"Pendus". Incisione dalla prima edizione del "Testamento" di François Villon (1489)
Villon. “Sono François poeta malandrino”
Alfredo Giuliani
Mastro François des
Loges o de Montcorbier, parigino dei sobborghi, divenuto orfano di
padre fu allevato da un oscuro e onesto protettore ecclesiastico, il
cappellano Guillaume de Villon, del quale adottò il nome. Laureato,
o più precisamente «licenziato», nel 1452 (aveva ventun anni) alla
Facoltà delle Arti; scrivano, forse, saltuario e indocile; forse
aspirante deluso a un qualche «beneficio» (un posto ben remunerato
e di un certo rilievo intellettuale); vivace sottaniere e compagnone
di taverne; ladro occasionale, alleato (non proprio magnaccia) di
prostitute e sodale di malfattori. Girovago per disperazione, più
volte incarcerato, processato, graziato da una condanna a morte e
infine bandito da Parigi nel 1463, anno dopo il quale si perde di lui
ogni traccia; autore delle più straordinarie poesie dei Quattrocento
francese: Le Testament, Il contrasto del cuore e del corpo
di Villon, la Ballata degli impiccati. Quando sentiva
incombere la forca, scrisse questa quartina: “Io sono Francesco, il
che mi pesa, / nato a Parigi, presso Pontesa, / e dalla corda lunga
una tesa / saprà il mio collo quanto il culo pesa”. Francesco
nell'antico italiano significava anche «francese», proprio come il
francese François. A parte il nome italianato, ho citato la versione
di Emma Stojkovic Mazzariol, curatrice della più completa edizione
reperibile da noi (Villon, Opere, Mondadori, pagg. 606, lire
5.500, con ricco apparato di note e testo originale a fronte).
Questo è il personaggio
che non cessa di affascinare critici e biografi; ovviamente, è
grazie alla sua poesia che il «povero Villon» sopravvive in eterno,
esemplare dell'uomo rissoso e tormentato del tardo Medioevo. Uscito
dal liceo, uno dei primi libri che ebbi il naso di acquistare fu,
appunto, Autunno del Medio Evo di Huizinga; a tale deliziosa
rievocazione debbo un'incalcolabile quantità di insegnamenti e di
suggestioni. Proprio nel capitolo di apertura Huizinga osservava che
gli spogli d'archivio e le ricerche storiche sulla gente nominata o
ricordata da Villon nel suo Testamento, le annotazioni sui
borghesi di Parigi e sulla gente qualunque di quell'epoca, mettevano
in luce soprattutto processi, delitti, liti, persecuzioni,
ingiustizie.
Eredità
immaginaria
Da documenti
ecclesiastici, verbali di polizia, carte processuali e lettere di
«remissione» (condoni o grazie) la vita di tutti i giorni balza
fuori vivace e fosca. E questa impressione è confermata dai
documenti ordinari. Era una vita tempestosa o, come diceva Huizinga,
dai toni crudi. Amo Autunno del Medio Evo oggi non meno di
ieri. Però su Francois Villon, più volte menzionato e citato, c'era
in un dato punto una frase che qualche anno dopo, quando riuscii a
leggere le poesie, mi sembrò stranamente imprecisa: «Tutti
conoscono Le Testament di Francois Villon, il grande poema
satirico, nel quale egli lega tutto quel che possiede ai suoi amici e
ai suoi nemici».
Definire il Testamento
un poema satirico suona alquanto riduttivo. E poi tutto il succo
dell'opera sta nel fatto che il povero Villon non possedeva un
accidenti di nulla. I suoi lasciti, quasi tutti indirizzati a persone
realissime, erano rigorosamente immaginari: un paio di brache usate,
un ghiacciolo, un proverbio bruciante, una canzoncina. Ai ciechi di
Parigi, cui era concesso tradizionalmente di questuare nella chiesa
degli Innocenti (attigua all'omonimo cimitero prediletto dai ricchi),
lascia i suoi «grandi occhiali» perché possano distinguere i
galantuomini dai furfanti, distinzione che sarebbe loro impossibile
quand'anche ci vedessero. E via di questo passo.
