Questo saggio è uscito nel sesto numero monografico di Lettera. Quaderno di clinica psicoanalitica (Mimesis), intitolato Lo straniero, il nome dell’uomo. Psicoanalisi e forme dell’alterità. Gli scritti che ne fanno parte parlano del soggetto umano, che secondo la psicoanalisi è per definizione «straniero a se stesso», e del rapporto con l’altro da sé
Lo straniero interno
di Alberto Russo
Di fronte agli atti terroristici che
hanno colpito l’Europa in questi ultimi due anni, è sorta spesso,
inevitabile, questa domanda: quale posizione occorre assumere rispetto a
quei soggetti che diventano l’incarnazione di atti capaci di instillare
l’angosciosa estraneità nel nostro corpo sociale?
Quando la reazione affettiva, immaginaria, di fronte a quelle vittime che sono doppi di noi stessi, non porta ad annullare completamente il riconoscimento dell’esistenza della soggettività del terrorista, cadendo nel tranello dell’odio mimetico, accettando il farsi dell’altro nemico più-che-straniero (Jean-Claude Milner), ci si ricorda che, nella maggior parte dei casi, i terroristi suicidi sono giovani, a volte addirittura adolescenti, e che, in molti casi, sono individui nati e cresciuti in Europa e sono cittadini europei.
Se riusciamo a sottrarci alla presa dell’odio speculare, possiamo percorrere un’altra via: quella di leggere il gesto di questi giovani in correlazione con la conformazione contemporanea dei legami sociali e dell’ordine simbolico; questo gesto può allora anche essere interpretato come un sintomo, dunque come un fatto di struttura che chiama in causa il fare comunità di tutti gli altri e dell’Altro; un gesto in cui, al di là dell’adesione alla “causa” dello jihad a livello dell’io, può leggersi, in estrema istanza, l’espressione di ragioni profonde, inconsce, nella forma di una provocazione tragica.
Ora, di fronte agli attentati compiuti sul suolo francese, il presidente Hollande ha ripetuto “siamo in guerra!”, e così ha fatto Angela Merkel per quelli compiuti sul suolo tedesco. Questa frase verbalizza senza mediazione il sentimento ostile prodotto inevitabilmente dall’attentato. È però molto di più dell’effetto di una posa retorica, finalizzata a mostrare di non perdere sintonia con gli elettori in un momento decisivo. Prendiamo il caso francese. Nel caso di attentati compiuti da cittadini francesi di origine straniera, questa frase si pone come riaffermazione della logica classica, rassicurante per lo Stato (e per i cittadini), di essere in guerra con un nemico straniero; è la negazione della realtà scomoda di vedere dei cittadini del proprio Stato compiere atti terroristici contro di esso e contro la collettività nazionale, un fatto che infrange la rappresentazione immaginaria di un corpo sociale il cui legame è garantito da principi giuridici laici e non etnico-identitari. Viene negata cioè la possibilità sovversiva che un individuo possa essere nato, cresciuto ed educato in un paese, possa essere giuridicamente cittadino di quel paese (e magari solo di quello), un elemento del suo corpo nazionale, e che nonostante tutto ciò possa sentirsi straniero, e straniero ostile. Se l’ostilità riguardasse altri cittadini in nome della realizzazione di un patto diverso tra il corpo nazionale e lo Stato, si potrebbe parlare di guerra civile, o di guerra partigiana, ma l’ostilità riguarda proprio il legame tra Stato e collettività nazionale. Ecco dunque che, al di là dell’odio speculare, inevitabile è il rimbalzare ovunque di questa domanda: perché un ragazzo nato e cresciuto in un paese “avanzato”, nel pieno della giovinezza, decide di farsi straniero e di sacrificare la propria vita per nuocere il più possibile al suo paese?
Il carattere sovversivo di questa posizione rispetto allo Stato e alle sue esigenze di controllo può essere compresa rifacendoci alla metafora dello “straniero interno”[1] usata da Freud per indicare il rimosso, e a quelle di “interno escluso”, di “esteriorità intima” e di “estimità”[2], usate da Lacan per situare l’oggetto perduto (la Cosa). Queste metafore permettono di pensare in termini rigorosi la strategia sovversiva implicita nel farsi straniero del terrorista.
Il primo effetto ricercato è quello di infliggere una ferita narcisistica all’Occidente, incrinando la sua immagine di luogo privilegiato del pianeta, desiderato da tutti[3], come attesta quotidianamente l’epopea tragica dei migranti. Il terrorista straniero interno con il suo gesto esibisce il suo rifiuto profondo per i valori occidentali, ovvero per i valori della globalizzazione trionfante votata all’“autoesportazione”. Questo rifiuto pone l’immagine del terrorista come rovescio speculare di quella del migrante: il primo rifiuta, sacrificando la propria vita, la condizione che il secondo desidera al punto da rischiare la vita per ottenerla. Si potrebbe leggere il gesto del terrorista “interno-escluso” come un messaggio ai migranti: non troverete quello che cercate. I vostri figli, e i loro figli, e i figli dei loro figli, saranno sempre stranieri ed esclusi.
