Dopo anni di
accettazione passiva del pensiero unico del capitale (in sostanza
dell'immutabilità dello stato di cose presente) si ricomincia a
riflettere sulle possibili uscite da una situazione sempre più
drammatica e di nuovo ci si volge a Marx, non tanto in cerca di
formulette preconfezionate, ma di indicazioni sul metodo.
Sembra un procedimento astratto, da intellettuali accademici, in realtà è una
delle precondizioni (l'altra è il ritornare fra la gente) per la
ripresa della sinistra. Insomma, senza idee chiare si rischia di
ricadere in un attivismo fine a se stesso non privo di venature
populiste (è la critica che ci sentiamo di fare a Potere al Popolo), e per le
idee chiare occorre rimettersi a studiare. Riprendiamo
un'anticipazione dalla relazione al seminario «L’attualità del
Capitale. Nel bicentenario della nascita di Karl Marx», che si terrà
presso la Fondazione Basso, a Roma, il 23 e 24 marzo.
Stefano Petrucciani
L’inesauribile forza
della merce-feticcio
Tra i molti temi che Marx affronta nel Capitale, uno di quelli che hanno segnato di più il pensiero critico del Novecento è il feticismo delle merci. Che le merci, i beni di consumo, siano divenute con lo sviluppo del capitalismo moderno un vero e proprio oggetto di culto (come lo erano i feticci per i popoli primitivi) è una constatazione che, per chi ha letto i formidabili testi critici di Adorno o di Debord, ha assunto ormai la consistenza di un’ovvietà.
Ma quando parlava di feticismo e di reificazione (concetti, come vedremo, strettamente connessi) Marx forse anticipava, ma non poteva ancora vedere, gli effetti che lo sfavillante mondo delle merci avrebbe generato nella coscienza degli abitanti della postmodernità. Quello che gli interessava mettere a fuoco era una questione diversa e in un certo senso più profonda: e cioè il fatto che, nella moderna società mercantile-capitalistica, i rapporti tra uomini si trasformano in rapporti tra cose e, soprattutto, le dinamiche socio-economiche che sono il risultato del nostro incessante operare nel mondo ci si impongono come se fossero delle leggi estranee e ineluttabili, alle quali non possiamo che obbedire. Come se fossero «cose» (dalla parola latina res=cosa deriva il termine reificazione) e non rapporti tra gli uomini, storicamente divenienti e modificabili
COME IL CULTO della merce-feticcio, anche questo è un aspetto contro il quale impattiamo continuamente, nella nostra vita quotidiana come in quella politica: non passa giorno senza che qualcuno torni a insegnarci che le superiori leggi dell’economia di mercato impongono, per esempio, di tagliare le erogazioni del welfare, di ridurre la spesa sociale. Come se queste fossero non già scelte politiche, discutibili e criticabili, ma conseguenze quasi naturali di una situazione priva di alternative, rispetto alla quale non ci sono altre scelte se non adattarsi o perire (precipitando nella insolvenza, nella crisi, nella catastrofe della convivenza sociale).
Ma le cose stanno veramente così? Il lavoro di Marx sulla reificazione e il feticismo è proprio un tentativo di rispondere no. Di mostrare che questi modi di vedere che predicano la mancanza di alternative sono il frutto di una complessa dinamica di accecamento: non una semplice illusione e, meno che mai, un inganno da parte dei «cattivi»; piuttosto una apparenza che si impone con forza irresistibile, grazie alla struttura profonda della nostra società che la sostiene e la ricrea sempre di nuovo. Ma per capire come funzioni questo meccanismo bisogna, come fa Marx nelle pagine sul feticismo, impostare sulle giuste basi il ragionamento su come operano e come sopravvivono le società umane.
Ogni società, dalla famiglia primitiva allargata fino alla complessa società moderna, è resa possibile da una certa divisione del lavoro al suo interno.
CIÒ SIGNIFICA che la
forza lavorativa complessivamente disponibile (come fosse la forza di
un solo individuo, di un Robinson sull’isola deserta) viene
distribuita nello svolgimento di attività diverse (per esempio:
produzione di cibo, produzione di strumenti, di ulteriori beni,
costruzione di alloggi) e che i prodotti di queste attività vengono
a loro volta distribuiti agli individui per assicurare loro la
sopravvivenza e anche (ove possibile) qualcosa di più.
