Antonino Uccello con Danilo Dolci. Foto di Giuseppe Leone
Nell'archivio di questo blog potete trovare tanti documenti (alcuni persino inediti) relativi alla vita e all'opera del compianto Antonino Uccello. Oggi mi piace riproporre un recente articolo pubblicato sulla rivista "Dialoghi Mediterranei".
Il giorno che Marlene Dietrich visitò la
Casa Museo
di Luigi Lombardo *
Ancora una volta ero alla Casa Museo, anziché pensare alla
mia tesi di laurea in Letteratura Greca su Eubulo di Atene e la Commedia di
Mezzo, ero là a dare una mano ad Antonino Uccello, data la palese ostilità
delle autorità comunali e regionali, che non solo non avevano capito il senso
di quel Museo, ma addirittura lo osteggiavano palesemente. Era, credo, il 1974,
autunno inoltrato, che tirava quella tramontana secca che dalle nostre parti si
chiama ancora Muncipiddaru, perché proveniva dal monte Etna. Era circa
l’una, e Antonino mi invitò a restare a “prendere un morso”, poiché già Anna,
la signora Anna, aveva portato a tavola una fumante minestra di fave,
borraggini e pancetta di maiale, che aveva istillato in tutti non l’appetito,
ma la fame, quella di una volta, vorace e benefica.
Quando suonò il campanello, e io, tra me e me, pensai
«Eccolo l’ospite inatteso!», che era facile che si presentasse all’ultimo
momento, come spesso accadeva a Casa Uccello. Anna si affrettò a vedere chi
era, affacciandosi dal solito balcone che dava sull’ingresso del Museo: «Ci
sono visitatori», fece, tra il fastidio e il compiacimento, guardando il marito
come a dire «Veditela tu!». «Luigi, che ci vai tu? » «Va be’, che ci vuole,
sarà una visita rapida». «E no! (l’intercalare classico) vedi un po’ di fare
bene perché le persone meritano rispetto. Se no ci vado io!»
E scesi. Vidi due persone, un uomo e una donna, vestiti di
scuro, la donna con un cappellino e veletta, e un cappotto di astracan
rigorosamente nero, che sembrava uscita dalle pagine di Grand Hotel, lui
il classico chaffeur (credo fosse tale). Li accompagnai e vedevo che la donna
annuiva alla traduzione che faceva il suo accompagnatore in inglese; era molto
interessata, e davanti ai pupi sorrise e chiese al suo accompagnatore di
indicarle Orlando. Lo feci io, raccontando la storia del puparo catanese che
sbottò contro il pubblico che lo dileggiava con la classica «Va rati u culu a
valata» («date il sedere alla pietra della vergogna»), spiegando di che si
trattava.
Ella rise e disse al suo amico, “Wonderful” e altre parole
che non capii. Ma fu nella Casa ri stari che la vidi restare a occhi
sgranati mentre io muovevo la naca a bbuolu (la culla), ripetendo gesti
per me uguali, ma che per lei avevano probabilmente tanti altri significati.
Finimmo e li invitai a firmare. La signora firmò e scrisse «Wonderful, Marlene
Dietrich».
Sarà l’attrice? pensai e mi rivolsi all’accompagnatore, il
quale confermò. La conoscevo per averla vista in un film, ma non è che la cosa
mi interessasse più di tanto, non facendo parte del mio immaginario o del mio
mondo culturale. Certo, l’accompagnai con più sussiego alla porta; e lei salutò
con un grande sorriso che sapeva di altri tempi, che non avevo conosciuto, ma
il mio pensiero volava a quel trancio di pancetta di maiale che ancora fumava
nella pentola.
Finito il pranzo Antonino mi chiese, chi fossero i
visitatori e da dove venissero. «Credo fossero dei tedeschi, una si è firmata
Marlene Dietrich!», e lo dissi con un misto di soddisfazione e di timore. E qui
Uccello scattò dalla sedia, come soleva fare quando si incazzava di brutto e
corse giù per controllare il registro delle firme, ritornando paonazzo:
«Bestia, mi fece, era Lei, la mia attrice preferita quella della mia gioventù».
E corse in macchina, che non sapeva guidare. «Andiamo a cercarla!».
La cercammo, al Teatro Greco, ai Santoni, in trattoria,
niente era ripartita per Noto, come ci disse il ristoratore dove i due avevano
rapidamente mangiato. E così sfumò per il professore l’occasione di conoscere
un suo idolo, e per me la possibilità oggi di esibire un autografo della diva
(cosa che per la verità era mille miglia lontano dalla mia cultura di “giovane
proletario di sinistra”, che allora mi compiaceva, ma che oggi non so che
diamine significasse).
