26 febbraio 2017

ATTUALITA' DI ALBERT CAMUS


L'ultimo numero di Micromega contiene un lungo articolo di Cristina Cecchi sul concetto di rivolta in Camus e Holloway. Ne riprendiamo la prima parte, relativa al Camus libertario, cantore (attualissimo) dell'uomo in rivolta. 

Cristina Cecchi

Rivolta o rivoluzione? Da Camus a Holloway


Primavere arabe, Occupy ovunque, banlieu in fiamme e vittoriosi referendum antiausterity: non passa anno senza che gli ottimisti salutino La rivoluzione è vicina, il Capitale è spacciato. Anno dopo anno, i non immemori sanno: Neppure questo è il tempo della rivoluzione. Il mondo critico si divide in: 

- chi ancora spera e si adopera per trasformare la speranza in realtà 
- chi caparbiamente lotta per mantenere integra almeno la propria dignità 

(I disperati votano Trump e i furbi lavorano in una banca d’affari, ma qui non interessano.) 

Nessuna delle due posture è nuova. Ed è bene così, perché l’esperienza consente di evitare l’eterno ritorno dell’errore. Quando il materialismo storico si è materializzato nella storia non conosceva la sconfitta; quando si è fatto rivoluzione e la rivoluzione si è fatta Stato e lo Stato si è fatto di nuovo tirannia, la sconfitta si è impadronita di chi padroni non ne voleva, di chi da allora non ha smesso di dire No soltanto tra sé e sé. A voce e testa alta, ma tra sé e sé. 

Celebre l’incipit dell’Uomo in rivolta di Albert Camus (1951): «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». La rivolta è una negazione che afferma. È un No che libera da per rendere liberi di. È destruens e construens in un unico movimento. Il No può essere pronunciato silenziosamente oppure ad alta voce; in ogni caso, il primo destinatario di questo messaggio è l’individuo stesso che lo emette.

Il No consegue a una subitanea presa di coscienza e stabilisce il limite che l’individuo non può tollerare venga oltrepassato senza che i suoi propri diritti siano violati. Perciò è negazione e insieme affermazione: «Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione, nell’insorto, di avere “il diritto di…”. Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione».

La rivolta è il moto che nasce dalla ripulsa provata al cospetto di una condizione ritenuta ingiusta e che si sviluppa per opporre ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Fondamentale, per Camus, è precisare che si insorge non solo per rivendicare una condizione migliore per se stessi: la rivolta, benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’umano, è superamento dell’individuo in un bene ormai comune, perché affermazione di un diritto che trascende il singolo; l’insorto agisce, anche a costo della sua stessa vita, in nome di un valore (relativo, ovviamente) che sente di condividere con tutti gli umani.

La rivolta sottrae l’individuo alla solitudine e all’assurdo, allo straniamento dato dal nonsenso dell’esistenza, e ne fa un essere solidale e partecipe della comunità: la sofferenza individuale diviene peste collettiva. Dunque ci si rivolta non per sé, ma per tutti; prova ne è che «la rivolta non nasce soltanto e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui è vittima un altro», e non solo per empatia, ma soprattutto per la percezione che un diritto ritenuto universale è stato violato. In definitiva, per Camus la rivolta è «Lotta per l’integrità di una parte del proprio essere». Di più: dato che l’umano non è se non in relazione agli altri umani, e dato che «La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta», la rivolta è una qualità distintiva metafisica, dello stesso ordine del cogito cartesiano: «Mi rivolto, dunque siamo».

Ma il pensiero informato alla rivolta non sempre consegue in atti fedeli alla sua primigenia nobiltà: talvolta, «per stanchezza e pazzia», se ne scorda, «in un’ebbrezza di tirannia o di servitù». «Al principio, l’uomo in rivolta voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e […] eccolo in marcia per l’impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all’infinito.»

