Alla GAM di Torino in
mostra le tele “politiche” di Guttuso. “L'arte rivoluzionaria
nel cinquantenario del '68” il titolo della mostra. Ci resta
francamente difficile comprendere cosa ci sia di rivoluzionario
nell'opera di Guttuso, a meno di non cadere nel vecchio
errore di confondere forma e contenuto. Di più: l'attenzione
esasperata al messaggio fa perdere quello che invece c'è di
significativo nella pittura di Guttuso: la pennellata decisa, l'uso
razionale dello
spazio e l'intensità del colore. Sarà che a noi ha sempre convinto
di più l'autore “minimalista” e intimista di opere come "Donna alla
finestra" che il pittore militante (e retorico) tanto caro al PCI
togliattiano.
Resta l'interesse
sociologico, perchè questa rassegna già dal titolo (e anche dalla
recensione che riprendiamo) ci racconta invece molto dei committenti
del pittore, di quella Italia altoborghese degli anni Cinquanta e
Sessanta per cui appendere un Guttuso in salotto era, come la
frequentazione degli intellettuali comunisti alla moda, il sentirsi
dalla parte della "rude classe proletaria". Un po' come andare a
mangiare in una bettola, una sorta di comunismo all'amatriciana per
altoborghesi in cerca di emozioni. Il loro '68 sarà quello del Servire
il Popolo di Aldo Brandirali o delle fumisterie salottiere del Manifesto
di Magri e Rossanda.
Fabrizio D'Amico
Quel rivoluzionario (a
colori) di Guttuso
Renato Guttuso. L'arte
rivoluzionaria nel cinquantenario del ' 68 s'intitola la mostra che,
a cura di Pier Giovanni Castagnoli, con la collaborazione degli
Archivi Guttuso (catalogo Silvana), è aperta fino al 24 giugno alla
Gam di Torino. Si incentra sulla passione politica, sull'impegno di
lotta e sulla partecipazione civile del pittore siciliano, esponendo
circa settanta opere di un lungo periodo, teso dalla fine degli anni
Trenta alla metà dei Settanta, concluso idealmente dalla grande tela
con i Funerali di Togliatti, del 1972. Era stato già in un quadro
capitale datato al 1934 – Le tre donne, che lo rappresentò alla
seconda Quadriennale romana – che Guttuso, a poco più di
vent'anni, dimostrò – assieme con i primi debiti da lui contratti
fra Milano e Roma, ancora da saldare interamente – un primo deciso
approccio a una sua piena maturità: in quel suo farsi vicino alle
cose, a precipizio e quasi feroce sopra di esse; in quelle cromie
accese e sovratono, sgarbate e impudenti; in quelle campiture piatte
d'un colore steso a larghe zonature, con irruenza e quasi con
disprezzo per una "bella" apparenza di pittura.
Appena di qualche anno
dopo è infatti la sua aperta condanna verso quella pittura "pavida"
che rimane "cauta a immischiarsi con la vita". "Perché
un'opera viva – scrive – bisogna che l'uomo che la produce sia in
collera ed esprima la sua collera... non è necessario per un pittore
essere d'un partito o d'un altro, o fare una guerra, o fare una
rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come
agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma,
per qualche cosa".
Nasce dunque fin d'ora –
nuovissima nel panorama romano, ove in tanti s'avviavano allora verso
gli accordi saggi e garbati del tonalismo – quella vocazione
espressionista che connoterà tanta parte della sua pittura. Adesso,
alla metà del Trenta, essa si maschera ancora di una fantasia
accesa, di singolari excursus onirici quali quelli che, ad esempio,
radunano nel gioco (ma forse, meglio, in una allarmata assise) i
bambini nudi in un'assolata terrazza siciliana; di ricordi tumultuosi
dello Scipione più "barocco"; o anche di più eleganti,
sinuose disperazioni, condotte nel segno della pennellata scivolata e
fluente che Guttuso aveva tratto da Carlo Levi (ne l'Autoritratto con
la sciarpa e l'ombrello, o in Gente nello studio, qui esposti).
Più avanti – con un
anticipo breve ma preciso sugli anni di guerra (nel piccolo
capolavoro della Fucilazione in campagna, del '38, ad esempio) –
Guttuso riscoprirà in quel suo, e da sempre in fondo soltanto suo,
colore, una radice in lui profonda, uno strumento privilegiato per
gridare il suo mondo agli altri "come espettorato sulla tela,
con odio e con amore insieme, ma senza blandirlo e senza ripudiarlo",
scriverà Cesare Brandi. E a Ennio Morlotti, in una fondamentale
lettera del '43, Guttuso scriverà ancora in termini analoghi: "Io
penso sempre più a una pittura che possa vivere quale pittura come
grido espressivo e manifestazione di collera, di amore, di giustizia
sugli angoli delle strade e sulle cantonate delle piazze piuttosto
che nell'aria triste del Museo per quei pochi specialisti che di
tanto in tanto andranno a cercarla".
La fuga dal museo, e
comunque da un ambito "borghese" ("l'arte non è un
patrimonio della borghesia o degli intellettuali", dice),
dunque. Mentre incide ancora in queste parole, forse, la memoria
della giovinezza trascorsa vicino a Cagli, che dalla V Triennale di
Milano era tornato a Roma, nel '33, gridando anche a Guttuso il suo
"Muri ai pittori".
Donna alla finestra
Ma, a quelle date, è già
la "collera" la vocazione estrema, e certo fondamentale,
dell'arte di Guttuso: per il quale la "questione specifica"
di un quadro sarà soltanto – ben più che la sua "forma"
– la "quantità di noi stessi come sangue, intelligenza, vita
morale che ci si butta dentro". Più oltre, nella stessa lettera
indirizzata a Morlotti, si postula per l'arte un fine: che essa
torni, in fine di ogni conto, "utile agli uomini". È
l'avvio del rischio più grave di Guttuso, un rischio che finirà per
insidiare l'autonomia della sua pittura, e quella stessa libertà
dell'artista tanto a lungo e tanto affannosamente cercata. Ma per
adesso – negli anni per lui felicissimi del dopoguerra – è
l'inizio di una nuova speranza; che la vicinanza a Picasso
(inaugurata dalla famosa Crocifissione esposta e premiata a Bergamo
nel'42, e della quale è esposto a Torino un raro studio, proveniente
dagli Archivi romani del pittore) conferma: vicinanza largamente
rappresentata oggi in mostra, tra l'altro, dal Massacro del '43, e
dalla Marsigliese contadina del museo di Boston, del 1947.
La repubblica/Robinson –
25 febbraio 2018
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