Uno dei suoi lasciti più
grandiosi è il seguente: “E se qualcuno, a mia insaputa, / da
morte a vita fosse passato, / libertà gli lascio assoluta, /a che il
disposto sia osservato / e fino in fondo compiuto sia, / che altrove
il lascito trasmetta, /senza intascarlo per bramosia: / alla
coscienza sua mi rimetto”. Lo spirito beffardo di Villon non
risparmiava niente e nessuno, ma si trasformava all'occasione nella
più straziante nostalgia («Piango il tempo di mia giovinezza...»),
in tenerezza improvvisa, nella pietà più alta («Fratelli umani,
che ancor vivi siete, / non abbiate per noi gelido il cuore...»). Ma
la grandezza autobiografica del Testamento sta nel fatto che
il poema è, per così dire, una trasfigurazione verso il basso,
anziché verso l'alto. Ecco forse perché egli può essere
sbrigativamente chiamato satirico, tacendo del suo potente patetismo
e della sua energia drammatica.
Quel tanto che si sa
della vita di Villon si ricava dalla sua stessa opera, da certi
documenti che riguardano alcuni fatti criminali in cui fu coinvolto
(risse col morto e con ferimenti, un furto sacrilego di cinquecento o
seicento scudi sottratti a una cassa ecclesiastica), dalle fonti
d'archivio che forniscono notizie o congetture sulle persone chiamate
in causa nel Testamento. Non è molto, ma neppure poco. E ci sono i
colori, sgargianti o cupi, dell'epoca. La Francia e Parigi intorno al
1450.
Dopo la desolazione della
guerra dei cent'anni, l'occupazione inglese, flagelli di ogni genere
(epidemie, carestie, incursioni brigantesche) e conseguente
spopolamento, verso gli anni Quaranta Parigi comincia a rinascere.
Nel 1450 ha centomila abitanti e un suo piccolo cosmopolitismo, è
diventata un grande mercato di consumi e un centro di traffici,
soprattutto regionali; conta duecento tavernieri professionali e un
centinaio di osti avventizi; è gonfia di «foresti» inurbati; ha
tre o quattromila studenti dei corsi superiori e delle Facoltà di
teologia, diritto, medicina; ha trentacinque parrocchie, venti
monasteri, ringhiose corporazioni di mercanti e artigiani; gli
intellettuali si disputano gli uffici reali, le funzioni
amministrative, i benefici ecclestiastici.
Tra feste religiose e
temporali, domeniche e particolari festività profane (c'è la festa
dei Matti, quella dell'Asino, quella della Fava), il parigino lavora
sì e no un duecento giorni l'anno, e ogni festa conduce dalla chiesa
alla taverna. La morte è di casa. Il cimitero degli Innocenti è un
luogo di riunioni e di convegni galanti; dal 1425 sui muri del
chiostro spiccano gli affreschi della Danza Macabra: gli scheletri
del re e del papa e dei cittadini di qualsiasi condizione ballano il
rito satanico della fragilità umana.
Nei giorni di festa, la
Danza Macabra, con sempre nuove aggiunte e variazioni, viene
rappresentata ai cantoni delle strade. Le strofe di otto versi che
commentano le figure scarnificate degli Innocenti sono tra le fonti
«letterarie» di Villon. La forca e il patibolo fanno parte del
paesaggio urbano. Ogni quartiere di Parigi ha il suo «palco». La
giustizia del prevosto e i tribunali ecclesiastici hanno più anno
meno, vi fanno salire una sessantina di persone. Vescovi e priori
hanno le loro forche, come il re. I sergenti delle verghe, ossia gli
sbirri, sono altrettanto importanti dei notai e dei canonici.
