30 marzo 2018

PASOLINI HA AVVERTITO CON FORZA IL BISOGNO DI "UN NUOVO MODO D'ESSERE GRAMSCIANI".




Questa mattina nelle pagine di un bel gruppo FB che seguo - Pier Paolo Pasolini - Le Pagine Corsare – sono apparsi alcuni degli ultimi versi friulani di Pasolini che avevo preso in esame nell’ultimo capitolo di un mio saggio pasoliniano, pubblicato nel 2011, su una rivista scientifica dell’Università di Barcelona. Poiché i versi suddetti, per essere ben compresi, hanno bisogno di qualche spiegazione li ripropongo di seguito accompagnati da un mio breve commento. (fv)

Saluto e augurio

A è quasi sigùr che chista
a è la me ultima poesia par furlàn;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn.
È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani.
Al è un fassista zòvin,
al varà vincia un, vincia doi àins:
al è nassùt ta un paìs,
e al è zut a scuela in sitàt.
È un fascista giovane, avrà ventuno, ventidue anni: è nato in un paese ed è andato a scuola in città.
Al è alt, cui ociàj, il vistìt
gris, i ciavièj curs:
quand ch’al scumìnsia a parlàmi
i crot ch’a no’l savedi nuja di politica
È alto, con gli occhiali, il vestito grigio, i capelli corti: quando comincia a parlarmi, penso che non sappia niente di politica
e ch’al serci doma di difindi il latìn
e il grec, cuntra di me; no savìnt
se ch’i ami il latin, il grec - e i ciavièj curs.
Lu vuardi, al è alt e gris coma un alpìn.
e che cerchi solo di difendere il latino e il greco contro di me; non sapendo quanto io ami il latino, il greco - e i capelli corti. Lo guardo, è alto e grigio come un alpino.
"Ven cà, ven cà, Fedro.
Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns
"Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Voglio farti un discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni
su di te: jo i sai ben, i lu sai,
ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài.
su di te: io so, io so bene, che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò.
Difìnt i palès di moràr o aunàr,
in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Moùr di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.
Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
Il ciaf dai to cunpàins, tosàt.
Difìnt i ciamps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat
Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.
I ciasàj a somèjn a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja,
tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia,
ti lu sas, a è sapiensa santa.
Difìnt, conserva prea. La Repùblica
a è drenti, tal cuàrp da la mari.
I paris a àn serciàt, e tornàt a sercià
lo sai, è sapienza sacra. Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. I padri hanno cercato e tornato a cercar
di cà e di là, nass’nt, murìnt,
cambiànt: ma son dutis robis dal passàt.
Vuei: difindi, conservà, preà. Tas:
la to ciamesa ch’a no sedi
di qua e di là, nascendo, morendo, cambiando: ma son tutte cose del passato. Oggi: difendere, conservare, pregare. Taci! Che la tua camicia non sia
nera, e nencia bruna. Tas! Ch’a sedi
’na ciamesa grisa. La ciamesa dal siun.
Odia chej ch’a volin dismòvisi
e dismintiàssi da li Paschis...
nera, e neanche bruna. Taci! che sia una camicia grigia. La camicia del sonno. Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque...
Duncia, fantàt dai cialsìns di muàrt,
i ti ài dita se ch’a volin i Dius
dai ciamps. Là ch’i ti sos nassùt.
Là che da frut i ti às imparàt
Dunque, ragazzo dai calzetti di morto, ti ho detto ciò che vogliono gli Dei dei campi. Là dove sei nato. Là dove da bambino hai imparato

i so Comandamìns. Ma in Sitàt?
Scolta. Là Crist a no’l basta.
A coventa la Gl’sia: ma ch’a sedi
moderna. E a coventin i puòrs.
i loro Comandamenti. Ma in Città? Là Cristo non basta. Occorre la Chiesa: ma che sia moderna. E occorrono i poveri
Tu difìnt, conserva, prea:
ma ama i puòrs: ama la so diversitàt.
Ama la so voja di vivi bessòj
tal so mond, tra pras e palàs
Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi
là ch’a no rivi la peràula
dal nustri mond; ama il cunfìn
ch’a àn segnàt tra nu e lòur;
ama il so dialèt inventàt ogni matina,
dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina,
par no fassi capì; par no spartì
cun nissùn la so ligria.
Ama il sorel di sitàt e la miseria
dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.
per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio
Drenti dal nustri mond, dis
di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.
Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza.
Puarta cun mans di sant o soldàt
l’intimitàt cu’l Re, Destra divina
ch’a è drenti di nu, tal siùn.
Crot tal borghèis vuàrb di onestàt,
Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. Credi nel borghese cieco di onestà,
encia s’a è ’na ilusiòn: parsè
che encia i parons, a àn
i so paròns, a son fis di paris
ch’a stan da qualchi banda dal momd.
anche se è un’illusione: perché anche i padroni hanno i loro padroni, e sono figli di padri che stanno da qualche parte nel mondo.
Basta che doma il sintimìnt
da la vita al sedi par diciu cunpàin:
il rest a no impuàrta, fantàt cun in man
il Libri sensa la Peràula.
È sufficiente che solo il sentimento della vita sia per tutti uguale: il resto non importa, giovane con in mano il Libro senza la Parola.
Hic desinit cantus. Ciàpiti
tu, su li spalis, chistu zèit plen.
Jo i no pos, nissun no capirès
il scàndul. Un veciu al à rispièt
Hic desinit cantus.
Prenditi tu, sulle spalle, questo fardello. Io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo. Un vecchio ha rispetto
dal judissi dal mond; encia
s’a no ghi impuarta nuja. E al à rispièt
di se che lui al è tal mond. A ghi tocia
difindi i so sgnerfs indebulìs,
del giudizio del mondo: anche se non gliene importa niente. E ha rispetto di ciò che egli è nel mondo. Deve difendere i suoi nervi, indeboliti,
e stà al zoùc ch’a no’l à mai vulùt.
Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:
puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri
e stare al gioco a cui non è mai stato. Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre
la vita, la zoventùt.
la vita, la gioventù".

