09 marzo 2018

DA BUONARROTI A CARAVAGGIO




Da Buonarroti a Merisi: così cambio il mondo della pittura

Tomaso Montanari

Due Michelangelo per entrare nella modernità

È il 29 settembre 1571: a Milano nasce Michelangelo Merisi, che sarà detto il Caravaggio.
Sono passati poco più di sette anni dalla morte dell'altro Michelangelo: il divino Buonarroti, spentosi, quasi novantenne, a Roma il 18 febbraio 1564.

Le loro vite non si sovrappongono, e il piccolo tempo che le separa ha un profondo valore simbolico. Per molti versi questi due mondi non si toccano, quasi che il primo fosse il culmine e la fine di un'epoca, e l'altro l'avvio di un tempo nuovo: se da ragazzo il Buonarroti studia le opere di Giotto, che sente come una radice remota ma ancora viva, il Merisi proietta la sua ombra direttamente su Courbet, Manet e l'Impressionismo.

E c'è un rapporto quasi speculare tra il tormentato percorso di Michelangelo, giovane nella solare Firenze neopagana del suo mentore Lorenzo il Magnifico e vecchio nella Roma percorsa da Ignazio di Loyola e dominata da un Papa inquisitore, e l'affrancamento di Caravaggio, che cresce nel clima severo e austero della Lombardia dei Borromeo per poi fiorire nel disincanto morale e nel fermento sensuale e sensoriale della Roma di Francesco Maria Del Monte, Giovan Battista Marino e Galileo. Eppure c'è un filo, profondo e decisivo, che lega i due Michelangelo: e quel filo si chiama libertà.
Leggendo l'architettura della Sagrestia Nuova e della Biblioteca Laurenziana, Giorgio Vasari scrisse che vi si era consumata una rottura senza ritorno, perché il Buonarroti aveva avuto il coraggio e la forza di affrancare gli artisti dalla fedeltà alla tradizione: «la quale licenza ha dato grande animo a questi che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca, più tosto che a ragione o regola, a' loro ornamenti. Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d'una strada comune eglino di continuo operavano».
In questa liberazione sta la felicità e la tragedia delle generazioni che seguono Michelangelo e precedono Caravaggio: come non perdersi in questo cielo senza confini se non si riusciva a volare fino alle altezze irraggiungibili di chi l'aveva conquistato? E come si poteva conciliare questa fame insaziabile di libertà artistica con una società plasmata da un potere che, sempre di più, vedeva nella libertà di coscienza il principale nemico?

Caravaggio è la soluzione a questa doppia, angosciante domanda. Egli riesce a prendersi tutta intera la libertà conquistata dall'altro Michelangelo: perché la traspone su un terreno radicalmente diverso, e perché di questa libertà è disposto a pagare interamente il prezzo. Se Michelangelo poteva permettersi di non ascoltare i papi perché guardava più in alto e parlava direttamente con Dio, Caravaggio li ignora perché guarda infinitamente più in basso e, come Diogene, cerca l'Uomo con la lanterna di un nuova luce. La libertà di Michelangelo si era risolta nell'adozione di un registro eroico e sublime mentre la libertà di Caravaggio ruota intorno ad un'ossessione opposta: quella del naturale, di un continuo corpo a corpo con i singoli individui in cui si imbatteva.

Se non esiste un graduale trapasso tra manierismo e naturalismo, perché a separarli fu uno strappo violento, è altrettanto vero che il potente e lunghissimo lancio della rivoluzione caravaggesca fu – per così dire – reso possibile da un elastico che veniva tirato e messo in tensione, con fatica e dolore, da decenni. Come le due facce di Giano, dio delle soglie e delle porte, i due Michelangelo non si guardano, ma non possono essere divisi: ed è proprio varcando la soglia che li separa e al contempo li unisce che si entra nella modernità.

La repubblica – 10 febbraio 2018

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