Mediocre canaglia
Questo è soltanto un
sommario, incompleto, dei «toni crudi» di cui parlava Huizinga. E
di cui ci parla oggi, con pregnante minuzia, un altro storico, Jean
Favier, in un magnifico libro intitolato semplicemente François
Villon (Fayard, pagg. 540, franchi 98). Direttore generale degli
Archivi di Francia, professore alla Sorbonne, autore di varie opere
sulla storia del Medioevo, Favier si muove assai agilmente nel mondo
del XV secolo e dà l'impressione, almeno al lettore tutt'altro che
specialista, di utilizzare al meglio i documenti, la bibliografia e
l'opera stessa del poeta. È molto saggio e non s'azzarda in
congetture spericolate, le sue ipotesi sono sempre ragionevoli e
suffragate da una profonda conoscenza della vita del tempo.
Non credo, e del resto
nessuno vi riuscirebbe, che Favier abbia rinnovato da cima a fondo la
nostra visione di Villon; ma ha fatto di più. Con una serie di
piccole correzioni ai giudizi correnti, ricostruendo con magistrale
erudizione (resa assai gradevole dal tono discorsivo e da una
scrittura nitida e corposa) la Parigi di Villon e la Francia nobile e
borghese e malandrina percorsa presumibilmente dal poeta nei suoi
anni di vagabondaggio, evocando insomma senza risparmio lo spessore
dell'esistenza reale, gli ambienti, le istituzioni, le figure
sociali, tutto ciò che deve o può aver toccato la sorte dello
scrittore, Favier ci ha reso familiare e quasi palpabile un
personaggio che appare insieme comune e fuori del comune.
Eccezionale,
naturalmente, è il genio letterario di Villon; ciò ne fa un
prezioso testimone, prezioso anche per lo storico. E Favier legge
molto acutamente tra le pieghe dell'opera di Villon; legge, è ovvio,
da storico, mai dimenticando però la letterarietà di quell'opera.
Ciò che invece fa di Villon un uomo comune è proprio la sua
condizione di povero diavolo, di «marginale». Per quanto sia
indubitabile che a un certo punto la sua vita cominciò a scivolare
verso la delinquenza professionale, ciò che intravediamo, dice
Favier, è più vicino alla mediocrità che al crimine. È una vita
di espedienti, più che di malefatte. Villon fu un mediocre scolaro,
e probabilmente una mediocre canaglia; si dà l'aria del malvivente,
vuol far credere di far parte della Coquille (una camorra che
includeva ladri, borsaioli, taglieggiatori, bari, falsari di ogni
genere e che aveva una gerarchia e un proprio gergo.
Ma la regina di Villon è
l'immaginazione, è lei che lo conduce alle attraenti frontiere della
disonestà; è lei che lo nutre amorosamente di paradossi. E' sempre
lei che, specie dopo l'inutile «licenza», che è il grado minimo
rilasciato dall'università, lo conduce verso le bisbocce, le
compagnie avventurate, le letture facili o frammentarie, le seduzioni
delle leggende e dei motti di spirito, la passione per i giochi di
parole, gli adagi popolari, le parodie, le espressioni formulari.
L'uomo che intorno ai trent'anni ha scritto il Testamento deve
aver dedicato parecchie energie, se non altro, a sentire la lingua e
a riflettere sulle sue meraviglie.
L'ultimo documento che si
conosce di Villon è una sua poesia, Lode alla Corte, scritta
evidentemente dopo esser stato graziato della pena diMorte: “Voi
denti miei, scrollatevi e davanti / balzate tutti insieme e
ringraziate, / d'organo, tromba e bronzo più sonanti, / di masticare
pena non vi date, / già morto potrei essere, pensate, /voi tutti,
milza fegato polmone / che respiri; e tu mio corpo peggiore / d'orso
o di porco che sta nella melma...”. Villon che ringrazia
fervidamente la Corte battendo i denti. Dobbiamo immaginare che abbia
conclusa da pentito il suo
esilio ai margini della vita?
Da un ritaglio de "la Repubblica", senza data, probabilmente 1982
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