Quando la reazione affettiva, immaginaria, di fronte a quelle vittime che sono doppi di noi stessi, non porta ad annullare completamente il riconoscimento dell’esistenza della soggettività del terrorista, cadendo nel tranello dell’odio mimetico, accettando il farsi dell’altro nemico più-che-straniero (Jean-Claude Milner), ci si ricorda che, nella maggior parte dei casi, i terroristi suicidi sono giovani, a volte addirittura adolescenti, e che, in molti casi, sono individui nati e cresciuti in Europa e sono cittadini europei.
Se riusciamo a sottrarci alla presa dell’odio speculare, possiamo percorrere un’altra via: quella di leggere il gesto di questi giovani in correlazione con la conformazione contemporanea dei legami sociali e dell’ordine simbolico; questo gesto può allora anche essere interpretato come un sintomo, dunque come un fatto di struttura che chiama in causa il fare comunità di tutti gli altri e dell’Altro; un gesto in cui, al di là dell’adesione alla “causa” dello jihad a livello dell’io, può leggersi, in estrema istanza, l’espressione di ragioni profonde, inconsce, nella forma di una provocazione tragica.
Ora, di fronte agli attentati compiuti sul suolo francese, il presidente Hollande ha ripetuto “siamo in guerra!”, e così ha fatto Angela Merkel per quelli compiuti sul suolo tedesco. Questa frase verbalizza senza mediazione il sentimento ostile prodotto inevitabilmente dall’attentato. È però molto di più dell’effetto di una posa retorica, finalizzata a mostrare di non perdere sintonia con gli elettori in un momento decisivo. Prendiamo il caso francese. Nel caso di attentati compiuti da cittadini francesi di origine straniera, questa frase si pone come riaffermazione della logica classica, rassicurante per lo Stato (e per i cittadini), di essere in guerra con un nemico straniero; è la negazione della realtà scomoda di vedere dei cittadini del proprio Stato compiere atti terroristici contro di esso e contro la collettività nazionale, un fatto che infrange la rappresentazione immaginaria di un corpo sociale il cui legame è garantito da principi giuridici laici e non etnico-identitari. Viene negata cioè la possibilità sovversiva che un individuo possa essere nato, cresciuto ed educato in un paese, possa essere giuridicamente cittadino di quel paese (e magari solo di quello), un elemento del suo corpo nazionale, e che nonostante tutto ciò possa sentirsi straniero, e straniero ostile. Se l’ostilità riguardasse altri cittadini in nome della realizzazione di un patto diverso tra il corpo nazionale e lo Stato, si potrebbe parlare di guerra civile, o di guerra partigiana, ma l’ostilità riguarda proprio il legame tra Stato e collettività nazionale. Ecco dunque che, al di là dell’odio speculare, inevitabile è il rimbalzare ovunque di questa domanda: perché un ragazzo nato e cresciuto in un paese “avanzato”, nel pieno della giovinezza, decide di farsi straniero e di sacrificare la propria vita per nuocere il più possibile al suo paese?
Il carattere sovversivo di questa posizione rispetto allo Stato e alle sue esigenze di controllo può essere compresa rifacendoci alla metafora dello “straniero interno”[1] usata da Freud per indicare il rimosso, e a quelle di “interno escluso”, di “esteriorità intima” e di “estimità”[2], usate da Lacan per situare l’oggetto perduto (la Cosa). Queste metafore permettono di pensare in termini rigorosi la strategia sovversiva implicita nel farsi straniero del terrorista.
Il primo effetto ricercato è quello di infliggere una ferita narcisistica all’Occidente, incrinando la sua immagine di luogo privilegiato del pianeta, desiderato da tutti[3], come attesta quotidianamente l’epopea tragica dei migranti. Il terrorista straniero interno con il suo gesto esibisce il suo rifiuto profondo per i valori occidentali, ovvero per i valori della globalizzazione trionfante votata all’“autoesportazione”. Questo rifiuto pone l’immagine del terrorista come rovescio speculare di quella del migrante: il primo rifiuta, sacrificando la propria vita, la condizione che il secondo desidera al punto da rischiare la vita per ottenerla. Si potrebbe leggere il gesto del terrorista “interno-escluso” come un messaggio ai migranti: non troverete quello che cercate. I vostri figli, e i loro figli, e i figli dei loro figli, saranno sempre stranieri ed esclusi.
