I poeti appartati: Fernando Bandini
Nota di Alida AiraghiFernando Bandini (Vicenza, 1931-2013) poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova, compose versi in italiano, latino e dialetto vicentino, e fu egregio traduttore di classici.
Mondadori giustamente pubblica ora Tutte le poesie, a cura di Rodolfo Zucco, con introduzione di Gian Luigi Beccaria e un saggio biografico di Lorenzo Renzi. Il volume ripropone, nelle sue 700 pagine, non solo le raccolte minori (a partire da Memoria del futuro del 1969 fino a Un altro inverno del 2012), ma anche poesie disperse, una scelta di traduzioni e di testi in latino, con un ricchissimo apparato di note e una dettagliata bibliografia.
Partendo proprio dall’affettuoso contributo di Lorenzo Renzi sulla vita dell’autore, veniamo a sapere della sua nascita – primogenito di quattro figli – in una famiglia modesta, della perdita precoce del padre, degli studi prima in un collegio religioso, quindi all’università patavina, allievo di Gianfranco Folena. Maestro per sedici anni in varie sedi della provincia vicentina, nel 1972 iniziò la carriera universitaria. Non lasciò mai Vicenza, pur vivendo con la città un rapporto ambivalente, «di odio verso l’ambiente provinciale e retrivo», e insieme di affetto e identificazione. Ad Aznèciv (come la chiamava spesso nelle sue composizioni, trasfigurandola ironicamente con un palindromo) frequentava intellettuali famosi come Piovene, Parise e l’editore Neri Pozza, che fu il primo a pubblicarlo nel 1962, animando in loro compagnia circoli culturali e associazioni politiche. Da un’iniziale vicinanza al cattolicesimo progressista, passò con la maturità a un impegno laico e socialista, nel costante richiamo di integrità e resistenza rispetto a una contemporaneità imbarbarita e disumanizzante.
Renzi si sofferma anche sul carattere dell’uomo, semplice e signorile, dotato di humor, rasserenante nel suo eloquio dolcemente segnato dalla cadenza veneta.
La poesia di Fernando Bandini, sebbene non abbia goduto del riconoscimento e del successo pubblico che meritava, sia a causa della sua atipicità e del severo virtuosismo formale, sia per il profilo discreto e riservato della persona, ebbe molti estimatori tra letterati e critici: Zanzotto e Raboni, in primis, e poi i più giovani allievi e seguaci Paolo Lanaro e Rodolfo Zucco. Andrea Zanzotto lo definì: «poeta eccezionale tra pacatezza e meditazione», e Giovanni Raboni commentò con ammirazione la sua «poesia percorsa da una sottile mobilità e inquietudine», e il suo «parlare sommesso e ragionativo». Dello stile di Bandini si occupa specificamente l’introduzione di Gian Luigi Beccaria, che evidenzia «la limpidità della lingua… la sensibilità e la perizia metrica… la piena sostanza sintattica… una medietà e colloquialità simulata» praticate da questo poeta che si muoveva «fuori da scuole o gruppi», consapevole però del valore di tutta la tradizione letteraria italiana, e contiguo agli esiti di Giudici e Raboni, piuttosto che alle dissacrazioni, agli ermetismi e ai tecnicismi delle avanguardie. In relazione ai contenuti della sua scrittura, Beccaria sottolinea l’«appartata / tenerezza», affettuosamente complice, con cui Bandini guardava agli affetti familiari e alla quotidianità domestica, alle presenze animali e vegetali della natura, alla «farragine di tetti» della sua piccola Aznèciv («questa città dove all’alba / riconosco alla voce ogni campana», «questa città / indotta e bigotta»). Un mondo che amava raccontare anche in dialetto ‒ lingua “subliminale”, che scava nei meandri mentali ‒, rievocando e ricostruendo una storia personale e collettiva, piena di sogni e di incubi: «Dove le càtito, ciò! le parole / che ghi n’è sempre manco? / Le cato te le spassaúre / che i descarga de sfròso in meso ai prà».
Dal microcosmo locale, Bandini riusciva poi ad innalzarsi fino alle quote eccelse di un’osservazione stupefatta dell’universo: «oltre i confini dei miei occhi verso / regioni dove non arriverò mai».
La cifra più evidente della sua poesia rimane comunque quella della memoria, della nostalgia per l’infanzia e la giovinezza, soprattutto a partire dalle ultime raccolte di versi, là dove impegno e indignazione civile, pur rimanendo intuibili in una sorta di risentimento ideologico, cedono il passo alla consolazione del ricordo, allo struggimento per il perduto: «Voi dove siete andate, / care voci alloglotte / che una volta sentivo / parlare dalla cavità dei muri?», «O primavera celeste / dei miei quattordici anni, / fughe, proiettili, fiori», «A vent’anni sognavo allori. / Dio, che sciocchezza! / Ebbro del fumo della mia sigaretta / andavo incontro ai galli / che cantavano sulla collina, / vedendomi famoso», «I gatti che ho amato / adesso dove sono, in che tranquillo Eliso / o miagolante Averno?»,
«I miei compagni morti, franati nell’Eterno / sotto le bombe come / ora evocarne il nome, come piangerli?».
Orgogliosamente il poeta difendeva la sua scelta di far rivivere nei versi il tempo trascorso: «Non si tratta di ritrovare il passato né di guardare il passato con lo sguardo degli eruditi o con l’atteggiamento dei conservatori. Ma solo di ricordare che il futuro è anche memoria».
