31 marzo 2018

LE METAMORFOSI TRA MITO E REALTA'


Vieste, spiaggia e faraglione di Pizzomunno

Quello delle metamorfosi è un tema centrale nella mitologia classica. Spesso (come in Ovidio) incentrato sulla mutazione dei corpi, talvolta (come nell'opera di un autore quasi sconosciuto del II secolo) descrivono un passaggio di stato e il divenire fondamento della vita. Insomma, una metafora modernissima della condizione umana.

Maria Jennifer Falcone

La metamorfosi come passaggio di stato/identità

C’è un faraglione, nei pressi di Vieste, che porta il nome di Pizzomunno. La sua storia, ora musicata da Max Gazzè, narra l’amore tra l’omonimo pescatore e la bellissima Cristalda. La loro passione è invidiata dalle Sirene che, rifiutate dal giovane, trascinano la ragazza in fondo al mare e trasformano il suo amato in quel monolite calcareo che si staglia di fronte alla costa del Gargano. I due possono incontrarsi per una sola notte ogni cento anni, e così il loro amore, come la pietra, resiste al tempo e vince la morte.

Trasformazione, poesia, amore, punizione, eziologia: sono molti gli ingredienti che rendono la raffinata ballata del cantautore romano un tassello moderno di quell’«infinito racconto delle metamorfosi» che affonda le sue radici nel mondo greco-romano.

Se l’opera antica più nota è senza dubbio il poema di Ovidio, un contenitore importante di racconti di trasformazione è costituito dalla raccolta di Antonino Liberale, Metamorphóseon Synagogé, ora proposta in traduzione italiana, con introduzione e note di commento, da Adelphi (Le metamorfosi, «Piccola Biblioteca», a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì).

Dell’autore non si sa quasi nulla: il suo nome e alcune caratteristiche del greco in cui scrive lo lasciano collocare tra il II e il III secolo d.C., sotto gli Antonini o i Severi. Rocambolesca è la storia dell’unico manoscritto che riporta il testo, raccontata con chiarezza da Braccini nell’introduzione. Ora conservato presso la biblioteca universitaria di Heidelberg, il Palatinus graecus 398 faceva parte della cosiddetta Collezione filosofica del Palazzo imperiale di Costantinopoli, fatto copiare da Leone il Matematico nella seconda metà del IX secolo.
Il testo delle Metamorfosi è arricchito da didascalie e interventi eruditi stratificati, iniziati nella tarda antichità. Riscoperto nei primi decenni del Quattrocento da un religioso domenicano che lo portò in Occidente, fu prestato, rubato, donato, trasportato, e si trovò così di volta in volta a Basilea, Heidelberg, Roma, Parigi, passando tra le mani di filologi importanti, come il Frobenius e lo Xylander (che lo tradusse per la prima volta in latino), per poi tornare finalmente a Heidelberg solo nel 1816 dopo la caduta di Napoleone.

Le quarantuno storie di trasformazione sono narrate in una prosa piana ma con dovizia di dettagli (mitografici, geografici, culturali in senso lato) sempre opportunamente chiariti nelle note di commento, che – ricche e ben documentate – si rivelano un ottimo strumento per gli specialisti senza spaventare il lettore meno esperto.

Numerosi sono i racconti dedicati agli animali, in particolare agli uccelli. È il caso di Cicno: il giovane, che impone al suo pretendente Filio una serie di prove, si getta in un lago (da allora chiamato Cicneio) dopo che questi si rifiuta di obbedirgli; disperata, sua madre lo segue in acqua e i due vengono trasformati in uccelli lacustri. Oltre a informare che una storia simile è nota da Ovidio, il commento ricorre agli studi sulla fiaba e sui racconti di folklore (in particolare, alla classificazione di Aarne-Thompson) interpretando i compiti dati a Filio come suitor tasks, prove imposte ai pretendenti.

Diverse sono le storie riguardanti amori incestuosi, con interessanti note storico-antropologiche sul tema dell’incesto nel mondo antico. Come la vicenda dell’irrefrenabile passione di Biblide nei confronti di Cauno, suo fratello gemello: la ragazza viene trasformata in una ninfa Amadriade, mentre dalla roccia dalla quale era pronta a gettarsi scorre ancora un’acqua detta dai locali «Lacrime di Biblide». O come quella di Smirna, follemente innamorata di suo padre, del quale rimane incinta (il bellissimo figlio di questa colpa, Adone, farà innamorare la dea Afrodite) e si trasforma nell’albero della mirra: «si dice che quest’albero ogni anno faccia trasudare il suo frutto dal legno come se piangesse».

