettuale internazionale, dopo la laurea in filologia in patria, con il trasferimento nel ’63 per il dottorato a Parigi, dove fu allievo del celebre semiologo Roland Barthes, e approdò al Cnrs (il Centre national de la recherche scientifique), intraprendendo una brillante carriera che lo porterà a diventare direttore del Centre de recherches sur les arts et le langage presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales.
Fuoriuscito da uno dei
Paesi più «osservanti» e liberticidi del blocco del socialismo
reale, di cui descrisse in varie occasioni la perversa capacità di
annullamento dei valori (e del valore) dell’individuo, Todorov
svolse un ruolo essenziale nell’importazione nell’Europa
occidentale della metodologia di analisi dei testi letterari
sviluppata dalla scuola del formalismo russo degli Anni Venti (di cui
curò una famosa antologia, pubblicata in Italia nel ’68 da
Einaudi).
Una proposta culturale
che incontrò gli immediati favori dello strutturalismo transalpino,
verso il quale si orientò da subito il lavoro di Todorov, con la sua
ricerca di una scienza della letteratura (la «poetica») in grado di
formalizzare le norme astratte e le leggi fondamentali della
narrazione.
Una visione, appunto,
tipicamente strutturalista, veicolata anche attraverso la rivista di
teoria letteraria Poétique da lui fondata, nel 1970, insieme a
Gérard Genette, ma che saprà rendere via via meno ortodossa nel
corso del decennio; in seguito, l’entrata in crisi della critica di
impronta semiologica lo indurrà a spostare l’asse della ricerca
verso il simbolismo linguistico e una concezione del testo in cui la
centralità della «struttura» (e del «sistema») lasciava
progressivamente il passo a una sua visione più «dialogica»,
fondata sulla consapevolezza della rilevanza della molteplicità
delle influenze culturali e del confronto tra gli autori (documentata
già da un libro come l’Introduzione alla letteratura fantastica,
Garzanti).
Il congedo
dall’approccio strutturalista lo conduce, negli Anni Ottanta, al
nuovo periodo del lavoro sulla storia delle idee, costellato di saggi
quali La conquista dell’America (uscito in Italia nel 1984 sempre
da Einaudi, e dedicato all’annullamento delle culture indigene
amerindie nel nome della colonizzazione) e Noi e gli altri sulle
riflessioni, nel pensiero francese tra Settecento e Novecento,
intorno al tema della diversità umana. Un’analisi incrociata e
comparata, come d’abitudine, che ha fornito il sostrato per la sua
nozione, basata su un’idea di moderazione e sulla razionalità, di
un «umanesimo ben temperato».
Queste posizioni lo porteranno, negli Anni Duemila, a individuare ne Lo spirito dell’Illuminismo (Garzanti, 2007) il lascito migliore della storia europea e il solo antidoto al dilagare dell’irrazionalismo e del revanscismo neoidentitario e xenofobo. L’intellettuale franco-bulgaro era entrato da qualche tempo nella sua fase di pensatore morale ed etico, che si era cimentato, nel volume Di fronte all’estremo (Garzanti, 1992), con l’abisso concentrazionario e il progetto di disumanizzazione attuato dai totalitarismi (che non è archiviato una volta per tutte, metteva in guardia, perché l’orrore rimane sempre in agguato sotto altre spoglie).
Il Todorov degli
ultimi due decenni è stato il fiero avversario della dottrina dello
scontro di civiltà di Samuel Huntington, la firma di Libération che
interveniva in maniera «militante» sui temi dell’attualità, e la
voce coraggiosa che si faceva puntualmente sentire in questa nostra
epoca di pruriti neototalitari rossobruni e di populismi, avendo –
lui che disvelò la protervia e il «nichilismo» del comunismo della
cortina di ferro – i titoli esemplari per farlo.
Todorov è stato anche lo studioso multidisciplinare di Benjamin Constant e di Rembrandt, lo storico delle idee che ha rivendicato fortemente la tesi per cui il pensiero non è appannaggio esclusivo dei filosofi, ma viene espresso dagli artisti come dai teorici politici. E da tutti coloro che, di fronte alle minacce alla libertà e alla dignità degli individui, sono capaci di testimoniare e resistere, come i grandi Resistenti (da Pasternak a Luther King ed Etty Hillesum) del suo ultimo libro.
La Stampa – 8 febbraio
2017
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