14 marzo 2018

QUEL CHE NON CONVINCE DELL'ARTE DI R. GUTTUSO


Alla GAM di Torino in mostra le tele “politiche” di Guttuso. “L'arte rivoluzionaria nel cinquantenario del '68” il titolo della mostra. Ci resta francamente difficile comprendere cosa ci sia di rivoluzionario nell'opera di Guttuso, a meno di non cadere nel vecchio errore di confondere forma e contenuto. Di più: l'attenzione esasperata al messaggio fa perdere quello che invece c'è di significativo nella pittura di Guttuso: la pennellata decisa, l'uso razionale dello spazio e l'intensità del colore. Sarà che a noi ha sempre convinto di più l'autore “minimalista” e intimista di opere come "Donna alla finestra" che il pittore militante (e retorico) tanto caro al PCI togliattiano.
Resta l'interesse sociologico, perchè questa rassegna già dal titolo (e anche dalla recensione che riprendiamo) ci racconta invece molto dei committenti del pittore, di quella Italia altoborghese degli anni Cinquanta e Sessanta per cui appendere un Guttuso in salotto era, come la frequentazione degli intellettuali comunisti alla moda, il sentirsi dalla parte della "rude classe proletaria". Un po' come andare a mangiare in una bettola, una sorta di comunismo all'amatriciana per altoborghesi in cerca di emozioni. Il loro '68 sarà quello del Servire il Popolo di Aldo Brandirali o delle fumisterie salottiere del Manifesto di Magri e Rossanda.

Fabrizio D'Amico

Quel rivoluzionario (a colori) di Guttuso


Renato Guttuso. L'arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ' 68 s'intitola la mostra che, a cura di Pier Giovanni Castagnoli, con la collaborazione degli Archivi Guttuso (catalogo Silvana), è aperta fino al 24 giugno alla Gam di Torino. Si incentra sulla passione politica, sull'impegno di lotta e sulla partecipazione civile del pittore siciliano, esponendo circa settanta opere di un lungo periodo, teso dalla fine degli anni Trenta alla metà dei Settanta, concluso idealmente dalla grande tela con i Funerali di Togliatti, del 1972. Era stato già in un quadro capitale datato al 1934 – Le tre donne, che lo rappresentò alla seconda Quadriennale romana – che Guttuso, a poco più di vent'anni, dimostrò – assieme con i primi debiti da lui contratti fra Milano e Roma, ancora da saldare interamente – un primo deciso approccio a una sua piena maturità: in quel suo farsi vicino alle cose, a precipizio e quasi feroce sopra di esse; in quelle cromie accese e sovratono, sgarbate e impudenti; in quelle campiture piatte d'un colore steso a larghe zonature, con irruenza e quasi con disprezzo per una "bella" apparenza di pittura.

Appena di qualche anno dopo è infatti la sua aperta condanna verso quella pittura "pavida" che rimane "cauta a immischiarsi con la vita". "Perché un'opera viva – scrive – bisogna che l'uomo che la produce sia in collera ed esprima la sua collera... non è necessario per un pittore essere d'un partito o d'un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma, per qualche cosa".

Nasce dunque fin d'ora – nuovissima nel panorama romano, ove in tanti s'avviavano allora verso gli accordi saggi e garbati del tonalismo – quella vocazione espressionista che connoterà tanta parte della sua pittura. Adesso, alla metà del Trenta, essa si maschera ancora di una fantasia accesa, di singolari excursus onirici quali quelli che, ad esempio, radunano nel gioco (ma forse, meglio, in una allarmata assise) i bambini nudi in un'assolata terrazza siciliana; di ricordi tumultuosi dello Scipione più "barocco"; o anche di più eleganti, sinuose disperazioni, condotte nel segno della pennellata scivolata e fluente che Guttuso aveva tratto da Carlo Levi (ne l'Autoritratto con la sciarpa e l'ombrello, o in Gente nello studio, qui esposti).
Più avanti – con un anticipo breve ma preciso sugli anni di guerra (nel piccolo capolavoro della Fucilazione in campagna, del '38, ad esempio) – Guttuso riscoprirà in quel suo, e da sempre in fondo soltanto suo, colore, una radice in lui profonda, uno strumento privilegiato per gridare il suo mondo agli altri "come espettorato sulla tela, con odio e con amore insieme, ma senza blandirlo e senza ripudiarlo", scriverà Cesare Brandi. E a Ennio Morlotti, in una fondamentale lettera del '43, Guttuso scriverà ancora in termini analoghi: "Io penso sempre più a una pittura che possa vivere quale pittura come grido espressivo e manifestazione di collera, di amore, di giustizia sugli angoli delle strade e sulle cantonate delle piazze piuttosto che nell'aria triste del Museo per quei pochi specialisti che di tanto in tanto andranno a cercarla".

La fuga dal museo, e comunque da un ambito "borghese" ("l'arte non è un patrimonio della borghesia o degli intellettuali", dice), dunque. Mentre incide ancora in queste parole, forse, la memoria della giovinezza trascorsa vicino a Cagli, che dalla V Triennale di Milano era tornato a Roma, nel '33, gridando anche a Guttuso il suo "Muri ai pittori".
    Donna alla finestra

Ma, a quelle date, è già la "collera" la vocazione estrema, e certo fondamentale, dell'arte di Guttuso: per il quale la "questione specifica" di un quadro sarà soltanto – ben più che la sua "forma" – la "quantità di noi stessi come sangue, intelligenza, vita morale che ci si butta dentro". Più oltre, nella stessa lettera indirizzata a Morlotti, si postula per l'arte un fine: che essa torni, in fine di ogni conto, "utile agli uomini". È l'avvio del rischio più grave di Guttuso, un rischio che finirà per insidiare l'autonomia della sua pittura, e quella stessa libertà dell'artista tanto a lungo e tanto affannosamente cercata. Ma per adesso – negli anni per lui felicissimi del dopoguerra – è l'inizio di una nuova speranza; che la vicinanza a Picasso (inaugurata dalla famosa Crocifissione esposta e premiata a Bergamo nel'42, e della quale è esposto a Torino un raro studio, proveniente dagli Archivi romani del pittore) conferma: vicinanza largamente rappresentata oggi in mostra, tra l'altro, dal Massacro del '43, e dalla Marsigliese contadina del museo di Boston, del 1947.


La repubblica/Robinson – 25 febbraio 2018

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