- Pier Paolo Pasolini, ora in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi 1975, pp.255-259.

Ed ecco il mio commento:
3. Nostalgia del volgar’eloquio e il bisogno di un nuovo modo d’essere gramsciani

     Ormai in conclusione, non posso eludere l’ultimo intervento pubblico in cui Pasolini affronta di petto il tema suggerito dal titolo di questo saggio.
È un documento di fondamentale importanza, colpevolmente trascurato dalla critica;81 una sorta di summa, in cui si ritrovano i principali temi dibat­tuti appassionatamente dall’autore nel corso della breve vita. Esso, peraltro, conferma la sostanziale coerenza della riflessione di Pasolini e la centralità che ha nella sua opera la questione dei rapporti tra lingua e potere.
L’intervento, come accennato, si svolse al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975, pochi giorni prima della tragica morte, nell’ambito di un Corso di aggiornamento per docenti di Scuola Media Superiore sul tema «Dialetto a scuola».
Fu Pasolini a voler dare all’incontro il titolo dantesco, così evocativo della tradizione letteraria italiana.82 Lo scrittore esordisce affermando di non saper parlare e di non essere in grado di tenere una lezione. Propone, pertanto, di passare immediatamente al dibattito. Ma di fronte al silenzio imbarazzato degli astanti decide di leggere, come introduzione, il monologo finale del dramma, allora inedito, Bestia da stile, che gli ha fornito l’idea d’intitolare l’incontro in quel modo bizzarro.
Ecco solo i versi iniziali della nota poesia, per rendersi conto del suo stile comunicativo e del singolare rapporto con le patrie lettere:83
Il volgar’eloquio: amalo.
Porgi orecchio, benevolo e fonologico,
alla lalìa («Che ur a in!»)
che sorge dal profondo dei meriggi,
tra siepi asciutte,
nei Mercati —nei Fori Boari—
nelle Stazioni —tra Fienili e chiese—.84

Era uno spunto dichiaratamente provocatorio. Come confermano vari testimoni, lo smarrimento dell’uditorio, a lettura finita, non poteva che cre­scere, tanto più che l’invito ad amare il Volgar’eloquio era rivolto a un inesi­stente giovane di un’immaginaria «Destra sublime», che solo Pasolini poteva inventarsi!
Ma per comprendere meglio quanto avvenne quel giorno, conviene ripren­dere le parole di uno degli organizzatori dell’incontro, Gustavo Buratti, pre­sidente dell’AIDLCM (Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate), che aveva direttamente invitato Pasolini, ricordan­dogli l’antica «militanza» per quelle che Frédéric Mistral chiamava «li lengo meprisado» (le lingue disprezzate):
Ma questi temi (l’amore per il «volgar’eloquio» e l’impegno conseguente), diceva Pasolini, sono una specie di palla al piede per noi, uomini della sinistra. [...] Tuttavia, noi che abbiamo lottato per la nostra lingua, sappiamo quanto Pasolini avesse ragione... sovente i nostri discorsi sono travisati; siamo accu­sati di dividere, con problematiche sovrastrutture, la classe operaia; di «fare il gioco dei padroni» e della destra, magari financo di essere razzisti.85
In effetti, nell’intervento, Pasolini ammette di non avere alcuna ricetta:
È tutto problematico, ed è problematica soprattutto un’azione politica chiara, che non vedo da nessuna parte.86
Torna allora a discutere dei rapporti tra lingua e dialetti, con cui aveva fatto i conti fin da giovane; rimette a fuoco, aggiornando l’analisi, l’annosa questione dei rapporti tra lingua e società, evidenzia come i rapidi mutamen­ti delle abitudini linguistiche degli italiani fossero uno dei frutti della scom­parsa della civiltà contadina. Nel riconoscere infine la crisi della vecchia ide­ologia marxista-leninista, incapace di comprendere il neocapitalismo, invoca la necessità di «un nuovo modo d’essere gramsciani». Più precisamente, dopo aver rivendicato con orgoglio di essere stato un marxista critico da trent’anni87 e di aver dato un contributo originale allo storicismo gramsciano, afferma, memore della classica lezione marxiana:
bisogna tenere presente l’assioma primo e fondamentale dell’economia poli­tica, cioè che chi produce non produce solo merci, produce rapporti sociali, cioè umanità.88
Ora, aggiunge Pasolini, dato che il neocapitalismo ha rivoluzionato il vec­chio modo di produzione e tramite la produzione di beni superflui e il consumismo ha trasformato antropologicamente gli italiani, i vecchi comunisti non sanno più cosa fare. Nella confusione tendono a trasformarsi in «un nuovo tipo di chierici» che, non tenendo conto dei cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi dieci anni, ripetono salmodicamente il catechismo marxista-leni­nista, accusando di eresia tutti coloro che la pensano diversamente:
dove ho scritto che bisogna ritornare indietro? Dove? Vedete punto per punto, e io [...] vi dico no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro, appunto perché mi pongo i problemi più attuali, fiuto i problemi del momento [...] Gramsci lavorava quaranta anni fa, in un mondo arcaico che noi non osiamo neppure immaginare [...] puoi ricordarmi Gram­sci come anello di una catena storica che porta a fare nuovi ragionamenti oggi, a riproporre un nuovo modo di essere progressisti, un nuovo modo di essere gramsciani.89
Come si vede, anche queste parole confermano l’immagine data di sé nell’intervista ad Arbasino del 1963: «la mia caratteristica principe è la fedeltà».

