12 febbraio 2017

F. VILLON, un poeta canaglia

"Pendus". Incisione dalla prima edizione del "Testamento" di François Villon (1489)
 

Villon. “Sono François poeta malandrino” 

 Alfredo Giuliani

Mastro François des Loges o de Montcorbier, parigino dei sobborghi, divenuto orfano di padre fu allevato da un oscuro e onesto protettore ecclesiastico, il cappellano Guillaume de Villon, del quale adottò il nome. Laureato, o più precisamente «licenziato», nel 1452 (aveva ventun anni) alla Facoltà delle Arti; scrivano, forse, saltuario e indocile; forse aspirante deluso a un qualche «beneficio» (un posto ben remunerato e di un certo rilievo intellettuale); vivace sottaniere e compagnone di taverne; ladro occasionale, alleato (non proprio magnaccia) di prostitute e sodale di malfattori. Girovago per disperazione, più volte incarcerato, processato, graziato da una condanna a morte e infine bandito da Parigi nel 1463, anno dopo il quale si perde di lui ogni traccia; autore delle più straordinarie poesie dei Quattrocento francese: Le Testament, Il contrasto del cuore e del corpo di Villon, la Ballata degli impiccati. Quando sentiva incombere la forca, scrisse questa quartina: “Io sono Francesco, il che mi pesa, / nato a Parigi, presso Pontesa, / e dalla corda lunga una tesa / saprà il mio collo quanto il culo pesa”. Francesco nell'antico italiano significava anche «francese», proprio come il francese François. A parte il nome italianato, ho citato la versione di Emma Stojkovic Mazzariol, curatrice della più completa edizione reperibile da noi (Villon, Opere, Mondadori, pagg. 606, lire 5.500, con ricco apparato di note e testo originale a fronte).
Questo è il personaggio che non cessa di affascinare critici e biografi; ovviamente, è grazie alla sua poesia che il «povero Villon» sopravvive in eterno, esemplare dell'uomo rissoso e tormentato del tardo Medioevo. Uscito dal liceo, uno dei primi libri che ebbi il naso di acquistare fu, appunto, Autunno del Medio Evo di Huizinga; a tale deliziosa rievocazione debbo un'incalcolabile quantità di insegnamenti e di suggestioni. Proprio nel capitolo di apertura Huizinga osservava che gli spogli d'archivio e le ricerche storiche sulla gente nominata o ricordata da Villon nel suo Testamento, le annotazioni sui borghesi di Parigi e sulla gente qualunque di quell'epoca, mettevano in luce soprattutto processi, delitti, liti, persecuzioni, ingiustizie.

Eredità immaginaria
Da documenti ecclesiastici, verbali di polizia, carte processuali e lettere di «remissione» (condoni o grazie) la vita di tutti i giorni balza fuori vivace e fosca. E questa impressione è confermata dai documenti ordinari. Era una vita tempestosa o, come diceva Huizinga, dai toni crudi. Amo Autunno del Medio Evo oggi non meno di ieri. Però su Francois Villon, più volte menzionato e citato, c'era in un dato punto una frase che qualche anno dopo, quando riuscii a leggere le poesie, mi sembrò stranamente imprecisa: «Tutti conoscono Le Testament di Francois Villon, il grande poema satirico, nel quale egli lega tutto quel che possiede ai suoi amici e ai suoi nemici».
Definire il Testamento un poema satirico suona alquanto riduttivo. E poi tutto il succo dell'opera sta nel fatto che il povero Villon non possedeva un accidenti di nulla. I suoi lasciti, quasi tutti indirizzati a persone realissime, erano rigorosamente immaginari: un paio di brache usate, un ghiacciolo, un proverbio bruciante, una canzoncina. Ai ciechi di Parigi, cui era concesso tradizionalmente di questuare nella chiesa degli Innocenti (attigua all'omonimo cimitero prediletto dai ricchi), lascia i suoi «grandi occhiali» perché possano distinguere i galantuomini dai furfanti, distinzione che sarebbe loro impossibile quand'anche ci vedessero. E via di questo passo.
Uno dei suoi lasciti più grandiosi è il seguente: “E se qualcuno, a mia insaputa, / da morte a vita fosse passato, / libertà gli lascio assoluta, /a che il disposto sia osservato / e fino in fondo compiuto sia, / che altrove il lascito trasmetta, /senza intascarlo per bramosia: / alla coscienza sua mi rimetto”. Lo spirito beffardo di Villon non risparmiava niente e nessuno, ma si trasformava all'occasione nella più straziante nostalgia («Piango il tempo di mia giovinezza...»), in tenerezza improvvisa, nella pietà più alta («Fratelli umani, che ancor vivi siete, / non abbiate per noi gelido il cuore...»). Ma la grandezza autobiografica del Testamento sta nel fatto che il poema è, per così dire, una trasfigurazione verso il basso, anziché verso l'alto. Ecco forse perché egli può essere sbrigativamente chiamato satirico, tacendo del suo potente patetismo e della sua energia drammatica.
Quel tanto che si sa della vita di Villon si ricava dalla sua stessa opera, da certi documenti che riguardano alcuni fatti criminali in cui fu coinvolto (risse col morto e con ferimenti, un furto sacrilego di cinquecento o seicento scudi sottratti a una cassa ecclesiastica), dalle fonti d'archivio che forniscono notizie o congetture sulle persone chiamate in causa nel Testamento. Non è molto, ma neppure poco. E ci sono i colori, sgargianti o cupi, dell'epoca. La Francia e Parigi intorno al 1450.
Dopo la desolazione della guerra dei cent'anni, l'occupazione inglese, flagelli di ogni genere (epidemie, carestie, incursioni brigantesche) e conseguente spopolamento, verso gli anni Quaranta Parigi comincia a rinascere. Nel 1450 ha centomila abitanti e un suo piccolo cosmopolitismo, è diventata un grande mercato di consumi e un centro di traffici, soprattutto regionali; conta duecento tavernieri professionali e un centinaio di osti avventizi; è gonfia di «foresti» inurbati; ha tre o quattromila studenti dei corsi superiori e delle Facoltà di teologia, diritto, medicina; ha trentacinque parrocchie, venti monasteri, ringhiose corporazioni di mercanti e artigiani; gli intellettuali si disputano gli uffici reali, le funzioni amministrative, i benefici ecclestiastici.
Tra feste religiose e temporali, domeniche e particolari festività profane (c'è la festa dei Matti, quella dell'Asino, quella della Fava), il parigino lavora sì e no un duecento giorni l'anno, e ogni festa conduce dalla chiesa alla taverna. La morte è di casa. Il cimitero degli Innocenti è un luogo di riunioni e di convegni galanti; dal 1425 sui muri del chiostro spiccano gli affreschi della Danza Macabra: gli scheletri del re e del papa e dei cittadini di qualsiasi condizione ballano il rito satanico della fragilità umana.
Nei giorni di festa, la Danza Macabra, con sempre nuove aggiunte e variazioni, viene rappresentata ai cantoni delle strade. Le strofe di otto versi che commentano le figure scarnificate degli Innocenti sono tra le fonti «letterarie» di Villon. La forca e il patibolo fanno parte del paesaggio urbano. Ogni quartiere di Parigi ha il suo «palco». La giustizia del prevosto e i tribunali ecclesiastici hanno più anno meno, vi fanno salire una sessantina di persone. Vescovi e priori hanno le loro forche, come il re. I sergenti delle verghe, ossia gli sbirri, sono altrettanto importanti dei notai e dei canonici.