Certo, la Casa Museo in quel momento per me, e per altri
ragazzi che la frequentavano, era il mondo, anzi il centro del mondo. Io ero
convinto che non bisognasse abbandonare quei luoghi, quelle persone, quella
terra che ci aveva generato, nonostante avvertissi l’insufficienza degli
strumenti formativi che quell’ambiente mi offriva. Sognavo la ricerca
archeologica sulla scia di Ranuccio Bianchi Bandinelli, o l’antiquaria sulle
scie del mio maestro Giacomo Manganaro, che mi istillò l’amore per Rostovzev e
il tardo antico, ma poi la frequentazione di Antonino Uccello mi portò verso la
ricerca demologica, che praticai con strumenti critici forgiati dalla
formazione umanistica e letteraria.
Un giorno che era venuto Luigi Lombardi Satriani, Antonino
mi propose di andare a Napoli a fare da assistente (volontario) al grande
Luigi, per me un mito e un modello. Dovevo decidermi, ma ancora una volta le
pietre mi richiamarono, e decisi di rimanere attaccato allo scoglio come un
mitile, sempre più innamorato della mia terra, sempre più convinto che la
Rivoluzione (culturale) fosse a portata di mano. Iniziarono le battaglie per la
difesa del centro storico di Palazzolo, delle sue peculiarità urbanistiche,
della sua realtà di spazio urbano peculiare segnato da epoche artistiche e
architettoniche che lo hanno forgiato: la cultura greco-romana, il medioevo dei
signori Alagona, ma soprattutto l’età moderna, che ha visto succedersi
un’intelligente classe politica borghese, artefice di quel gioiello che è oggi
Palazzolo, città patrimonio dell’Unesco.
La battaglia per il centro storico fu estenuante, difficile,
logorante politicamente: ci siamo fatti tanti nemici, e politicamente siamo
rimasti “quattro gatti”, emarginati e irrisi dai “potenti” delle federazioni
provinciali e regionali del partito (allora PCI), dai signori del voto, dai
satrapi della sinistra operaista e settaria. Ma in parte è stata vinta, se è
vero che siamo arrivati, negli anni successivi, ad approvare (ero consigliere
comunale nel 94-98) il piano particolareggiato di recupero del centro
storico, unici forse in Sicilia. Così un piccolo paese, oggi tra i borghi più
belli d’Italia, è stato al centro di un interesse diffuso da parte di artisti,
intellettuali, raffinati politici, che transitavano per Palazzolo per
incontrare Uccello e la sua Casa, che dal 1971 era un Museo. Tutto girava
attorno a quel palazzo, a quel quartiere (Mandrazze-Lenza-Orologio), oggi quasi
irriconoscibile.
Se ritorno alla Casa Museo (e ci vado spesso) mi soffermo
nei vari ambienti e a volte mi capita di visualizzare ricordi di 40 anni prima:
la grande sala da pranzo col tavolo rotondo dove rivedo Tono Zancanaro e la sua
risata gracchiante, o Renato Guttuso col suo sorriso beffardo e tutto
palermitano, al quale invano cercai di strappare un ricordo grafico,
sottoponendogli un foglio da schizzare e firmare; la casa i massaria dove
una sera cenammo con Domenico Rea, che ci raccontò storie inverosimili della
sua Napoli di Gesù fate luce; o il gabbiano Dory Bignotti che spesso
sedeva sulle gambine fragili di Antonino, lei alta ma estremamente leggera, lui
piccolo ma resistente e compiaciuto.
Rivedo quegli ambienti pieni di vita e di passione, e li
paragono all’oggi, freddo e incolore. Ma poi mi convinco che oggi quel luogo è
un museo, mentre prima era una Casa, quella casa che avevo perso quando, nel
1968, i miei decisero di abbattere per costruirne una alla moda, linda e
pulita, ma senza anima, dalla quale sparì per primo il forno e poi il braciere
(a conca), sostituiti dal forno elettrico e da stufette a cherosene, che
a volte sembrava di essere alla Sincat di Priolo. Non era come prima. Ma alla
Casa Museo, alla Casa Uccello, era un’altra cosa. Era la casa della mia
infanzia, pur se si trattava di palazzo nobiliare (della nobile famiglia De
Ferula), e la mia era una casa popolare con tre ambienti e tre magazzinelli tra
cui la putia di mio padre calzolaio.
