L'ultimo numero di
Micromega contiene un lungo articolo di Cristina Cecchi sul concetto
di rivolta in Camus e Holloway. Ne riprendiamo la prima parte, relativa
al Camus libertario, cantore (attualissimo) dell'uomo in rivolta.
Cristina Cecchi
Rivolta o rivoluzione?
Da Camus a Holloway
Primavere arabe,
Occupy ovunque, banlieu in fiamme e vittoriosi referendum
antiausterity: non passa anno senza che gli ottimisti salutino La
rivoluzione è vicina, il Capitale è spacciato. Anno dopo anno, i
non immemori sanno: Neppure questo è il tempo della rivoluzione. Il
mondo critico si divide in:
- chi ancora spera e si adopera per trasformare la speranza in realtà
- chi caparbiamente lotta
per mantenere integra almeno la propria dignità
(I disperati votano Trump e i furbi lavorano in una banca d’affari, ma qui non interessano.)
Nessuna delle due posture è nuova. Ed è bene così, perché l’esperienza consente di evitare l’eterno ritorno dell’errore. Quando il materialismo storico si è materializzato nella storia non conosceva la sconfitta; quando si è fatto rivoluzione e la rivoluzione si è fatta Stato e lo Stato si è fatto di nuovo tirannia, la sconfitta si è impadronita di chi padroni non ne voleva, di chi da allora non ha smesso di dire No soltanto tra sé e sé. A voce e testa alta, ma tra sé e sé.
Celebre l’incipit dell’Uomo in rivolta di Albert Camus (1951): «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». La rivolta è una negazione che afferma. È un No che libera da per rendere liberi di. È destruens e construens in un unico movimento. Il No può essere pronunciato silenziosamente oppure ad alta voce; in ogni caso, il primo destinatario di questo messaggio è l’individuo stesso che lo emette.
Il No consegue a una
subitanea presa di coscienza e stabilisce il limite che l’individuo
non può tollerare venga oltrepassato senza che i suoi propri diritti
siano violati. Perciò è negazione e insieme affermazione: «Così,
il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico
di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa
di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione,
nell’insorto, di avere “il diritto di…”. Non esiste rivolta
senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte,
ragione».
La rivolta è il moto che
nasce dalla ripulsa provata al cospetto di una condizione ritenuta
ingiusta e che si sviluppa per opporre ciò che è preferibile a ciò
che non lo è. Fondamentale, per Camus, è precisare che si insorge
non solo per rivendicare una condizione migliore per se stessi: la
rivolta, benché nasca in quanto c’è di più strettamente
individuale nell’umano, è superamento dell’individuo in un bene
ormai comune, perché affermazione di un diritto che trascende il
singolo; l’insorto agisce, anche a costo della sua stessa vita, in
nome di un valore (relativo, ovviamente) che sente di condividere con
tutti gli umani.
La rivolta sottrae
l’individuo alla solitudine e all’assurdo, allo straniamento dato
dal nonsenso dell’esistenza, e ne fa un essere solidale e partecipe
della comunità: la sofferenza individuale diviene peste collettiva.
Dunque ci si rivolta non per sé, ma per tutti; prova ne è che «la
rivolta non nasce soltanto e necessariamente nell’oppresso, ma può
nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui è vittima
un altro», e non solo per empatia, ma soprattutto per la percezione
che un diritto ritenuto universale è stato violato. In definitiva,
per Camus la rivolta è «Lotta per l’integrità di una parte del
proprio essere». Di più: dato che l’umano non è se non in
relazione agli altri umani, e dato che «La solidarietà degli uomini
si fonda sul movimento di rivolta», la rivolta è una qualità
distintiva metafisica, dello stesso ordine del cogito cartesiano:
«Mi rivolto, dunque siamo».
Ma il pensiero informato alla rivolta non sempre consegue in atti fedeli alla sua primigenia nobiltà: talvolta, «per stanchezza e pazzia», se ne scorda, «in un’ebbrezza di tirannia o di servitù». «Al principio, l’uomo in rivolta voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e […] eccolo in marcia per l’impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all’infinito.»
Ma il pensiero informato alla rivolta non sempre consegue in atti fedeli alla sua primigenia nobiltà: talvolta, «per stanchezza e pazzia», se ne scorda, «in un’ebbrezza di tirannia o di servitù». «Al principio, l’uomo in rivolta voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e […] eccolo in marcia per l’impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all’infinito.»
