15 marzo 2018

LA DIVINA FOLLIA DI ANTONIO INFANTINO





In memoria di Antonio Infantino

Poche settimane fa, il 30 Gennaio, è scomparso Antonio Infantino e con lui una delle figure più affascinanti, eccentriche e degne di attenzione del panorama culturale italiano. Antonio era un artista geniale, provocatore, coltissimo, in largo anticipo sui suoi tempi, in grado di attraversare gli anni culturalmente più fecondi del Dopoguerra italiano a testa alta, collaborando con ben più noti protagonisti della scena artistica, alcuni dei quali hanno sempre onestamente dichiarato la sua influenza sulle loro opere.


Da Fernanda Pivano (che lo definì “un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori della cultura e dello spettacolo di questi ultimi quarant’anni” e che lo invitò a tenere dei reading con Allen Ginsberg) a Dario Fo (collaborò a Ci ragiono e canto n.2, col celebre brano Avola composto assieme a Enzo del Re, quello di Lavorare con lentezza, e all’Arlecchino della Biennale dell’83), da Fabrizio De André (che si ispirò a lui per Crêuza de mäe ascoltava come in un rito il suo primo disco con la band prima di ogni concerto) a Lawrence Ferlinghetti (che pubblicò le sue poesie nella storica etichetta beat City Lights Book).
E poi gli omaggi più recenti di artisti completamente diversi come i 99 Posse (che con lui reincisero La Gatta Mammona, il suo brano forse più famoso), Eugenio Bennato (che lo definì “il più grande artista della musica di taranta”) e Vinicio Capossela (che lo volle con lui come maestro del ritmo tarantato nel suo disco Canzoni della Cupa e nella sua esibizione al Concerto del Primo Maggio del 2016).



Una carriera, quella di Infantino, partita col fulminante esordio del ’67 (Ho la criniera da leone (perciò attenzione), piccolo gioiello di avanguardia nonsense in netto anticipo rispetto agli esperimenti successivi di Rino Gaetano), costellata da paradossi e svolte pionieristiche (la fondazione a metà degli anni’70, in cui frequentava il Folkstudio a Roma, del gruppo di musica etnica I Tarantolati di Tricarico), improvvisi successi (il suo Tara’n Trance, versione techno della tarantella, superò nelle classifiche statunitensi Britney Spears!), concerti trionfali (memorabile quello al Carnevale di Venezia del 2000), sconfinamenti di genere (le apparizioni apprezzatissime alla Biennale nel 2004 e nel 2009) e importanti riconoscimenti (la laurea honoris causa in Belle Arti ricevuta dall’Accademia Reale Fiamminga), intrecciando i motivi della ricerca etnomusicale (I Tarantolati), della canzone di protesta (La morte bianca) e dell’ispirazione mistico-sciamanica (Follie del divino spirito santo).


Ma non vorrei ora insistere sull’aspetto più noto e documentato dell’opera di Infantino, ovvero la ricerca sulle orme di Ernesto de Martino del patrimonio di musica popolare e cultura sciamanica collegato alla taranta e alla pizzica, con tre lustri di anticipo sulle “scoperte” di Peter Gabriel e Paul Simon nei primi anni ’80 sulla World Music.
Quello che vorrei ricordare è l’aspetto meno noto del suo lavoro.
Ho avuto l’occasione di conoscerlo a Matera poco più di un anno fa, grazie ai ragazzi di Ratanalab che organizzarono un evento memorabile chiamato 3D- Il Paradosso dell’Identità in cui riunirono personalità del fumetto e dell’llustrazione di livello internazionale, quali Daniel Zezelij, Giuseppe Palumbo, Filippo Scozzari e Tanino Liberatore. Antonio era il grande ispiratore dell’evento, io ebbi il piacere di essere fra i relatori.
Non dimenticherò mai le lunghissime conversazioni, prima di persona e poi telefoniche, in cui Infantino donava la sua sapienza nel’ambito dell’architettura sacra (insegnava presso l’Università di Firenze), sui significati esoterici del barocco, sul cubo di luce da lui scoperto nei giochi prospettici del Battistero fiorentino, sull’intuizione dunque che la pietra fondante del Tempio di Gerusalemme fosse proprio un cubo di luce, fondazione invisibile del tempio interiore e perciò indistruttibile, alla faccia dell’arroganza di Tito.
Non dimenticherò le discussioni sulla conoscenza archetipica che non doveva diventare giustificazione per una politica reazionaria, sulla necessità di strappare gli studi tradizionali all’appannaggio culturale di destra, sull’iniziazione sufi e sulle connessioni sacre tra musica e geometria.
Antonio era un indimenticabile trickster, un menestrello serissimo a suo agio con tuba e foular, come nella copertina del suo primo disco, come nel vestito tradizionale dei mistici islamici, che amava indossare negli ultimi anni,  una persona dalla logica inesorabile capace di scatenare il dionisiaco in migliaia di ascoltatori col mero ausilio di una chitarra e un tamburello.
Se per il sottoscritto, che ci ha parlato qualche volta, è stato un incontro indimenticabile, posso solo immaginare l’immenso senso di perdita che avrà travolto le persone che da anni lo frequentavano come un ineludibile punto di riferimento.
Non possiamo che invitare alla scoperta del patrimonio di meraviglie musicali che questo vulcano di conoscenza ci ha lasciato in eredità, prima della sua ultima trasmutazione alchemica. 

Articolo ripreso  da  http://www.minimaetmoralia.it/wp/antonio-infantino/

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