27 marzo 2018

L’ALIMENTAZIONE DEGLI ZOLFATARI AI TEMPI DEL GIOVANE SCIASCIA




Cettina Vivirito riesce in poche righe a far conoscere Leonardo Sciascia meglio di tanti critici accademici. Mi piace particolarmente la sua capacità di rileggere pagine, apparentemente secondarie, che rivelano aspetti non secondari della sua opera.(fv)

Sciascia: dal “Pane e coltello”, alle “sarde allo zolfo”

Cettina Vivirito

Conoscere la “cucina” dei nostri scrittori siciliani vuol dire fare un viaggio dentro la storia, la vera storia delle nostre tradizioni, della nostra cultura, e, nel caso di Sciascia, dell’antropologia di luoghi della Sicilia interna quale è quella del paese dove nacque e fu maestro elementare, ovvero Racalmuto. Nelle “Parrocchie di Regalpetra”, Sciascia riporta una frase molto significativa degli zolfatari: “mangiamo pane e coltello”, dicevano, come dire che mangiavano solo pane, al massimo l’accompagnavano con l’acciuga salata o con un pomodoro. La nota che quindi lo scrittore mette in evidenza è quella dell’indigenza, attraverso la ripresa di un modo di dire diffuso nel linguaggio popolare, per indicare la scarsità di cibo, la necessità di accontentarsi di un alimento così di base, senza companatico, che affliggevano il paese siciliano negli anni della sua infanzia e adolescenza. Pane e coltello, pane asciutto, pane solo. Gli zolfatari peraltro qualche volta potevano concedersi un pasto più ricco, e Sciascia ce lo racconta: “tutti gli zolfatari amavano il vino e il gioco d’azzardo; e il mangiar piccante – il castrato coperto di pepe e arrostito sulla brace, il pecorino pepato, il caciocavallo stagionato e duro di scorza: cibi, insomma, che chiamavano vino”; peggio se la passavano, invece, i bambini, figli di salinari e di contadini, della scuola in cui il maestro Sciascia insegna nei primi anni ’50: la loro prima colazione consiste in pane scuro che addentano con furia, una “sarda iridata di sale e squame che mordono appena”; la refezione, che aspettano con ansia e verso cui si precipitano avidi, che emana “un grasso sentore di risciacquatura, carne andata a male e pasta cotta come colla” e prevedeva “fagioli brodosi con rari occhi di margarina, la scaglia del corned beef, il listello di marmellata che involtano nel foglio degli esercizi e poi vanno leccando per strada, marmellata e inchiostro”. Terribile poi l’immagine del ragazzino che, allupato com’è di fame, non appena finisce la sua scodella di minestra, si avventa “ad aiutare gli altri”: sicché le donne di casa, per evitare una simile prevaricazione, trovano il rimedio di mettergli nel piatto una manciata di bottoni, che lo costringono a fermarsi a sputarli e quindi ne rallentano il ritmo. Nelle Parrocchie di Regalpetra i riferimenti al cibo sono prevalentemente declinati nella dimensione della mancanza: gli alunni della scuola elementare sono divorati dalla fame che non lascia spazio alle parole del maestro, consapevole della loro inutilità in un simile mondo offeso; per fame gli zolfatari regalpetresi vanno a morire per il fascismo in Spagna, negli anni della guerra civile. Così nell’aneddoto (presumibilmente inventato) che circola in paese, intorno al gatto del segretario politico che si sarebbe presentato con un pezzo di baccalà rubato in bocca, a testimonianza delle derrate alimentari nascoste dal suo privilegiato padrone, lo scrittore sottolinea la malizia di un’invenzione, a screditare il politico fascista, fondata su un cibo allora introvabile; così infatti riporta: “Furono intelligenti gli italiani, in quegli anni. Ebbero fantasia. Aver pensato al baccalà, che era la più introvabile cosa, pareva persino incredibile che ancora ce ne fosse al mondo: e per gli zolfatari, che prima ne mangiavano spesso, e chiamava allegro vino, era come un sogno, un favoloso desiderio”. Solo occasioni molto particolari consentono ai regalpetresi l’approdo ad alimenti ‘superiori’: l’uovo rubato dai bambini, la cubaita, quel torrone durissimo e coperto di mosche venduto sulle bancarelle il giorno della festa del paese, il riso con il brodo e il cappone al pranzo