Ci sono poi storie di amori osteggiati, come quello di Eracle e Ila: del ragazzo si innamorano le ninfe, che lo rapiscono e lo trasformano in eco per ingannare Eracle e costringerlo così a interrompere le ricerche. E non mancano vicende legate a mutamenti di identità sessuale, come quella di Leucippo, nato femmina ma allevato dalla madre come maschio per esaudire il desiderio del padre di avere un figlio, e infine trasformato in ragazzo dalla dea Leto: Antonino inserisce nel racconto altri protagonisti di cambiamenti sessuali, come l’indovino Tiresia, passato da uomo a donna e poi di nuovo da donna a uomo.
    Ermete e Batto

Proprio come per il Pizzomunno in Puglia, anche nel mondo antico le metamorfosi spesso sono legate a scogli e sassi: come quella di Batto, punito da Ermes per aver rivelato un suo segreto e per questo trasformato in pietra, le cosiddette «Vedette di Batto».

Se il fascino e l’attualità tematica di certi racconti di trasformazione narrati da Antonino ne dimostrano la vicinanza alla nostra cultura, nell’interessantissima prima sezione dell’introduzione Macrì mette in guardia dal rischio di sovrapposizione, ponendo l’attenzione sulla lingua e ricorrendo a un approccio antropologico. Mentre, infatti, l’italiano, parlando di ‘metamorfosi’ e ‘trasformazione’, fa riferimento anzitutto al mutamento del sembiante, ovvero della ‘forma’ (morphé, in greco), nella raccolta di Antonino Liberale il verbo metamorphóo compare solo due volte e il tema dell’aspetto sembra essere eluso. Piuttosto, viene sottolineata l’idea del ‘divenire’, dell’avvicendamento di condizioni che si sostituiscono ad altre, come dimostrano i verbi egéneto (‘divenne’), metébalen o katébalen (‘cambiò’), éllaxe tèn phýsin (‘cambiò la natura’).
Piuttosto che sui corpi, come faceva Ovidio nelle Metamorfosi (vv. 1-2: in nova fert animus mutatas dicere formas / corpora, «l’ispirazione mi spinge a narrare il mutare delle forme in corpi nuovi»), Antonino si concentra sui passaggi di stato e sul tema dell’identità personale. Questa è inserita in un contesto sociale caratterizzato da una successione chiara di tappe prestabilite, il cui superamento è necessario per portare a compimento la propria natura, come dimostrano e contrario i miti narrati: Biblide, per esempio, che dovrebbe diventare adulta nel matrimonio, resta eternamente una Ninfa a causa del suo amore colpevole.

Altrettanto importante e opportunamente messa in luce da Macrì è la prospettiva fortemente antropocentrica che caratterizza il paesaggio antico, contemporaneamente sfondo e risultato delle vicende, e che sostanzia il ricorso all’aition (la narrazione, cioè, che giustifica un toponimo o un rituale legato a un luogo) in quanto fondamento della memoria culturale della comunità.
Dalla Grecia a Vieste, passando per tutte le città in cui il manoscritto di Heidelberg è stato letto e studiato, la metamorfosi è davvero «un’esperienza che ancora oggi non cessa di esercitare fascino e di essere raccontata», che è capace di dare vita a piante, luoghi, animali.

Grazie alla filologia e allo studio di raccolte come quella di Antonino, non dimentichiamo storie lontane (e, come visto, espressione di una cultura altra) come quelle di Cicno, Biblide e Smirna, Ila, Leucippo, Batto. Allo stesso tempo, grazie al folklore, alla poesia e alla musica, ne recuperiamo e apprezziamo di più vicine, come quella di Pizzomunno, scoglio e pescatore eterno del Gargano: «e quell’ira accecante lo fermò per sempre. E così la gente lo ammira da allora, gigante di bianco calcare che aspetta tuttora il suo amore rapito e mai più tornato!».

il manifesto – 11 marzo 2018

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