“La nostra
informazione sui fatti non solo è limitata, ma le risposte alle
domande sui fatti più importanti che concernono la condizione umana
e l’esistenza in generale vanno oltre la conoscenza e l’esperienza
fattuale”. Ed è per questo che la ricerca della verità rimane un
inaggirabile problema, a cui si può rispondere per via teologica o
per via filosofica, ma “non si può considerare l’intera faccenda
come se Dio fosse una nozione inventata da un teorico pragmatista
particolarmente acuto che sapeva cosa è buono e cosa non lo è”.
Proponiamo uno scritto del 1950 in cui Hannah Arendt si interroga sul
ruolo della religione nella condizione umana. Il testo è ripreso
dall'ultimo interessantissimo numero di Micromega dedicato ai
rapporti fra intellettuali e religione.
Hannah Arendt
Religione e condizione
umana
La convinzione che «tutti
gli eventi hanno le loro cause » non è specifica di un «punto di
vista naturalista»; il naturalismo cerca di dimostrare che tutti gli
eventi hanno cause “naturali”, ma considera il principio di
causalità come un assunto. Non si tratta di un cavillo di poco
conto, dal momento che il principio di causalità ha giocato un ruolo
cruciale in tutte le discussioni teologiche del passato. Gli
argomenti elaborati nel Medioevo per “provare” l’esistenza di
Dio si sono spesso fondati su tale principio, ovvero sull’idea che
ogni cosa esistente deve avere una causa. D’altronde, le teorie
genuinamente atee sono
spesso contraddistinte dalla negazione di ogni catena di causalità e
dall’assunto del carattere accidentale e coincidenziale di tutti
gli eventi. Se non può essere dimostrata l’esistenza di alcuna
catena di causalità che leghi un evento a un altro, allora il
ragionamento che desume l’esistenza di un creator dall’esistenza
di una creatura non è valido. Questo primo punto, inoltre,
implica che la religione sia un esempio di “rimedio”, forse
fallace, all’impossibilità di trovare una causa naturale, ma ciò
non costituisce un’interpretazione naturalista della religione.
Infatti, la tesi che tutto derivi da cause naturali è di per sé
indipendente dall’esistenza di bisogni umani o da specifiche
condizioni sociali. Essa è semplicemente una proposizione di cui va
dimostrata la verità o la falsità.
Ciò che vorrei
sottolineare è che se si assume la causalità come principio valido,
si finisce sempre per costruire una “dimostrazione” dell’esistenza
di Dio. Il problema di tali dimostrazioni è sempre il solito, come
ha notato Kant: non è possibile dimostrare l’esistenza di
un fatto attraverso una deduzione logica; allo stesso modo,
non è neppure possibile mostrarne la non-esistenza. Se si considera
la questione in termini scientifici, non possiamo provare né
smentire l’esistenza di Dio. Un “approccio scientifico” che si
ritenga in grado di svolgere questi compiti, in realtà non è altro
che un punto di vista viziato da una superstizione acritica.
L’impossibilità di
fare affermazioni valide sull’argomento ha comunque una certa
rilevanza per il pensiero filosofico. Sembra che la condizione umana
e la mente dell’uomo siano tali da lasciare gli uomini
all’oscuro rispetto alle informazioni fattuali più
interessanti. Questo è di per sé un fatto ed è aperto
all’interpretazione. Un’interpretazione teologica potrebbe
argomentare che senza questa ignoranza non ci potrebbe essere la
fede, e quindi non si potrebbe ottenere la salvezza.
Un’interpretazione filosofica potrebbe invece sostenere che senza
questa mancanza di informazioni essenziali non potrebbe esistere
nessuna libertà umana. L’”approccio scientifico” sarebbe
connaturato all’essenza stessa della scienza, che è innanzitutto
interessata ai fatti; la nostra informazione sui fatti non solo è
limitata, ma le risposte alle domande sui fatti più importanti che
concernono la condizione umana e l’esistenza in generale vanno
oltre la conoscenza e l’esperienza fattuale.
