Cettina Vivirito riesce in poche righe a
far conoscere Leonardo Sciascia meglio di tanti critici accademici. Mi piace particolarmente la sua capacità di rileggere pagine, apparentemente secondarie, che
rivelano aspetti non secondari della sua opera.(fv)
Sciascia: dal “Pane e coltello”, alle “sarde allo zolfo”
Cettina Vivirito
Conoscere la “cucina” dei nostri scrittori siciliani
vuol dire fare un viaggio dentro la storia, la vera storia delle nostre
tradizioni, della nostra cultura, e, nel caso di Sciascia, dell’antropologia di
luoghi della Sicilia interna quale è quella del paese dove nacque e fu maestro
elementare, ovvero Racalmuto. Nelle “Parrocchie di Regalpetra”, Sciascia
riporta una frase molto significativa degli zolfatari: “mangiamo pane e
coltello”, dicevano, come dire che mangiavano solo pane, al massimo
l’accompagnavano con l’acciuga salata o con un pomodoro. La nota che quindi lo
scrittore mette in evidenza è quella dell’indigenza, attraverso la ripresa di
un modo di dire diffuso nel linguaggio popolare, per indicare la scarsità di
cibo, la necessità di accontentarsi di un alimento così di base, senza
companatico, che affliggevano il paese siciliano negli anni della sua infanzia
e adolescenza. Pane e coltello, pane asciutto, pane solo. Gli zolfatari
peraltro qualche volta potevano concedersi un pasto più ricco, e Sciascia ce lo
racconta: “tutti gli zolfatari amavano il vino e il gioco d’azzardo; e il
mangiar piccante – il castrato coperto di pepe e arrostito sulla
brace, il pecorino pepato,
il caciocavallo
stagionato e duro di scorza: cibi, insomma, che
chiamavano vino”; peggio se la passavano, invece, i bambini, figli di salinari
e di contadini, della scuola in cui il maestro Sciascia insegna nei primi anni
’50: la loro prima colazione consiste in pane scuro che addentano con furia,
una “sarda iridata di sale e squame che mordono appena”; la refezione, che
aspettano con ansia e verso cui si precipitano avidi, che emana “un grasso
sentore di risciacquatura, carne andata a male e pasta cotta come colla” e prevedeva
“fagioli brodosi con rari occhi di margarina, la scaglia del corned beef, il
listello di marmellata che involtano nel foglio degli esercizi e poi vanno
leccando per strada, marmellata e inchiostro”. Terribile poi l’immagine del
ragazzino che, allupato com’è di fame, non appena finisce la sua scodella di
minestra, si avventa “ad aiutare gli altri”: sicché le donne di casa, per
evitare una simile prevaricazione, trovano il rimedio di mettergli nel piatto
una manciata di bottoni, che lo costringono a fermarsi a sputarli e quindi ne
rallentano il ritmo. Nelle Parrocchie di Regalpetra i riferimenti al cibo sono
prevalentemente declinati nella dimensione della mancanza: gli alunni della
scuola elementare sono divorati dalla fame che non lascia spazio alle parole
del maestro, consapevole della loro inutilità in un simile mondo offeso; per
fame gli zolfatari regalpetresi vanno a morire per il fascismo in Spagna, negli
anni della guerra civile. Così nell’aneddoto (presumibilmente inventato) che
circola in paese, intorno al gatto del segretario politico che si sarebbe
presentato con un pezzo di baccalà rubato in bocca, a testimonianza delle
derrate alimentari nascoste dal suo privilegiato padrone, lo scrittore
sottolinea la malizia di un’invenzione, a screditare il politico fascista,
fondata su un cibo allora introvabile; così infatti riporta: “Furono
intelligenti gli italiani, in quegli anni. Ebbero fantasia. Aver pensato al
baccalà, che era la più introvabile cosa, pareva persino incredibile che ancora
ce ne fosse al mondo: e per gli zolfatari, che prima ne mangiavano spesso, e
chiamava allegro vino, era come un sogno, un favoloso desiderio”. Solo
occasioni molto particolari consentono ai regalpetresi l’approdo ad alimenti
‘superiori’: l’uovo rubato dai bambini, la cubaita, quel torrone durissimo e
coperto di mosche venduto sulle bancarelle il giorno della festa del paese, il
riso con il brodo e il cappone al pranzo di Natale. Se, nelle pagine delle
Parrocchie di Regalpetra, il cibo si configura, in ultima analisi, come una