Mediocre canaglia
Questo è soltanto un sommario, incompleto, dei «toni crudi» di cui parlava Huizinga. E di cui ci parla oggi, con pregnante minuzia, un altro storico, Jean Favier, in un magnifico libro intitolato semplicemente François Villon (Fayard, pagg. 540, franchi 98). Direttore generale degli Archivi di Francia, professore alla Sorbonne, autore di varie opere sulla storia del Medioevo, Favier si muove assai agilmente nel mondo del XV secolo e dà l'impressione, almeno al lettore tutt'altro che specialista, di utilizzare al meglio i documenti, la bibliografia e l'opera stessa del poeta. È molto saggio e non s'azzarda in congetture spericolate, le sue ipotesi sono sempre ragionevoli e suffragate da una profonda conoscenza della vita del tempo.
Non credo, e del resto nessuno vi riuscirebbe, che Favier abbia rinnovato da cima a fondo la nostra visione di Villon; ma ha fatto di più. Con una serie di piccole correzioni ai giudizi correnti, ricostruendo con magistrale erudizione (resa assai gradevole dal tono discorsivo e da una scrittura nitida e corposa) la Parigi di Villon e la Francia nobile e borghese e malandrina percorsa presumibilmente dal poeta nei suoi anni di vagabondaggio, evocando insomma senza risparmio lo spessore dell'esistenza reale, gli ambienti, le istituzioni, le figure sociali, tutto ciò che deve o può aver toccato la sorte dello scrittore, Favier ci ha reso familiare e quasi palpabile un personaggio che appare insieme comune e fuori del comune.
Eccezionale, naturalmente, è il genio letterario di Villon; ciò ne fa un prezioso testimone, prezioso anche per lo storico. E Favier legge molto acutamente tra le pieghe dell'opera di Villon; legge, è ovvio, da storico, mai dimenticando però la letterarietà di quell'opera. Ciò che invece fa di Villon un uomo comune è proprio la sua condizione di povero diavolo, di «marginale». Per quanto sia indubitabile che a un certo punto la sua vita cominciò a scivolare verso la delinquenza professionale, ciò che intravediamo, dice Favier, è più vicino alla mediocrità che al crimine. È una vita di espedienti, più che di malefatte. Villon fu un mediocre scolaro, e probabilmente una mediocre canaglia; si dà l'aria del malvivente, vuol far credere di far parte della Coquille (una camorra che includeva ladri, borsaioli, taglieggiatori, bari, falsari di ogni genere e che aveva una gerarchia e un proprio gergo.
Ma la regina di Villon è l'immaginazione, è lei che lo conduce alle attraenti frontiere della disonestà; è lei che lo nutre amorosamente di paradossi. E' sempre lei che, specie dopo l'inutile «licenza», che è il grado minimo rilasciato dall'università, lo conduce verso le bisbocce, le compagnie avventurate, le letture facili o frammentarie, le seduzioni delle leggende e dei motti di spirito, la passione per i giochi di parole, gli adagi popolari, le parodie, le espressioni formulari. L'uomo che intorno ai trent'anni ha scritto il Testamento deve aver dedicato parecchie energie, se non altro, a sentire la lingua e a riflettere sulle sue meraviglie.

L'ultimo documento che si conosce di Villon è una sua poesia, Lode alla Corte, scritta evidentemente dopo esser stato graziato della pena diMorte: “Voi denti miei, scrollatevi e davanti / balzate tutti insieme e ringraziate, / d'organo, tromba e bronzo più sonanti, / di masticare pena non vi date, / già morto potrei essere, pensate, /voi tutti, milza fegato polmone / che respiri; e tu mio corpo peggiore / d'orso o di porco che sta nella melma...”. Villon che ringrazia fervidamente la Corte battendo i denti. Dobbiamo immaginare che abbia conclusa da pentito il suo esilio ai margini della vita?

Da un ritaglio de "la Repubblica",  senza data, probabilmente 1982

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