05 marzo 2018

CORNUTI e FASCISMO raccontati ANDREA CAMILLERI







Il cornuto e il fascismo. Un aneddoto di Andrea Camilleri

di Marco Filoni

La sapienza di una lingua rigorosa è un rifugio dalle contese del popolo. Soprattutto in momenti come quello che stiamo vivendo, in cui le contese del popolo brillano per imbecillità di sincronia con le voci sparate dai megafoni della popolarità. Quel chiacchiericcio blaterato, spesso triste e triviale, che osserviamo sui social network altro non è che l’eco di parole dette da chi dovrebbe avere la responsabilità della lingua.
Ecco allora che questa campagna elettorale e il dibattito pubblico che ne segue sta sfoggiando una grammatica in cui le parole sono sottratte dal dominio del senso.
Senza pretesa di esaustività e andando un po’ a caso, dai tragici fatti di Macerata a oggi abbiamo avuto: “pistoleri” e non “terroristi”, “farsi giustizia”, “nigeriani cannibali” e “vodoo”, per poi arrivare raddoppiando di lena nella corsa in quel revival lessicale riguardante il fascismo: “il fascismo è morto per sempre”, “il ritorno del fascismo è una fesseria” però “il saluto romano non è reato se ha intento commemorativo” e così via sino all’incerto ma inebriante “fascismo degli antifascisti”.
Ora, si potrebbe discutere per ore e giorni interi su queste formulazioni e su chi l’ha formulate (cosa che in parte sta già avvenendo – perché ormai non basta mormorare: bisogna avere anche l’ultima parola, come intuiva già Voltaire). Meglio di no. È utile invece constatare come questo così detto dibattito “ha fatto pure cose buone”: è il caso della riproposizione delle considerazioni di Umberto Eco sul fascismo eterno; delle riflessioni di Michela Murgia, o ancora di quelle di Luigi Manconi.
A mo’ di chiosa di queste pensieri, lucidi e chiari, un aneddoto che si deve all’intelligenza screziata d’ironia di Andrea Camilleri. Che racconta di Raul Radice, critico teatrale al Corriere della Sera: un gentiluomo milanese, vecchio stampo, che aveva iniziato la sua carriera da giornalista durante il ventennio come redattore di un quotidiano fascista, L’Impero. La testata era diretta da due figure importanti del regime, Mario Carli e Emilio Settimelli. Mentre a ricoprire il ruolo di amministratore di tutte le pubblicazioni fasciste era Arnaldo Mussolini, fratello di Benito.
Ebbene, ricorda Camilleri, un giorno Arnaldo Mussolini chiese a Radice di accompagnarlo dal Duce per la relazione mensile sull’andamento delle pubblicazioni. Così entrano nello studio di Benito Mussolini, a Piazza Venezia, col giovanissimo Radice nel ruolo di portaborse e col cuore che gli batteva forte. Il Duce era chino sulla sua scrivania a scrivere, fitto fitto. Saluto romano di rito, poi il fratello si mise accanto a Benito, aprì la valigetta con tutti i documenti e glieli porse. Ma questi, prima ancora di scorgerli, esordì: «Arnaldo, da qualche tempo L’Impero mi sembra che abbia perduto mordente. Ma che succede?».
E il fratello rispose: «Sai, è una cosa molto delicata e pure sgradevole…»
«E cioè?»
«Beh, sai, la moglie di uno dei due va a letto con l’altro. E il marito l’ha scoperto. Quindi i due non si parlano più, e così sta andando tutto un po’ a rotoli».
Arnaldo non pronunciò nessun nome, non disse quale dei due era stato tradito.
Così Mussolini si chinò, pensoso, e dopo un lungo silenzio alzò lo sguardo, guardò dritto negli occhio il fratello e disse: «licenzia il cornuto!».
Ecco, in una sola frase, quella che per Andrea Camilleri è la vera essenza del fascismo.

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