A questo punto, vorrei
mettere in guardia i lettori: non si deve sopravvalutare l’importanza
del “revival della religione” che caratterizza l’epoca
presente. Simili “ventate di Zeitgeist” si sono
ripresentate ciclicamente qua e là a partire dal periodo
dell’Illuminismo, che fu subito seguito dal Romanticismo. Se
guardiamo alla vicenda da un punto di vista puramente intellettuale e
se la consideriamo nei termini della storia di un’idea, troviamo
che – più o meno ogni vent’anni – a una qualche versione di
“naturalismo” (declinato di volta in volta come positivismo,
materialismo dialettico, o pragmatismo) ha fatto seguito un revival
religioso.
Ciò non sorprende; al
contrario, sarebbe più sorprendente se il rapido declino della fede
religiosa che si è verificato nella cultura occidentale durante gli
ultimi tre secoli non fosse stato intervallato dal riaffiorare di
queste memorie intellettuali – memorie che, dopo tutto,
riguardano migliaia di anni di storia e cultura degli uomini. Da un
punto di vista storico, non è importante la storia di una singola
idea o quella degli intellettuali, ma la storia dell’umanità in
generale, così come questa si è sviluppata in Occidente. Il fatto
storico fondamentale, quindi, è che una stragrande maggioranza di
persone ha smesso di credere in un Giudizio Universale che dovrebbe
avvenire alla fine dei tempi.
Certamente, questo non
significa che questa maggioranza sia divenuta più incline a adottare
una prospettiva scientifica; anzi, si potrebbe anche dubitare che
l’ascesa del pensiero scientifico durante il periodo considerato
abbia causato un simile sviluppo, nonostante affermazioni del genere
non siano affatto infrequenti. Le stesse masse che comunque non si
erano preoccupate di approfondire i misteri degli scritti antichi,
come l’In-carnazione o la Trinità, sono piuttosto inclini a
credere più o meno… a qualunque cosa. Si tratta di semplice
superstizione e l’unico legame che vedo tra la spaventosa credulità
dei moderni e l’”approccio scientifico” è che i contenuti
della superstizione intellettuale e di quella popolare cambiano più
velocemente rispetto ai contenuti delle scoperte scientifiche.
Devo ammettere che ho
sempre trovato piuttosto divertente l’idea che si possa o si debba
organizzare la religione come un’istituzione soltanto per il
piacere di riconoscersi in una cultura. Trovo davvero affascinante
l’immagine di una persona che cambia il proprio modo di ragionare e
inizia a credere in Dio, segue i suoi comandamenti, invoca il suo
nome in preghiera e si reca regolarmente in chiesa, per fornire
l’ispirazione ai poeti e rendere la cultura “integrata”.
La soluzione proposta dal
cattolicesimo cerebrale ( Catholicisme cérébral) di cui
si parla oggi costituisce uno dei modi più sicuri per uccidere la
religione – cosa che la Chiesa sapeva benissimo, nel momento in cui
ha messo all’indice gli scritti in cui questa dottrina veniva
elaborata. Anche le proposte di utilizzare la religione come un’arma
contro il totalitarismo o come “una difesa della tradizione
civilizzata” non sembrano più valide.
Inoltre, pare che tutti
questi tentativi siano destinati al fallimento e la manifestazione
più drammatica di ciò si è avuta nella lotta contro il
totalitarismo; la storia recente ha dimostrato quanto la religione
organizzata sia debole e impotente quando si trovi a confrontarsi con
le nuove forme di governo totalitario, nonostante la buona volontà e
i frequenti atti di eroismo mostrati da gran parte del clero di quasi
tutte le confessioni religiose.
Il vero problema, come in
tutte le discussioni sulla religione, è questo: è inevitabile
affrontare la questione della verità; quindi, non si può
considerare l’intera faccenda come se Dio fosse una nozione
inventata da un teorico pragmatista particolarmente acuto che sapeva
cosa è buono e cosa non lo è. Non si può pensare in questi
termini: o Dio esiste e la gente crede in lui – in tal caso si
tratterebbe di un fatto molto più importante di qualunque
manifestazione culturale o letteraria; oppure Dio non esiste e la
gente non crede in lui – e nessuna immaginazione o trama letteraria
potrebbe cambiare tale situazione a beneficio della cultura e degli
intellettuali.
( Traduzione di Elisa
Piras)
La Repubblica – 4
febbraio 2017
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