Vorrei infine accennare, per quello che può essere consentito nell’ambito di una semplice recensione, all’attività di traduttore e di autore in latino di Bandini, che così si esprimeva al riguardo: «Dialetto e latino sono lingue-rifugio, camminamenti di talpa scavati sotto la terra per vedere le parole dalla parte della radice». Riferendosi alla prima delle due specifiche competenze, con fierezza ribadiva: «Tradurre una poesia è scrivere una poesia». Si cimentò con i testi di Virgilio, Orazio, Arnaut Daniel, Rimbaud e Baudelaire, arrivando addirittura a trasporre in latino alcune composizioni di Montale («Anguilla borealium / syrenen marium //… quidni credideris paene sororculam?»).
Relativamente alla sua straordinaria capacità di utilizzare una lingua morta per esprimere contenuti e sentimenti del tutto moderni, affermava che ricorrendo ad essa intendeva recuperare «sensi perduti, la capacità di evocare una qualche immagine paradigmatica dell’uomo nel frammentato panorama della poesia d’oggi»: pertanto rigettava con fastidio l’accusa di sentimentalismo e di un conservatorismo “pascolizzante”. Se tali pubblicazioni si segnalarono a livello internazionale per quantità e qualità a partire dagli anni ’70, fu soprattutto la produzione in «un limpido, saldo italiano» quella a cui demandava l’interesse e la volontà di essere ricordato come poeta, convinto che movente fondamentale della sua scrittura dovesse essere la «volontà di dire», la capacità di comunicare con nitida eleganza, come giustamente sottolinea Rodolfo Zucco, attento e appassionato curatore di questo volume.
Sette poesie
di Fernando Bandini
Ci vorranno giorni
Ci vorranno giorni e giorni per lavare questa colpa
che non è colpa né mia né tua
ma di chi diede gli ordini e di chi vi obbedì,
per tutto il fascismo che ci brulica sotto
come un formicaio nascosto dall’erba:
fascismo nell’occhio della quaglia tremante
e in quello del ragazzo che attraversa il grano.
Da Memoria del futuro, Mondadori 1969
Nessuna parola
Così abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la fa.
Tutto è silenzio dopo lo schianto dei rami,
nessuna parola aveva colto nel segno.
Da La mantide e la città, Mondadori 1979
***
Amnesia
Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia.
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.
E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.
Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?
Da La mantide e la città, Mondadori 1979
Desso i me spoia nuo
Desso i me spoia nuo.
I pensa
che la roba che i serca mi la sconda
soto i vestiti.
I dise che i me cavarà
le onge se no parlo,
i me mola na svèntola.
Desso i me verze
i denti co na méssola.
Quelo che i serca i pensa che lo sconda
soto la lingua.
No i sa che la xe solo
roba che se se insogna.
(Adesso mi spogliano nudo Adesso mi spogliano nudo. / Pensano / che la cosa che cercano io la nasconda / sotto i vestiti. // Dicono che mi caveranno / le unghie se non parlo, / mi mollano un ceffone. // Adesso mi aprono / i denti con una falce. / Quello che cercano pensano che io lo nasconda / sotto la lingua. // Non sanno che si tratta soltanto / di cose che si vedono in sogno).
Da Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994
Meridiano di Greenwich
Mi sembravi quasi un’estranea
Mentre eravamo tra la folla
A Piccadilly o nella sotterranea.
Ma qui nei recessi del bosco
di Greenwich dove il sole è una fioca corolla
dai baci, amore mio, ti riconosco.
Da Meridiano di Greenwich, Garzanti 1998
Voci serali
Adesso il mondo non è più remoto.
Sta tutto addosso a noi,
tutto pigiato nelle
stanze sgomente delle nostre case.
Ma ci sono giù in strada dei bambini
che si gridano «ciao».
Una volta, due volte – mentre l’uno
dall’altro si allontana – tre volte, quattro volte,
senza voltarsi indietro.
E le voci si librano nell’aria
finché l’azzurro della sera è solo
loro esclusiva eco.
Cinque volte, sei volte, sette volte.
Forse perché si accordano
ai battiti del tempo, ne scandiscono
la diastole e la sistole.
O forse il loro modo di contare
somiglia un poco al mio
quando conto le sillabe dei versi
stoltamente sperando che una grazia celeste
mi rimanga impigliata tra le dita.
Da Dietro i cancelli, Garzanti 2007
Ricevendo da Copenaghen nel mio ottantesimo compleanno
una cartolina di auguri raffigurante un paesaggio polare
Si vedono i pinguini sulla banchisa dell’Oceano Artico
che guardano lontano schierati lungo il lido
a centinaia, in piedi, presumo senza un grido,
in quello sconfinato bianco. Ma dove spazia
il loro vacuo sguardo non c’è più mondo ormai,
solo disabitate isole che hanno il nome
di sovrani d’imperi già tramontati come
Zemlya Frantsa Iosepha.
Io t’invoco, Signore, dal mio più mite Sud.
Non sottrarmi, ti prego, le voci della terra,
il chiassoso risveglio dei tuoi uccellini.
Quanto c’era di meglio l’ho già visto quaggiù,
mi annoierei, io temo, nel tuo paradiso.
Da Un altro inverno, Il Girasole 2012
TESTI RIPRESI DA https://www.nazioneindiana.com/
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