di Natale. Se, nelle pagine delle Parrocchie di Regalpetra, il cibo si configura, in ultima analisi, come una sorta di indicatore primario di una condizione sociale disagiata, nella produzione sciasciana successiva è evocato in un’ampia gamma di occorrenze, iscrivendosi in aree di significato diversificate, ma sempre forti di senso e significato: nel Consiglio d’Egitto, il giovane avvocato Di Blasi, uno dei protagonisti del romanzo storico del 1963, è stato imprigionato con l’accusa di aver ordito, nella Palermo del tardo Settecento, una congiura giacobina ed è stato sottoposto a tortura; dopo i terribili patimenti cui è stato assoggettato, senza cedere, in preda alla febbre e a una sete disperata, è colto dai ricordi delle cose per lui più desiderabili: “Il fatto è che stai amando ora la vita come mai l’hai amata, come mai hai saputo amarla. Ora sai che cos’è l’acqua, la neve, il limone, ogni frutto, ogni foglia: come se tu ci fossi dentro, come se tu fossi la loro essenza”. Erano le cose del suo desiderio, della sua febbre: le ciliegie che cominciavano ora a rosseggiare tra il verde intenso del fogliame, le arance che ormai si facevano rare e avevano più dolce e forte sapore, come di passito; e i limoni, i limoni e la neve: i bicchieri appannati di gelo, l’acuto profumo… Nella sfera della ricerca del tempo perduto si iscrive anche la dettagliata descrizione di un pranzo in casa dello zio che ospitava il giovane Giuseppe Antonio appunto a Palermo; si tratta di un pranzo particolarmente ricco, perché occasionato dal compleanno del medesimo zio, «pasta al burro, galletti abbraciati con guarnimento di patate, uova fritte, insalata, albicocche, nespole e domestici, e finalmente la cassata. Non c’è male, eh?» commenta il giovane, a conclusione della lettera in cui ne scrive a casa. Sciascia a sua volta chiosa il menù, che gli sembra richiedere qualche spiegazione, innanzitutto a giustificare quella «pasta al burro», che potrebbe sembrare povera cosa, se raffrontata alla «varietà e ricchezza di condimenti che la cucina siciliana devolve alla pasta»: il burro, fino agli anni della sua infanzia, forse per la preziosità attribuitagli dal prezzo, era considerato «cosa di sapore ineffabile e per sopraffini palati»; anche la presenza delle uova fritte, immancabili in pranzi di una qualche solennità, attiva una immersione nel ricordo, tanto personale quanto collettivo: l’uovo infatti, precisa lo scrittore, era inserito “come un di più”, come un qualcosa che servisse a sottolineare l’abbondanza, addirittura lo spreco con cui il pranzo era stato preparato. Si tratta di attestazioni che riguardano direttamente la sua esperienza e lo rivelano raffinato conoscitore in campo gastronomico, vero e proprio grand gourmet, come lo definisce Salvatore Vullo: numerose in merito le testimonianze degli amici, che lo ricordano ottimo cuoco in proprio, come nel caso di Giannola Nonino che, parlando dei soggiorni della famiglia Sciascia a Percoto, lo rammenta magistrale artefice di paste alle sarde o agli sgombri, di caponate che non esita a definire “mitiche”. Vere chicche, in questo ambito, sono alcuni brevi interventi comparsi prevalentemente negli anni Sessanta su un almanacco curato da Mario dell’Arco: L’Apollo buongustaio, una miscellanea di scritti di diversi autori su temi di carattere gastronomico: questi brevi contributi sono stati di recente riproposti in un volumetto delle Edizioni Henry Beyle, Sarde e altre cose allo zolfo, in cui si può leggere: “Ancora forse, in qualcuna delle poche zolfare rimaste in attività, lo zolfo viene depurato nei forni o calcheroni: che sono in tutto simili alle fornaci per i mattoni e le tegole, ma con in fondo un condotto in cui lo zolfo fuso, che ha il colore e la densità dell’olio, scende nelle cosiddette gavite, in cui poi lentamente si rapprende nella forma di una tronca piramide quadrangolare. Mentre ancora lo zolfo è liquido e ardente nella «gavita», gli zolfatari usano (o usavano) cuocere certi loro cibi: e particolarmente le sarde.


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