14 marzo 2018

I FRANCESI RIPENSANO IL 68.





A proposito delle «celebrazioni» francesi sui 50 anni del ’68, le contraddizioni del presente e della politica. Intervista con lo storico Xavier Vigna, docente all’università di Bourgogne.



Anna Maria Merlo

Quando l’eredità sovversiva sta nel ripensare la rivolta

Cinquant’anni fa un movimento di contestazione politica, sociale e culturale ha scosso la Francia e il mondo occidentale. Oggi si preparano le celebrazioni per ricordare quel momento di svolta. Ma cosa si celebra, mezzo secolo dopo, cosa ha in comune il nostro mondo con la società di allora? Ne parliamo con il giovane storico Xavier Vigna, professore di storia contemporanea all’università della Bourgogne, autore, tra l’altro, di L’insubordination ouvrière dans les années 68. Essai d’histoire politique des usines (Presses universitaires de Rennes), specialista della storia operaia (L’esprit et l’effroi. Luttes d’écritures et luttes de classe en France au XXe siècle, La Découverte; e poi Histoire des ouvriers en France au XXe siècle, Perrin).

«Non sono sicuro che tutti celebrino la stessa cosa. Basta pensare che persino Macron crede di celebrare il Maggio 68, mentre un ex operaio di Sochaux mi ha detto che stanno preparando qualcosa per la primavera, che sarà proprio una protesta contro la politica del presidente della Repubblica. La celebrazione, in altri termini, non sarà né generale né unanime. Un certo numero di protagonisti di allora, come Daniel Cohn-Bendit o il regista Romain Goupil, sono ormai vicini a Macron, cioè sempre più lontani da quello che dicevano nel ’68».

Oggi viene posto avanti l’individualismo come una delle eredità del ’68…

Non credo che il ’68 fosse individualismo, è stata una lotta per la libertà collettiva, un movimento sociale, con aspirazioni individuali, un movimento di emancipazione più che di liberazione individuale. Questa interpretazione si focalizza sugli studenti, è un modo per non parlare degli operai. Ma nel ’68 c’è stato il più grande sciopero della storia di Francia. Credo che nelle celebrazioni di quest’anno la questione dello sciopero non passerà sotto silenzio, come è stato in parte nel 2008. Non vuol dire che siamo alla vigilia di una nuova esplosione, non si può mai sapere quando una rivolta scoppierà anche se ci sarebbero tutte le buone ragioni: l’ineguaglianza è oggi più forte che nel ’68, la violenza sociale e politica anche, la violenza del padronato, dei rapporti sociali. Le strutture di solidarietà collettiva sono smantellate. Il ’68 aveva fissato un paradigma della rivolta. Una nuova rivolta, se ci sarà, non sarà pero’ necessariamente in questo paradigma.
Allora, il punto centrale era stato l’incontro tra studenti e operai?

Da un lato, una parte degli studenti veniva dal mondo operaio, era la prima generazione che aveva accesso all’università, una parte degli studenti erano di origine popolare. Dall’altro, c’era una centralità operaia, quello che succedeva nelle fabbriche era essenziale per il paese. Cattolici, marxisti, tutti guardavano verso le fabbriche. Il 14 maggio ‘68, a Nantes, c’è stato il primo sciopero in una fabbrica e gli studenti hanno portato la manifestazione fino lì e hanno cominciato a discutere. È stato un incontro, qualcosa di profondamente sovversivo. Adriano Sofri lo ha ben riassunto: «Prima del Sessantotto c’era scritto Vietato l’ingresso dappertutto. Le case chiuse, grazie a una brava signora, erano state abolite: ma le caserme, i manicomi, gli ospedali, le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro, gli uffici pubblici, le scuole, erano tutte case chiuse. Il Sessantotto le aprì. I non addetti ai lavori vi entrarono e guardarono. Quel po’ di trasparenza che l’Italia si è guadagnata viene da lì». Questo vale anche per la Francia: gli studenti sono andati dove non sarebbero dovuti andare, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle prigioni. Non è il fenomeno più massiccio, ma il più sovversivo, il fattore che ha il maggiore potenziale di contestazione.

Qual era il clima che ha permesso l’esplosione?

Oggi parliamo dei «30 anni gloriosi», ma dimentichiamo che allora le condizioni di lavoro erano molto dure, che c’era una durezza del gollismo, un regime autoritario, una forte brutalità sociale. Siamo sei anni dopo la fine della guerra d’Algeria, la polizia uccideva i militanti algerini e francesi. Nelle fabbriche le condizioni di lavoro erano molto dure, era un processo di modernizzazione, il sindacalismo non era riconosciuto : i militanti erano spesso licenziati. L’autoritarismo era dappertutto, nelle fabbriche, nelle università, nelle famiglie. È per questo che rifiuto l’espressione «30 anni gloriosi». Un po’ dappertutto, l’occidente trionfante viene contestato dall’interno, dai giovani e dagli operai, anche negli Usa ci sono rivolte operaie. Il modello politico, economico e sociale occidentale entra in crisi. Una crisi che dura tuttora, come se la realtà di questa crisi avesse lentamente eroso le possibilità di un’alternativa. Nel ’68 c’era un’alternativa, mentre oggi tra i più giovani un «altro mondo» sembra impossibile. Allora c’era l’alternativa sovietica, anche se non era certo un modello, Cuba, il Che, il capitalismo non sembrava la sola possibilità.

Allora un terzo della popolazione era giovane. Oggi viviamo in società invecchiate. Conta questo fattore?

La gioventù era fattore di dinamismo, sono anni di teorizzazione intensa, anni filosofici, mentre oggi la teoria è passata in secondo piano, questo spazio di pensiero si è ristretto. Oggi lo spazio di contestazione non punta più allo stato. La contestazione, come a Notre-Dame-des-Landes per esempio, è una zona di sottrazione più che di confronto. Nel ’68 c’era l’idea di costruire un partito adeguato, che non era il Partito comunista, per prendere il potere. Oggi questa questione è chiusa. Il lavoro di aggregazione diventa così più complicato. La sconfitta ideologica minaccia di pesare sull’alternativa. Allora la sinistra era intellettualmente egemonica, oggi è la destra, anche il Ps è di destra, come Macron, Renzi, l’Spd.

Cosa ha da dire il ’68 alle lotte di oggi?

Allora la mobilitazione operaia ha permesso passi avanti molto importanti, come lo Statuto dei Lavoratori in Italia. Oggi si torna indietro. Dei temi affrontati allora restano aperti: la salute e il diritto al lavoro, la mobilitazione a favore degli immigrati, già presente nel ’68, come l’eguaglianza uomo-donna. C’è un’attualità sovversiva del ’68, un’attualità contestatrice a cui potremmo ispirarci, anche per andare oggi in posti dove non dovremmo andare.

Il manifesto – 18 febbraio 2018

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