Sempre
meno si ricordano le crudeltà turche, russe, iraniane, irakene,
siriane contro i Curdi, una grande etnia, forse una nazione, divisa
tra quattro o cinque stati e sottoposta a discriminazioni, nel tempo
più o meno gravi e pesanti, in ciascuno di essi.
Neanche
l'Armata Rossa si sottrasse a questa orribile pratica durante la
guerra civile che seguì la Rivoluzione di Ottobre e che ebbe tra i
suoi teatri il Caucaso e le regioni della penisola iranica che erano
state conquistate dagli zar nel corso dei secoli. Viktor
Sklovskij, che nel 1919 fu commissario dell'Armata Rossa in quelle
regioni che chiama semplificando “Persia”, nel Viaggio
sentimentale che raccoglie i
suoi ricordi degli anni 1917-1922, dedica diverse pagine alla
tragedia dei curdi. Ne ho qui ripreso una, particolarmente
significativa. (S.L.L.)
Eravamo
abituati ai mendicanti. Intorno a ogni accampamento si aggiravano
bambini di forse cinque anni, con addosso un solo cencio nero a mo'
di camicia; avevano gli occhi tracomatosi e assediati dalle mosche.
Curvi, grufolavano con mosse istintive di animale stanco nei rifiuti,
cercando qualcosa di commestibile. Di notte si raccoglievano vicino
alle cucine per scaldarsi. Pochi, fra i più grandicelli, furono
assunti nelle unità come inservienti. Gli altri morivano
silenziosamente e lentamente; come sa morire un essere umano
infinitamente tenace.
Lasciammo
Gajderobat. Percorrevamo ora strade appena abbozzate, dove ancora
formicolavano persiani e curdi, sorvegliati dai nostri genieri, ora
direttamente sul terreno salino. In un punto la macchina si mise a
slittare e uscimmo a stento da una palude salata a forza di mettere
erba secca sotto le ruote.
Ci
imbattemmo in villaggi distrutti. Avevo visto molte distruzioni; i
centri abitati e le case della Galizia quasi interamente frantumati,
ma la vista delle rovine persiane era nuova per me.
Una
casa costruita con argilla e paglia diventa un mucchio di fango se le
si toglie il tetto.
La
strada continuava, sterminata come la guerra. Tutte le strade di
guerra sono vicoli ciechi.
Sui
terreni salini incontrammo mandrie di cavalli. Non avevamo, come ho
detto, foraggi a sufficienza, non avevamo di che sostenere i cavalli
sfiniti. Non valeva la pena di nutrirli, non bastava la compassione
per ammazzarli, venivano cacciati nella nuda steppa perché si
procacciassero il cibo sa sé. Morivano lentamente. Io passavo oltre.
A
proposito di compassione. Mi avevano descritto il quadro seguente. Un
cosacco in piedi. Davanti a lui un lattante curdo nudo, abbandonato.
Il cosacco lo vuol uccidere, gli vibra un colpo e si ferma a pensare,
gliene dà un altro e si ferma ancora. Gli dicono: «Fallo fuori con
una botta sola» e lui «Non posso: mi fa compassione».
Arrivai
a Solozbulak. Una piccola città in una conca. Una volta famosa per
le sue pellicce stampate d'oro. Il progrom era finito, avevano
arraffato ogni cosa.
Andai
al comitato di armata, radunai quelli del reggimento. Cominciai a
parlare. Mi rispondevano, irritati, che i Curdi erano dei nemici.
«Ogni curdo è un nemico», è il ritornello del soldato russo in
Persia. Poi, subito si riprendevano e dicevano di essere contrari ai
progrom.
Appresi
strane cose. Oltre ai cosacchi del Kubàn e ad un reparto di sanità
avevano preso parte al saccheggio... tutti indistintamente. Nei
nostri convogli prestavano servizio, a titolo di mercenari, o che so
io, dei molokàn (setta religiosa, ndr) con i loro tiri a tre. La
combinazione era questa: molokan, duchobor, arapija bianca (tutti
movimenti religiosi caratterizzati da fanatismo n.d.r.), misticismo,
e chi più ne ha più ne metta... E tutta questa gente aveva
partecipato alle ruberie, insieme agli artiglieri. Il comandante
della divisione, mentre infieriva il progrom, si chiuse in casa e non
ne uscì.
Sì:
la storia non dimenticherà certe usanze nei confronti dei persiani e
dei curdi.
Quando
cominciava il saccheggio, i curdi – Solozbulak è una città curda
– riparavano sui tetti insieme alle mogli senza portarsi dietro
nulla e lasciavano la città in balia dei saccheggiatori. In tal modo
evitavano lo stupro, non sempre beninteso.
Il
dolore e la vergogna della polvere di pogrom si depositò nel mio
animo e “la tristezza, come un esercito di negri, mi insanguinò il
cuore”(è la seconda parte d'una frase tratta da una lirica
persiana).
Non
voglio essere il solo a piangere e dirò qualcosa di troppo doloroso
per essere nascosto. Nel comitato di armata un soldato sosteneva con
energia che nulla doveva essere tolto alla popolazione affamata.
Occorre dire che la nostra armata, a differenza di alcuni corpi
dell'armata del Caucaso, non soffrì la fame; si distribuivano non
meno di 600 grammi di pane e la carne di montone era abbondante.
Unica eccezione erano le vedette sui valichi montani. Quel soldato
aveva portato dei campioni di pane curdo: era fatto di carbone e di
argilla, con una piccolissima parte di ghiande. Non lo si volle
ascoltare.
da
Viaggio sentimentale,
De Donato Editore, Bari 1966, trad. di M. Olsufieva.
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