Rileggendo gli scritti di Pasolini si rimane colpiti dalla loro intatta forza espressiva e comunicativa, dalla loro resistenza al tempo. Il fatto stesso che alcune sue parole-chiave (Palazzo, omologazione, mutazione antropologica, svi­luppo senza progresso) siano diventate senso comune mi sembra un’ulteriore prova dell’attualità della sua analisi. Soprattutto centrata è la critica al consu­mismo, percepito e vissuto come «un vero e proprio cataclisma antropologico».90 È vero che in essa si ritrovano motivi già presenti nella Scuola di Francoforte,91 ma sono certo una novità il linguaggio usato, l’estrema chiarez­za ed immediatezza che l’hanno resa comprensibile a tutti. Pasolini, con il suo acume antropologico, è stato tra i primi a capire la centralità dei mass media nella società contemporanea. Fin dagli anni ‘60,92 sviluppando la geniale intu­izione gramsciana rilevante lo stretto nesso tra lingua, società e potere, aveva colto nelle prime manifestazioni del linguaggio tecnocratico l’emergere di una nuova classe sociale tendenzialmente egemone. Ma, a differenza di tanti intellettuali odierni, non ebbe paura di andare contro corrente, di mettersi in gioco in prima persona, rompendo schemi e logiche di schieramento consolidati.

Più volte, dopo la sua morte, si è cercato di metterci una pietra sopra. I più cinici hanno persino usato la sua orribile fine per farlo. Solo Sciascia, a modo suo, ha tentato di mantenere viva la sua lezione. E non è un caso che proprio un discepolo di quest’ultimo, Vincenzo Consolo, insieme a pochi altri, abbia utilizzato, in un manifesto del giugno 2000, il lessico di Pasolini per tentare di aggiornarne l’analisi:

Caduto il regime democristiano per corruzione interna, per mafia, per crimi­ni, è subentrato ad esso un partito di destra il cui leader (Silvio Berlusconi) è proprietario (caso unico in Europa) di tre reti televisive, oltre che di giornali e case editrici. Queste reti televisive, che poggiano la loro esistenza e la loro potenza sui messaggi pubblicitari, hanno negli anni inciso enormemente sulla cultura e sulla lingua italiana. La televisione statale, per ragione di concorren­za o di volontaria omologazione, si è conformata alla cifra culturale e stilistica di quella privata. Sempre più piccolo borghese, consumistico, fascista, il paese, telestupefatto, ha perso ogni memoria di sé, della sua storia, della sua identità. L’italiano è diventato un’orrenda lingua, un balbettio invaso dai linguaggi mediatici che non esprime altro che merce e consumo.93
E, in un momento in cui l’Italia sembra davvero andare alla deriva, può essere di conforto ricordare che un giovane scrittore come Roberto Saviano, che ha riscosso con il suo Gomorra un meritato successo internazionale, abbia additato tra i suoi maestri il poeta di Casarsa.

Francesco Virga, Novembre 2011 

 Brano estratto dal saggio intitolato:  Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini
 Pubblicato in Quaderns d’Italià n.16, 2011, pp. 175-196. Per ovvie ragioni ho omesso  le note presenti nel testo originale del mio articolo.

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