Quando lo spirito di
rivolta metafisica entra nella storia e raggiunge il movimento
rivoluzionario («la rivoluzione non è altro che il logico sviluppo
della rivolta metafisica»), lo spirito rivoluzionario prende la
difesa di quella parte dell’uomo che non vuole inchinarsi e tenta
di dargli un suo regno nel tempo. Così Camus enuncia la distinzione
tra rivolta e rivoluzione: «[La rivoluzione] è l’inserzione
dell’idea nell’esperienza storica mentre la rivolta è soltanto
il moto che porta dall’esperienza individuale all’idea»; la
rivolta è una protesta oscura che non coinvolge il sistema, mentre
la rivoluzione è un tentativo di modellare l’atto sull’idea, di
foggiare il mondo entro un’inquadratura teorica.
Se però l’umano cede
alla supremazia dei mezzi sul fine, la rivoluzione prende le armi e
si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza:
«La rivoluzione, anche e soprattutto quella materialista, non è
nient’altro che una crociata metafisica smisurata». Con la tecnica
della conquista del potere per la realizzazione dei fini ultimi, poi,
la rivoluzione diventa impero, una nuova tirannia che si sovrappone
all’antica sotto le false insegne della speranza; ma Camus
denuncia: non esiste alcuna differenza sostanziale tra la tirannia
reazionaria e la tirannia progressista.
Terribili e definitive
come una pietra tombale sono le parole che spende per la Rivoluzione
russa, «la più grande rivoluzione che la storia abbia conosciuta»
– parole che gli valsero la rottura con Sartre e l’isolamento in
cui restò fino alla morte –: rivoluzione totalitaria, socialismo
militare, giacobinismo russo, terrorismo di Stato, rivoluzione
tradita, ingiustizia trionfante nella storia. Lenin cercò di attuare
l’eguaglianza umana mediante la conquista dei poteri dello Stato,
spingendosi ben oltre quella provvisoria dittatura operaia già
contraddittoriamente prevista da Marx: «Dal regno della massa, dal
concetto di rivoluzione proletaria, si passa dapprima all’idea di
una rivoluzione fatta e diretta da agenti professionisti», sicché
il proletariato si identifica con i suoi capi, per poi annunciare che
non si può prevedere il termine di tale stato provvisorio e che per
giunta nessuno s’era mai sognato di promettere che avrebbe avuto
fine. Così la rivoluzione è «condannata, per durare, a negare la
propria vocazione universale», «vive su princìpi falsi», e il
rivoluzionario «non è più Prometeo, è Cesare».
Un decimo dell’umanità
esercita un’autorità illimitata sugli altri nove decimi; questi
perdono la loro personalità e divengono un gregge costretto
all’obbedienza dei nuovi signori e padroni, alla servitù delle
nuove élite che hanno sostituito le precedenti. Ma quando la
rivoluzione diventa schiavitù, la rivolta è morta. La più rigorosa
formulazione teorica di Camus dell’idea di rivoluzione si conclude
quindi nell’amarezza: «Teoricamente, la rivoluzione è un
cambiamento delle istituzioni politiche ed economiche atto ad
affermare più libertà e più giustizia nel mondo», ma
empiricamente questa utopia assoluta si è sempre autodistrutta,
muovendosi secondo le leggi del potere e del dominio e dunque non
distinguendosi in alcun modo dal potere e dal dominio che ambiva a
cancellare.
«La parola rivoluzione
serba il senso che ha in astronomia. È un movimento che chiude
l’orbita, che passa da un governo all’altro dopo una traslazione
completa. […] Ma per le stesse ragioni, si può dire che non c’è
ancora stata rivoluzione definitiva. Il movimento che sembra
concludere l’orbita già ne inizia un’altra all’atto stesso
della costituzione di un nuovo governo. Gli anarchici, Varlet in
testa, hanno visto bene che governo e rivoluzione sono propriamente
incompatibili.»
Nessun governo può
essere rivoluzionario: è una contraddizione in termini. Dato che non
si è ancora trovata una via a una rivoluzione che non diventi la
negazione di se stessa, una via alla rivoluzione definitiva, e che
tutte le occasioni storiche in tal senso sono andate sprecate, la
conclusione è una: «Visto che non viviamo più i tempi della
rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta. Saper
dire no, sforzarsi, ciascuno nel posto che occupa, di creare quei
valori vitali senza i quali non potrà esserci alcun rinnovamento,
conservare ciò che vale dell’essere, preparare quanto merita di
esistere […] ecco alcune buone ragioni di rinnovamento e di
speranza». Una postura metafisica e politica valida a metà xx
secolo tanto quanto a inizio xxi.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/rivolta-o-rivoluzione-da-camus-a-holloway/
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