In memoria di Antonio Infantino
Poche settimane fa, il 30 Gennaio, è
scomparso Antonio Infantino e con lui una delle figure più affascinanti,
eccentriche e degne di attenzione del panorama culturale italiano. Antonio era
un artista geniale, provocatore, coltissimo, in largo anticipo sui suoi tempi,
in grado di attraversare gli anni culturalmente più fecondi del Dopoguerra
italiano a testa alta, collaborando con ben più noti protagonisti della scena
artistica, alcuni dei quali hanno sempre onestamente dichiarato la sua
influenza sulle loro opere.
Da Fernanda Pivano (che lo definì
“un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori
della cultura e dello spettacolo di questi ultimi quarant’anni” e che lo invitò
a tenere dei reading con Allen Ginsberg) a Dario Fo (collaborò a Ci
ragiono e canto n.2, col celebre brano Avola composto
assieme a Enzo del Re, quello di Lavorare con lentezza, e all’Arlecchino
della Biennale dell’83), da Fabrizio De André (che si ispirò a lui per Crêuza
de mäe ascoltava come in un rito il suo primo disco con la band prima
di ogni concerto) a Lawrence Ferlinghetti (che pubblicò le sue poesie nella
storica etichetta beat City Lights Book).
E poi gli omaggi più recenti di
artisti completamente diversi come i 99 Posse (che con lui reincisero La Gatta
Mammona, il suo brano forse più famoso), Eugenio Bennato (che lo definì
“il più grande artista della musica di taranta”) e Vinicio Capossela (che lo
volle con lui come maestro del ritmo tarantato nel suo disco Canzoni
della Cupa e nella sua esibizione al Concerto del Primo Maggio del
2016).
Una carriera, quella di Infantino,
partita col fulminante esordio del ’67 (Ho la criniera da leone (perciò
attenzione), piccolo gioiello di avanguardia nonsense in netto anticipo
rispetto agli esperimenti successivi di Rino Gaetano), costellata da paradossi
e svolte pionieristiche (la fondazione a metà degli anni’70, in cui frequentava
il Folkstudio a Roma, del gruppo di musica etnica I Tarantolati di Tricarico),
improvvisi successi (il suo Tara’n Trance, versione techno della
tarantella, superò nelle classifiche statunitensi Britney Spears!), concerti
trionfali (memorabile quello al Carnevale di Venezia del 2000), sconfinamenti
di genere (le apparizioni apprezzatissime alla Biennale nel 2004 e nel 2009) e
importanti riconoscimenti (la laurea honoris causa in Belle Arti
ricevuta dall’Accademia Reale Fiamminga), intrecciando i motivi della ricerca
etnomusicale (I Tarantolati), della canzone di protesta (La
morte bianca) e dell’ispirazione mistico-sciamanica (Follie del
divino spirito santo).
Ma non vorrei ora insistere
sull’aspetto più noto e documentato dell’opera di Infantino, ovvero la ricerca
sulle orme di Ernesto de Martino del patrimonio di musica popolare e cultura
sciamanica collegato alla taranta e alla pizzica, con tre lustri di anticipo
sulle “scoperte” di Peter Gabriel e Paul Simon nei primi anni ’80 sulla World
Music.
Quello che vorrei ricordare è
l’aspetto meno noto del suo lavoro.
Ho avuto l’occasione di conoscerlo a
Matera poco più di un anno fa, grazie ai ragazzi di Ratanalab che
organizzarono un evento memorabile chiamato 3D- Il Paradosso
dell’Identità in cui riunirono personalità del fumetto e
dell’llustrazione di livello internazionale, quali Daniel Zezelij, Giuseppe
Palumbo, Filippo Scozzari e Tanino Liberatore. Antonio era il grande ispiratore
dell’evento, io ebbi il piacere di essere fra i relatori.
Non dimenticherò mai le lunghissime
conversazioni, prima di persona e poi telefoniche, in cui Infantino donava la
sua sapienza nel’ambito dell’architettura sacra (insegnava presso l’Università
di Firenze), sui significati esoterici del barocco, sul cubo di luce da lui
scoperto nei giochi prospettici del Battistero fiorentino, sull’intuizione
dunque che la pietra fondante del Tempio di Gerusalemme fosse proprio un cubo
di luce, fondazione invisibile del tempio interiore e perciò indistruttibile,
alla faccia dell’arroganza di Tito.
Non dimenticherò le discussioni
sulla conoscenza archetipica che non doveva diventare giustificazione per una
politica reazionaria, sulla necessità di strappare gli studi tradizionali
all’appannaggio culturale di destra, sull’iniziazione sufi e sulle connessioni
sacre tra musica e geometria.
Antonio era un indimenticabile
trickster, un menestrello serissimo a suo agio con tuba e foular, come nella
copertina del suo primo disco, come nel vestito tradizionale dei mistici
islamici, che amava indossare negli ultimi anni, una persona dalla logica
inesorabile capace di scatenare il dionisiaco in migliaia di ascoltatori col
mero ausilio di una chitarra e un tamburello.
Se per il sottoscritto, che ci ha
parlato qualche volta, è stato un incontro indimenticabile, posso solo
immaginare l’immenso senso di perdita che avrà travolto le persone che da anni
lo frequentavano come un ineludibile punto di riferimento.
Non possiamo che invitare alla
scoperta del patrimonio di meraviglie musicali che questo vulcano di conoscenza
ci ha lasciato in eredità, prima della sua ultima trasmutazione alchemica.
Articolo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/antonio-infantino/
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