Da Buonarroti a
Merisi: così cambio il mondo della pittura
Tomaso Montanari
Due Michelangelo per
entrare nella modernità
È il 29 settembre 1571:
a Milano nasce Michelangelo Merisi, che sarà detto il Caravaggio.
Sono passati poco più di
sette anni dalla morte dell'altro Michelangelo: il divino Buonarroti,
spentosi, quasi novantenne, a Roma il 18 febbraio 1564.
Le loro vite non si
sovrappongono, e il piccolo tempo che le separa ha un profondo valore
simbolico. Per molti versi questi due mondi non si toccano, quasi che
il primo fosse il culmine e la fine di un'epoca, e l'altro l'avvio di
un tempo nuovo: se da ragazzo il Buonarroti studia le opere di
Giotto, che sente come una radice remota ma ancora viva, il Merisi
proietta la sua ombra direttamente su Courbet, Manet e
l'Impressionismo.
E c'è un rapporto quasi
speculare tra il tormentato percorso di Michelangelo, giovane nella
solare Firenze neopagana del suo mentore Lorenzo il Magnifico e
vecchio nella Roma percorsa da Ignazio di Loyola e dominata da un
Papa inquisitore, e l'affrancamento di Caravaggio, che cresce nel
clima severo e austero della Lombardia dei Borromeo per poi fiorire
nel disincanto morale e nel fermento sensuale e sensoriale della Roma
di Francesco Maria Del Monte, Giovan Battista Marino e Galileo.
Eppure c'è un filo, profondo e decisivo, che lega i due
Michelangelo: e quel filo si chiama libertà.
Leggendo l'architettura
della Sagrestia Nuova e della Biblioteca Laurenziana, Giorgio Vasari
scrisse che vi si era consumata una rottura senza ritorno, perché il
Buonarroti aveva avuto il coraggio e la forza di affrancare gli
artisti dalla fedeltà alla tradizione: «la quale licenza ha dato
grande animo a questi che hanno veduto il far suo di mettersi a
imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca, più
tosto che a ragione o regola, a' loro ornamenti. Onde gli artefici
gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le
catene delle cose, che per via d'una strada comune eglino di continuo
operavano».
In questa liberazione sta
la felicità e la tragedia delle generazioni che seguono Michelangelo
e precedono Caravaggio: come non perdersi in questo cielo senza
confini se non si riusciva a volare fino alle altezze irraggiungibili
di chi l'aveva conquistato? E come si poteva conciliare questa fame
insaziabile di libertà artistica con una società plasmata da un
potere che, sempre di più, vedeva nella libertà di coscienza il
principale nemico?
Caravaggio è la
soluzione a questa doppia, angosciante domanda. Egli riesce a
prendersi tutta intera la libertà conquistata dall'altro
Michelangelo: perché la traspone su un terreno radicalmente diverso,
e perché di questa libertà è disposto a pagare interamente il
prezzo. Se Michelangelo poteva permettersi di non ascoltare i papi
perché guardava più in alto e parlava direttamente con Dio,
Caravaggio li ignora perché guarda infinitamente più in basso e,
come Diogene, cerca l'Uomo con la lanterna di un nuova luce. La
libertà di Michelangelo si era risolta nell'adozione di un registro
eroico e sublime mentre la libertà di Caravaggio ruota intorno ad
un'ossessione opposta: quella del naturale, di un continuo corpo a
corpo con i singoli individui in cui si imbatteva.
Se non esiste un graduale
trapasso tra manierismo e naturalismo, perché a separarli fu uno
strappo violento, è altrettanto vero che il potente e lunghissimo
lancio della rivoluzione caravaggesca fu – per così dire – reso
possibile da un elastico che veniva tirato e messo in tensione, con
fatica e dolore, da decenni. Come le due facce di Giano, dio delle
soglie e delle porte, i due Michelangelo non si guardano, ma non
possono essere divisi: ed è proprio varcando la soglia che li separa
e al contempo li unisce che si entra nella modernità.
La repubblica – 10
febbraio 2018
Nessun commento:
Posta un commento