Il secondo effetto ricercato è quello di
mettere a nudo l’incapacità di realizzare a pieno l’ideale del
controllo. Il terrorista fattosi straniero, spesso impegnato nella
dissimulazione della propria radicalizzazione prima di passare all’atto (taqiyya),
rivelando l’impotenza dei sistemi di controllo poliziesco, li costringe
a intensificare la loro attività, spingendoli di conseguenza al
confronto con la loro potenzialità totalitaria. Così le destre, più o
meno estreme, invocano ovunque misure anticostituzionali, e lo stato
d’emergenza in cui viviamo da mesi è divenuto ordinario. In effetti, il
manifestarsi del terrorista come straniero interno esaspera la fantasia
ossessiva dell’intrusione (così intimamente connessa alla struttura
dello Stato nazione), e si pone come sua paradossale conferma. A questa
esasperazione contribuisce inoltre l’accresciuto flusso di migranti e di
profughi dal Medio oriente e dall’Africa, un fenomeno che pone gli
stati e la massa di fronte a un’umanità ridotta a bisogno, nella quale
viene a incarnarsi, nella realtà, la scena familiare-rimossa
(perturbante) scongiurata dall’Altro ipermoderno: “noi non manchiamo di
nulla sulla terra”.
La vocazione prima dei discorsi di padronanza che dominano l’attuale organizzazione dei legami sociali (economia finanziaria, scienze mediche, telematica, show-business etc.), è garantire alla massa, elevando il bisogno a fondamento della realtà, l’evitamento dell’incontro con la propria fragilità, con la propria mancanza, attraverso la costruzione di dispositivi discorsivi (scientifici, polizieschi ecc.) finalizzati a creare l’illusione di un controllo della possibilità di morire. Sia l’azione del terrorismo suicida che i movimenti dei migranti rivelano l’impotenza di questi dispositivi, ponendosi come alterità irriducibili che il discorso di padronanza può provare a trattare solo con un’intensificazione della propria logica: attraverso pratiche che facciano in modo che lo straniero sia, prima ancora che posto all’esterno del corpo sociale, reso identificabile, visibile, distinguibile al suo interno (con il rischio di un ritorno del razzismo istituzionale). Appare dunque inevitabile in questo quadro il sorgere della relazione speculare angosciante tra migrante e terrorista estimo: “ogni migrante può essere un potenziale terrorista”.
Malgrado i meccanismi di difesa e le reazioni proiettive dei discorsi di padronanza, che fanno inevitabilmente il gioco della sovversione, una questione insiste: che cosa di profondamente intimo, che cosa di più proprio del legame sociale occidentale si manifesta nell’attuale farsi stranieri dei giovani connazionali di origine straniera? Questo “che cosa” deve essere ancora pensato rigorosamente. Una cosa però è certa: la buona novella neoliberale, che sotto l’egida della globalizzazione economica canta l’avvento di un’unica umanità consumistica e pacifica, senza frontiere, mostra oggi la sua inconsistenza. La logica bellica del “siamo in guerra” vorrebbe poter semplificare le cose: chi compie atti contro la “nazione”, rivendicandosi straniero, è uno straniero. E invece, nell’accettare la rivendicazione del soggetto radicalizzato a farsi straniero, la logica bellica conferma spesso maldestramente una verità della sua condizione sociale: al di là della legge, egli era già straniero, lo era a un livello simbolico molto più fondante di quello del diritto.
L’assunzione, da parte del cittadino discendente da migranti, di una posizione di assimilazione allo straniero ostile (posizione del nemico esterno) può dunque essere letta come meccanismo di difesa, come un plus-identificarsi (Fethi Benslama) a un tipo di identificazione negativa già presente nell’Altro sociale. Tuttavia, il tratto comune (provenienza, religione) tra la componente straniera del cittadino discendente da un paese dell’Africa o del Medio oriente e l’identità dello straniero ostile non appare più come un elemento indispensabile a questa identificazione negativa. La radicalizzazione di giovani di classe media di origini europee induce a interpretare l’assimilazione allo straniero esterno nel quadro dell’indebolimento generalizzato delle appartenenze ideali e ideologiche, delle sublimazioni collettive e delle identità di genere che caratterizza la società a capitalismo avanzato.
Di fronte alla radicalizzazione, all’estraneazione dei soggetti rispetto al proprio (al nostro) corpo sociale, il discorso psicoanalitico permette di tenere aperto un orizzonte pedagogico autentico: cercare nel loro incontro con l’ideologia dell’islamismo la ricerca di una soluzione a problemi in cui il singolare si interseca con il sociale e con il politico nella sua attuale debolezza. È una strategia che richiede più forza della reazione puramente bellica e poliziesca, obiettivo della provocazione terroristica, il cui fine è proprio l’esasperazione del conflitto speculare, in cui l’Altro prigioniero dei discorsi di padronanza ipermoderni si rivela in tutta la sua fragilità.