Ecco, quella Casa di Uccello, che era anche Museo, era la
mia, la nostra Casa, quella di una piccola minoranza che l’aveva voluta,
assecondando la famiglia del professore che ne sopportava i disagi di vedere la
propria casa trasformata in museo. Insomma quel Museo era luogo di esposizioni
di collezioni etnografiche, ma insieme spazio dell’intrecciarsi di relazioni,
passioni, lotte, speranze di una generazione, quella mia e quella di pochi
altri, che sognava altro da quello che poi è venuto concretizzandosi.
Insomma quel museo potremmo definirlo un museo “caldo”,
partecipato, vivo. Per la verità ho sempre avuto dubbi circa la distinzione
fatta da illustri museografi tra musei caldi e musei freddi, poiché a mio
avviso, in qualche modo, ogni museo nasce “caldo”, è sempre il frutto
dell’azione di un autore, di un gruppo, di una comunità che lo vive e lo
vivacizza, lo anima e lo sente proprio, parte della storia della crescita umana
e culturale dei suoi fondatori. Salvo poi col tempo e col venir meno dei suoi
fondatori, la vita si fa routine, l’impegno si standardizza, la quotidianità
prende il sopravvento e quel museo diventa freddo, si burocratizza, e non può
che essere così. Io stesso me ne sono reso conto quando, dopo la morte di
Uccello, il Museo è passato alla Regione: tutto è cambiato. Ora vedo che c’è
chi vuole regionalizzare musei privati: a questi dico di rimanere nel privato,
di restare musei autoriali, fin quando è possibile, di affidare ad
associazioni, a gruppi, a cooperative giovanili i luoghi, poiché il passaggio
al pubblico implica molto spesso lo snaturamento di questi delicati musei.
Nell’ottobre del 1979 con flebile voce Antonino Uccello mi
chiedeva di battere a macchina le sue memorie, che sarebbero confluite nel
libro La Casa di Icaro, curato da Salvatore Nigro. Lo feci e ogni giorno
che passava vedevo che il professore non ce la faceva più e che il segno di
correzione diveniva sempre più tremolante. Un giorno gli gridai quasi: «Ah, se
non fosse per questo male!». E lui con voce cavernosa, ma decisa: «Tu non sei
un marxista, il marxista non conosce i “se”».
No professore, non ero un marxista, ma un sognatore, come lo
eri tu, altrimenti non ti saresti messo in un’avventura che ti ha logorato,
sempre in tensione nervosa, risentito contro il mondo intero, deluso,
sconfortato fino al punto di decidere di vendere tutto alla Regione siciliana,
laddove avrebbe desiderato tutt’altra soluzione. Nonostante tutto, io continuo
a sognare. Ho avanzato anche proposte per rivitalizzare la Casa Museo, quale
quella di acquisire l’intero immobile per esporre il resto delle collezioni,
oggi visibile in un confusionario giro che, se fa vedere oggetti, non li rende
comprensibili, in quanto privi di contestualizzazione ambientale e scientifica.
Continuo ad andare alle manifestazioni promosse dai vari
responsabili che nel tempo si sono succeduti (e sono stati tanti): architetti,
archeologi, funzionari generici, pochi etnoantropologi. Quella che è mancata, e
lo dico senza spirito polemico, è stata una gestione più spregiudicata,
rischiosa certo, ma l’unica, fondata sulla collaborazione di quanti quel museo
avevano messo su come collaboratori di Uccello, istituzionalizzandone la
partecipazione e il ruolo all’interno di una Fondazione-Casa Museo, un po’ come
è avvenuto per l’INDA a Siracusa. In questo modo si sarebbe avuta una struttura
meno burocratica e fondata sulla partecipazione. Ma questo è un discorso da
Giovanni che predica nel deserto, vox clamans in deserto.
Non so perché sono finito in questo noioso discorso, quando
invece volevo raccontare la Casa Museo vista da uno che c’è stato, un testimone
vivente, consapevole che i luoghi sono la nostra storia, la materializzazione
dei nostri sogni, che non esistono cose oggetti luoghi senza una memoria, un
sogno che li sostiene, senza un discorso, una narrazione che li renda vissuti,
vivi, di volta in volta “riscaldandoli”, per riaccenderli tante volte quante
sono i sogni messi in campo.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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*Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca
comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della
Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita
della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse
mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella
etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari
dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono
orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee
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