L’ASSEGNAZIONE del lavoro umano a differenti branche di produzione caratterizza dunque ogni forma sociale. Ma questa assegnazione può essere realizzata in molti modi: in una ipotetica associazione di uomini liberi (l’utopia che Marx ha in mente) questo processo è evidente e trasparente: ci si riunisce e si stabilisce (in modo auspicabilmente democratico) che Tizio farà una cosa e Caio ne farà un’altra. Nella società mercantile, invece, questa assegnazione del lavoro umano a differenti branche di produzione ha luogo ugualmente, ma senza che nessuno l’abbia programmata o decisa; e proprio per questo risulta in qualche modo occultata, non viene vista o tematizzata.
Ciò che l’individuo vede è che egli può produrre delle merci che hanno un certo valore, e che attraverso il ricavato della vendita può acquistare altre merci che hanno pari valore e che, a differenza delle prime, gli servono per soddisfare i suoi bisogni. L’individuo non vede la complessiva articolazione del lavoro sociale (che pure c’è) perché essa si stabilisce attraverso la dinamica del mercato senza che nessuno se ne curi o la programmi: la distribuzione del lavoro nei vari rami di produzione, e la distribuzione dei beni finali ai differenti individui, è assicurata dal rapporto tra i valori delle diverse merci.
QUELLO CHE ACCADE
dunque in questa situazione, secondo Marx, è che i rapporti sociali
tra i produttori prendono la forma di un rapporto tra cose.
La vita di ciascuno finisce per dipendere da un processo oggettivo che ha le sue regole, come le hanno le cose indipendenti dagli uomini. Se l’azienda non riesce a vendere i suoi prodotti, fallirà e i lavoratori resteranno disoccupati; se non avranno la fortuna di trovare altri acquirenti per la loro forza-lavoro, non avranno più di che vivere e, nel migliore dei casi, si potrà sopperire alle situazioni più drammatiche mettendoci una toppa attraverso qualche sussidio pubblico.
Ma quello che Marx intende specificamente mettere a fuoco, con la sua teoria della reificazione, sono gli effetti che questa situazione produce nella coscienza degli individui. Poiché il processo nel quale essi si trovano immersi non è stato programmato e deciso da nessuno, esso appare loro come un dato di fatto, come una condizione quasi naturale. Ciò che in tal modo viene occultato è che lo scambio di merci e il rapporto di denaro sono soltanto una modalità possibile (storicamente divenuta e modificabile) per soddisfare l’esigenza generale, propria di ogni società umana, di assegnare il lavoro alle diverse branche di attività e ripartire i prodotti tra i diversi individui. Sotto il dominio della reificazione questa consapevolezza viene occultata, e quello che è soltanto un particolare modo di organizzare i rapporti tra gli uomini viene naturalizzato.
MA QUESTA SITUAZIONE genera anche un’altra conseguenza, rilevante per la critica delle ideologie politiche. Nel rapporto mercantile, dove ognuno appare come un libero compratore-venditore (anche solo della sua forza-lavoro) la effettiva dipendenza reciproca degli individui si presenta come una apparente indipendenza: e come l’ideologia economica assolutizza il mercato, così l’ideologia politica liberale assume gli individui come soggetti indipendenti e irrelati, inconsapevoli del loro legame sociale e tesi soltanto a massimizzare il loro interesse individuale.
Il significato più importante della teoria marxiana della reificazione, perciò, è che essa costituisce un tentativo di mostrare come le dinamiche oggettive della società mercantile-capitalistica, oltre a governare la vita delle persone, siano anche produttive di specifiche forme di coscienza. Qui sta la sua peculiarità, e da questo dipende il fascino che essa ha esercitato su alcuni dei più acuti filosofi marxisti del ’900. Primo fra tutti il giovane Lukács che, nel suo grande testo del 1923 Storia e coscienza di classe, centrava il suo ragionamento proprio sulla reificazione e sulla possibilità che questa venisse svelata e superata dalla coscienza di classe del proletariato. La storia non gli ha dato ragione; anzi, la sconfitta della rivoluzione era in sostanza già consumata quando Lukács la traduceva genialmente in filosofia.
Ma il paradosso di un rapporto sociale che si trasforma in una legge ferrea e ineluttabile è ancora tutto lì. E forse, nell’età del neoliberismo, è divenuto ancora più acuto.
il manifesto – 20 marzo
2018
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