La vocazione prima dei discorsi di padronanza che dominano l’attuale organizzazione dei legami sociali (economia finanziaria, scienze mediche, telematica, show-business etc.), è garantire alla massa, elevando il bisogno a fondamento della realtà, l’evitamento dell’incontro con la propria fragilità, con la propria mancanza, attraverso la costruzione di dispositivi discorsivi (scientifici, polizieschi ecc.) finalizzati a creare l’illusione di un controllo della possibilità di morire. Sia l’azione del terrorismo suicida che i movimenti dei migranti rivelano l’impotenza di questi dispositivi, ponendosi come alterità irriducibili che il discorso di padronanza può provare a trattare solo con un’intensificazione della propria logica: attraverso pratiche che facciano in modo che lo straniero sia, prima ancora che posto all’esterno del corpo sociale, reso identificabile, visibile, distinguibile al suo interno (con il rischio di un ritorno del razzismo istituzionale). Appare dunque inevitabile in questo quadro il sorgere della relazione speculare angosciante tra migrante e terrorista estimo: “ogni migrante può essere un potenziale terrorista”.
Malgrado i meccanismi di difesa e le reazioni proiettive dei discorsi di padronanza, che fanno inevitabilmente il gioco della sovversione, una questione insiste: che cosa di profondamente intimo, che cosa di più proprio del legame sociale occidentale si manifesta nell’attuale farsi stranieri dei giovani connazionali di origine straniera? Questo “che cosa” deve essere ancora pensato rigorosamente. Una cosa però è certa: la buona novella neoliberale, che sotto l’egida della globalizzazione economica canta l’avvento di un’unica umanità consumistica e pacifica, senza frontiere, mostra oggi la sua inconsistenza. La logica bellica del “siamo in guerra” vorrebbe poter semplificare le cose: chi compie atti contro la “nazione”, rivendicandosi straniero, è uno straniero. E invece, nell’accettare la rivendicazione del soggetto radicalizzato a farsi straniero, la logica bellica conferma spesso maldestramente una verità della sua condizione sociale: al di là della legge, egli era già straniero, lo era a un livello simbolico molto più fondante di quello del diritto.
L’assunzione, da parte del cittadino discendente da migranti, di una posizione di assimilazione allo straniero ostile (posizione del nemico esterno) può dunque essere letta come meccanismo di difesa, come un plus-identificarsi (Fethi Benslama) a un tipo di identificazione negativa già presente nell’Altro sociale. Tuttavia, il tratto comune (provenienza, religione) tra la componente straniera del cittadino discendente da un paese dell’Africa o del Medio oriente e l’identità dello straniero ostile non appare più come un elemento indispensabile a questa identificazione negativa. La radicalizzazione di giovani di classe media di origini europee induce a interpretare l’assimilazione allo straniero esterno nel quadro dell’indebolimento generalizzato delle appartenenze ideali e ideologiche, delle sublimazioni collettive e delle identità di genere che caratterizza la società a capitalismo avanzato.
Di fronte alla radicalizzazione, all’estraneazione dei soggetti rispetto al proprio (al nostro) corpo sociale, il discorso psicoanalitico permette di tenere aperto un orizzonte pedagogico autentico: cercare nel loro incontro con l’ideologia dell’islamismo la ricerca di una soluzione a problemi in cui il singolare si interseca con il sociale e con il politico nella sua attuale debolezza. È una strategia che richiede più forza della reazione puramente bellica e poliziesca, obiettivo della provocazione terroristica, il cui fine è proprio l’esasperazione del conflitto speculare, in cui l’Altro prigioniero dei discorsi di padronanza ipermoderni si rivela in tutta la sua fragilità.
[1]
Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932), in Opere, cit., vol. XI, p. 170
Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932), in Opere, cit., vol. XI, p. 170
[2]
Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII., cit., pp. 119-165.
Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII., cit., pp. 119-165.
[3]
Alain Badiou parla di “desiderio di Occidente” per descrivere una soggettività tipica del mondo contemporaneo (che riguarda la gran parte dell’umanità), animata dal “desiderio di possedere, di condividere ciò che viene vantato ovunque come il benessere occidentale. […] Ciò origina manifestamente dei fenomeni come i flussi migratori”; Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano, Einaudi, Torino, 2016, p. 40.
Alain Badiou parla di “desiderio di Occidente” per descrivere una soggettività tipica del mondo contemporaneo (che riguarda la gran parte dell’umanità), animata dal “desiderio di possedere, di condividere ciò che viene vantato ovunque come il benessere occidentale. […] Ciò origina manifestamente dei fenomeni come i flussi migratori”; Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano, Einaudi, Torino, 2016, p. 40.
[Immagine: Immagine: Martin Parr, La Goutte d’Or, Paris]
Testo e immagine da http://www.leparoleelecose.it/?p=26093
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