Quando lo spirito di rivolta metafisica entra nella storia e raggiunge il movimento rivoluzionario («la rivoluzione non è altro che il logico sviluppo della rivolta metafisica»), lo spirito rivoluzionario prende la difesa di quella parte dell’uomo che non vuole inchinarsi e tenta di dargli un suo regno nel tempo. Così Camus enuncia la distinzione tra rivolta e rivoluzione: «[La rivoluzione] è l’inserzione dell’idea nell’esperienza storica mentre la rivolta è soltanto il moto che porta dall’esperienza individuale all’idea»; la rivolta è una protesta oscura che non coinvolge il sistema, mentre la rivoluzione è un tentativo di modellare l’atto sull’idea, di foggiare il mondo entro un’inquadratura teorica.

Se però l’umano cede alla supremazia dei mezzi sul fine, la rivoluzione prende le armi e si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza: «La rivoluzione, anche e soprattutto quella materialista, non è nient’altro che una crociata metafisica smisurata». Con la tecnica della conquista del potere per la realizzazione dei fini ultimi, poi, la rivoluzione diventa impero, una nuova tirannia che si sovrappone all’antica sotto le false insegne della speranza; ma Camus denuncia: non esiste alcuna differenza sostanziale tra la tirannia reazionaria e la tirannia progressista.
Terribili e definitive come una pietra tombale sono le parole che spende per la Rivoluzione russa, «la più grande rivoluzione che la storia abbia conosciuta» – parole che gli valsero la rottura con Sartre e l’isolamento in cui restò fino alla morte –: rivoluzione totalitaria, socialismo militare, giacobinismo russo, terrorismo di Stato, rivoluzione tradita, ingiustizia trionfante nella storia. Lenin cercò di attuare l’eguaglianza umana mediante la conquista dei poteri dello Stato, spingendosi ben oltre quella provvisoria dittatura operaia già contraddittoriamente prevista da Marx: «Dal regno della massa, dal concetto di rivoluzione proletaria, si passa dapprima all’idea di una rivoluzione fatta e diretta da agenti professionisti», sicché il proletariato si identifica con i suoi capi, per poi annunciare che non si può prevedere il termine di tale stato provvisorio e che per giunta nessuno s’era mai sognato di promettere che avrebbe avuto fine. Così la rivoluzione è «condannata, per durare, a negare la propria vocazione universale», «vive su princìpi falsi», e il rivoluzionario «non è più Prometeo, è Cesare».

Un decimo dell’umanità esercita un’autorità illimitata sugli altri nove decimi; questi perdono la loro personalità e divengono un gregge costretto all’obbedienza dei nuovi signori e padroni, alla servitù delle nuove élite che hanno sostituito le precedenti. Ma quando la rivoluzione diventa schiavitù, la rivolta è morta. La più rigorosa formulazione teorica di Camus dell’idea di rivoluzione si conclude quindi nell’amarezza: «Teoricamente, la rivoluzione è un cambiamento delle istituzioni politiche ed economiche atto ad affermare più libertà e più giustizia nel mondo», ma empiricamente questa utopia assoluta si è sempre autodistrutta, muovendosi secondo le leggi del potere e del dominio e dunque non distinguendosi in alcun modo dal potere e dal dominio che ambiva a cancellare.

«La parola rivoluzione serba il senso che ha in astronomia. È un movimento che chiude l’orbita, che passa da un governo all’altro dopo una traslazione completa. […] Ma per le stesse ragioni, si può dire che non c’è ancora stata rivoluzione definitiva. Il movimento che sembra concludere l’orbita già ne inizia un’altra all’atto stesso della costituzione di un nuovo governo. Gli anarchici, Varlet in testa, hanno visto bene che governo e rivoluzione sono propriamente incompatibili.»

Nessun governo può essere rivoluzionario: è una contraddizione in termini. Dato che non si è ancora trovata una via a una rivoluzione che non diventi la negazione di se stessa, una via alla rivoluzione definitiva, e che tutte le occasioni storiche in tal senso sono andate sprecate, la conclusione è una: «Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta. Saper dire no, sforzarsi, ciascuno nel posto che occupa, di creare quei valori vitali senza i quali non potrà esserci alcun rinnovamento, conservare ciò che vale dell’essere, preparare quanto merita di esistere […] ecco alcune buone ragioni di rinnovamento e di speranza». Una postura metafisica e politica valida a metà xx secolo tanto quanto a inizio xxi.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/rivolta-o-rivoluzione-da-camus-a-holloway/

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