sorta di indicatore primario di una condizione sociale disagiata, nella
produzione sciasciana successiva è evocato in un’ampia gamma di occorrenze,
iscrivendosi in aree di significato diversificate, ma sempre forti di senso e
significato: nel Consiglio
d’Egitto, il giovane avvocato Di Blasi, uno dei
protagonisti del romanzo storico del 1963, è stato imprigionato con l’accusa di
aver ordito, nella Palermo del tardo Settecento, una congiura giacobina ed è
stato sottoposto a tortura; dopo i terribili patimenti cui è stato
assoggettato, senza cedere, in preda alla febbre e a una sete disperata, è
colto dai ricordi delle cose per lui più desiderabili: “Il fatto è che stai
amando ora la vita come mai l’hai amata, come mai hai saputo amarla. Ora sai
che cos’è l’acqua, la neve, il limone, ogni frutto, ogni foglia: come se tu ci
fossi dentro, come se tu fossi la loro essenza”. Erano le cose del suo
desiderio, della sua febbre: le ciliegie che cominciavano ora a rosseggiare
tra il verde intenso del fogliame, le arance che ormai si facevano rare e
avevano più dolce e forte sapore, come di passito; e i limoni, i limoni e la
neve: i bicchieri appannati di gelo, l’acuto profumo…
Nella sfera della ricerca del tempo perduto si iscrive anche la dettagliata
descrizione di un pranzo in casa dello zio che ospitava il giovane Giuseppe
Antonio appunto a Palermo; si tratta di
un pranzo particolarmente ricco, perché occasionato dal compleanno del medesimo
zio, «pasta
al burro, galletti abbraciati con guarnimento di patate,
uova fritte, insalata, albicocche, nespole e domestici, e finalmente la
cassata. Non c’è male, eh?» commenta il giovane,
a conclusione della lettera in cui ne scrive a casa. Sciascia a sua volta
chiosa il menù, che gli sembra richiedere qualche spiegazione, innanzitutto a
giustificare quella «pasta al burro», che potrebbe sembrare povera cosa, se
raffrontata alla «varietà e ricchezza di condimenti che la cucina siciliana
devolve alla pasta»: il burro, fino agli anni
della sua infanzia, forse per la preziosità attribuitagli dal prezzo, era
considerato «cosa di sapore ineffabile e per sopraffini palati»; anche la
presenza delle uova fritte, immancabili in pranzi di una qualche solennità,
attiva una immersione nel ricordo, tanto personale quanto collettivo: l’uovo
infatti, precisa lo scrittore, era inserito “come un di più”, come un qualcosa
che servisse a sottolineare l’abbondanza, addirittura lo spreco con cui il
pranzo era stato preparato. Si tratta di attestazioni che riguardano direttamente
la sua esperienza e lo rivelano raffinato conoscitore in campo gastronomico,
vero e proprio grand gourmet, come lo definisce Salvatore Vullo: numerose in
merito le testimonianze degli amici, che lo ricordano ottimo cuoco in proprio,
come nel caso di Giannola
Nonino che, parlando dei soggiorni della
famiglia Sciascia a Percoto, lo rammenta
magistrale artefice di paste alle sarde o agli sgombri, di caponate che non
esita a definire “mitiche”. Vere chicche, in questo ambito, sono alcuni brevi
interventi comparsi prevalentemente negli anni Sessanta su un almanacco curato
da Mario
dell’Arco: L’Apollo buongustaio,
una miscellanea di scritti di diversi autori su temi di carattere gastronomico:
questi brevi contributi sono stati di recente riproposti in un volumetto delle
Edizioni Henry Beyle, Sarde e altre cose allo zolfo,
in cui si può leggere: “Ancora forse, in qualcuna delle poche zolfare rimaste
in attività, lo zolfo viene depurato nei forni o calcheroni: che sono in tutto
simili alle fornaci per i mattoni e le tegole, ma con in fondo un condotto in
cui lo zolfo fuso, che ha il colore e la densità dell’olio, scende nelle
cosiddette gavite, in cui poi lentamente si rapprende nella forma di una tronca
piramide quadrangolare. Mentre ancora lo zolfo è liquido e ardente nella
«gavita», gli zolfatari usano (o usavano) cuocere certi loro cibi: e
particolarmente le sarde.
Cettina
Vivirito, 26 febbraio
2018 in http://siciliainformazioni.com/cettina-vivirito/772298/sciascia-dal-pane-e-coltello-alle-sarde-allo-zolfo
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