Dalle Ardenne a Milano
alla ricerca del tesoro di Rimbaud. Una storia curiosa.
Edgardo Franzosini
Alla ricerca di un
mistero perduto
Per avere qualche probabilità di ritrovare delle tracce concrete, tangibili, che testimonino il passaggio e il soggiorno dell’“angelo in esilio” Rimbaud a Milano, magari proprio quella copia della Saison en Enfer data alla signora, o magari una qualsiasi altra reliquia per quanto piccola, bisognerebbe avere forse la stessa caparbietà, la stessa ostinazione di Paul Boens. Boens è un belga che è stato un tempo istruttore di scuola guida. Da qualche anno ha abbandonato questa attività e si è dedicato interamente, con una dedizione ingenua e irremovibile, alla ricerca dell’oro di Rimbaud. Ricerca che fino ad ora, a dire la verità, si è dimostrata inutile.
Dopo aver acquistato quel
che era rimasto della fattoria dei Rimbaud a Roche (questo luogo come
ha detto bene Julien Gracq “totalmente insignificante”), Boens ha
iniziato a scavare, prima con il badile, poi pare con una scavatrice
meccanica, nella certezza di ritrovare prima o poi quei sedicimila e
rotti franchi-oro che Rimbaud avrebbe portato con sé dall’Abissinia
(li teneva nascosti dentro la cintura, pesavano otto chili e gli
fecero venire un po’ di dissenteria, tutti particolari che qualcuno
commenterà in questo modo: «Era diventato avaro come la madre»).
Ma il “tesoro” milanese di Rimbaud in cosa potrebbe consistere? Forse nel letto dove ha dormito, nelle stoviglie o nelle posate che ha usato. Forse nella sedia o nella poltrona in cui si sarà seduto, o nei mobili che avrà toccato. Mobili che avrebbero potuto forse ispirargli dei versi – come è accaduto per «l’ampia credenza scolpita… dalle grandi porte nere», che Rimbaud vide a casa del suo compagno di collegio a Charleville Léon Billuart e che gli suggerì un sonetto ( Le buffet), così almeno sostengono i discendenti di Billuart – o mobili sopra i quali dei versi avrebbe potuto scriverli direttamente (se non si fosse già, come sappiamo, stancato della letteratura) come successe sul tavolo di mogano dal piano rotondo di marmo grigio e dal pesante treppiedi che si trovava nel salotto delle sorelle Isabelle, Henriette e Caroline Gindre, le zie di Georges Izambard, e sul quale Arthur ricopiò quell’insieme di poemi che vengono indicati come i Cahiers de Douai. Il mobile, che rimase di proprietà degli Izambard sino al 1979, veniva chiamato in famiglia semplicemente «la table de Rimbaud».
Roche. Casa di Rimbaud
In casa Gindre, ma stavolta direttamente sul legno della porta d’ingresso, Rimbaud scrisse a matita anche un poemetto. Versi che Izambard non si curò di ricopiare, e che scomparvero poco tempo dopo, presumibilmente sotto l’azione della spazzola, e dell’acqua saponata, di una delle sue zie (sul legno di una panchina di un giardino pubblico a Charleville, Rimbaud avrebbe invece scritto o inciso con un coltellino, su questo particolare la testimonianza di Delahaye benché sia diretta è incerta: «Merde à Dieu» o forse – anche qui il ricordo di Delahaye non è preciso – «Mort à Dieu»).
Paul Boens, l’uomo che
cerca l’“oro di Rimbaud”, ha compiuto gran parte della sua
ricerca e scavato con particolare ostinazione nei pressi di un muro –
che è tutto ciò che rimane della fattoria di Vitalie Rimbaud a
Roche – e attorno a un lavatoio che si trova poco distante. Un
cartello turistico collocato di fianco a questo semplice impianto di
pietra, coperto da un tetto di legno a spiovente, informa il
visitatore che «La frequentazione di questi luoghi avrebbe ispirato
Rimbaud». L’iniziativa di collocare il cartello è stata assunta
qualche tempo fa dal Conseil général des Ardennes, a seguito della
decisione di ricostruire il lavatoio com’era ai tempi di Arthur. Il
Conseil ha anche il merito o, per alcuni, la responsabilità, della
creazione di una Route Rimbaud Verlaine che, sconfinando in
territorio belga, si snoda per circa 200 chilometri da Juniville a
Givet.
Juniville. Casa Museo Verlaine
A Juniville, in fondo a una strada diritta e piuttosto stretta, lungo cui si allineano irregolarmente villette col giardino e case rurali che hanno l’aria di essere state abbandonate per sempre, nel luogo dove una volta sorgeva la locanda Au Lion d’or, c’è oggi il Musée Verlaine. Un tempo c’era la casa in cui Verlaine abitò per qualche tempo (a detta di Mallarmé aveva anche messo a punto un metodo di pronuncia inglese a uso dei francesi basato sull’imitazione del tono gutturale e dell’abitudine che avrebbero gli inglesi a serrare i denti mentre parlano, in una parola sull’imitazione della loro difettosa pronuncia allorché cercano di esprimersi in altre lingue, un esercizio che avrebbe aiutato, secondo Verlaine, i suoi allievi del Collège ad acquisire un corretto accento britannico).
Nelle sale del museo sono esposti alcuni oggetti appartenuti al poeta: un cappello a cilindro, un bastone di bambù, un calamaio, il tavolo su cui Verlaine, guidato, come disse lui stesso, dal «sentimento della propria debolezza», e dopo aver «a lungo errato nella corruzione del tempo», avrebbe scritto le poesie di Sagesse, la riproduzione di un suo ritratto in cui spicca quella sua «testa da scheletro grasso» di cui parla Leconte de Lisle.
La Repubblica – 10 marzo 2018
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