Kafka, questo ebreo di Praga
Franco Fortini
Kafka è morto nel 1924.
Potrebb’esser morto l’anno passato, a Auschwitz, a Belsen, questo ebreo di
Praga. Egli ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto: delle città che
crollano sotto i «colpi successivi di un pugno gigante», degli uomini degradati
fino ad esser gettati via nelle spazzature, delle macchine per le torture,
delle condanne senz’appello, eseguite di nottetempo.
Ma questa sua visione, non aveva
avuto bisogno di nessuna riprova esterna. Kafka ha descritto per sempre,
viaggiando entro le proprie solitudini, una atroce provincia umana. Per questo
la sua opera domina questi anni. Per questo vi sono dei critici che vedono in
lui il più grande avvenimento spirituale dell’ultimo trentennio. Una
definizione (superficiale) sarebbe facile; è facile avvicinarlo
all’irrazionalismo europeo, che muove da Bergson fino alle ultime filosofie
dell’angoscia e dell’esistenza.
Ma c’è in Kafka sempre qualche cosa
di più, di irriducibile, che consiste nella identità che egli ha saputo
stabilire fra il proprio destino e quello delle sue creature, fra il fatto e il
simbolo. Così il suo mondo, che apparentemente sembra filare nella logica delle
sue assurde premesse, è in realtà un vertiginoso giuoco di specchi. In esso
risuonano le sue parole-chiave: la Paura, l’Angoscia, il Rischio, l’Attesa, la
Frustrazione, la Colpa; in esso si instaurano i suoi terribili miti: la
costruzione del rifugio (nella novella omonima) e quella delle muraglie
babiloniche; la degradazione corporea, la Legge, il Tribunale, la Condanna.
Conoscevamo Il processo, questo
terribile libro di una condanna senz’appello, La colonia penale, la Tana, la
Metamorfosi e i racconti della Muraglia cinese e, prima ancora del Castello,
(che è forse la sua opera più potente), ci giunge questo luminoso mistero che è
America, tradotto da Alberto Spaini, uscito da Einaudi. È apparentemente, il
racconto non finito delle avventure di un adolescente europeo in America;
svolgimento fatato di eventi intorno ad un personaggio che rimane quasi
identico a se stesso, come in tanti classici della narrazione dal Chisciotte a
Eulenspiegel, da Candido al Meister. Carlo Rossmann, a differenza di tanti
altri personaggi di Kafka, ha un nome ed un cognome; si direbbe quasi che l’autore
abbia voluto confortarsi a credere nella realtà di quello che racconta. In
questo come in altri libri di Kafka, la condizione iniziale, il tema
fondamentale, che qui è la caduta di Carlo Rossmann in America, la sua nascita
al mondo, si riproduce all’interno di ogni capitolo ed episodio, come sfere
cinesi: così, sfuggenti, imprecise, eppure terribilmente evidenti, le persone
che avvicinano Carlo sono ora dèi ora dèmoni di strani microcosmi (la nave, la
villa, l’albergo, la casa di Brunelda). In ognuno di questi imperano una legge
e un sentimento di colpevolezza e di fatalità, assieme a paradossali
possibilità di evasione e di salvezza; e quei personaggi, che in generale
paiono agire per mandato di altri, sono in verità dei funzionari di una mostruosa
trappola giudiziaria, come nel romanzo Il processo. Ma il prodigioso di questo
narratore è che, costruendo su due o tre temi fondamentali e riproducendoli,
allargandoli, rovesciandoli come in una architettura musicale, finisce col dare
un senso rigorosissimo, fisico, di verità, secondo una tradizione tutta
germanica e gotica. Si guardi ad esempio il terzo capitolo: Carlo Rossmann è
stato invitato da un amico di suo zio a passare la notte in una villa presso
Nuova York ed ha ottenuto il permesso non senza qualche difficoltà. Carlo
vorrebbe tornarsene a casa la sera stessa. Ma in quella casa c’è un altro amico
dello zio, il signor Green, il quale lo fa aspettare fino alla mezzanotte, per
consegnarli una lettera nella quale lo zio (simbolicamente, la divinità) gli
dichiara di non volergli più dare ospitalità. Sui motivi fondamentali
dell’ansia immotivata, della condanna gratuita, della paura e della
colpevolezza (paura della casa non finita, colpa di essere in ritardo ecc.) se
ne innestano innumerevoli altri, dinnanzi ai quali il lettore non ha soltanto,
come scrive Spaini, l’impressione che Kafka batta sui giunti e i piani della
sua costruzione, per dimostrarcene la solidità, facendo cosi pensare
continuamente ai più terribili trabocchetti; ma proprio lo stupore di chi
comprende come ogni cosa, persona o avvenimento abbiano più di un significato,
anzi tutta una serie di significati. Non basta, assolutamente, per Kafka,
riferirsi alla logica dei sogni; né chiedergli quello che è fuori dei suoi
interessi. Spirito religioso nel senso sacrale della parola, Kafka non chiede,
e non ripete, ossessionante, che poche, vitali parole: la Salvezza, la
Condanna, la Colpa, la Grazia. E non c’è favola sua, nemmeno questa, che pare
più concedere al nostro mondo, la quale non scavi quelle parole e quelle
domande. La tana dell’animale, il cortile della casa paterna nella pagina
tremenda che traduciamo, la città di Babele, il villaggio del Castello, la
Praga del Processo e questa America non sono che immagini dello spazio e del tempo
umano; le vicende e le azioni non ripetono che il dramma eterno del quale
Kafka, nel suo diario, ci ha lasciato schemi sfolgoranti. Per esprimere tutto
questo egli ha realizzato il miracolo di lasciar crescere il sentimento solo
fino al punto nel quale il ragionamento non si distingue più dall’immagine; in
quel punto ha applicato, come un sismografo, la propria penna, risolvendosi
tutto, – dono rarissimo fra i diaristi, – in una disperata autobiografia;
cessando di scrivere là dove cessava di vivere o dove sole sarebbero state,
staccate l’una dall’altra, la ragione e la fantasia. È chiaro che per domare e
costringere alla scrittura questa enorme forza d’immaginazione Kafka dovesse
adottare un falsetto, nella sua scrittura; e il suo falsetto è la prosa cronistica
o quella del romanziere di appendice. Su quel fondo di convenzioni verbali e
psicologiche cresce la foresta delle sue invenzioni; e non diversamente hanno
operato alcuni pittori surrealisti. Ma, sotto la tensione del sentimento, quel
falsetto si rompe, finisce col non essere che un ricordo, ogni frase ha il suo
ritmo interno, ed ogni pagina. Kafka sapeva che la retorica minaccia solo i
deboli; così quel pericolo non esiste per lui. C’è una calma ed una giustezza
nelle sue pagine che, a noi italiani, possono forse ricordare il leopardiano
Elogio degli uccelli, o il Cantico del gallo silvestre. E ci piace ricordare
queste, da una lettera di Kafka perché proprio come in Leopardi vibra in esse
una altissima forza morale: Io combatto. Nessuno lo sa. Qualcuno lo sospetta, è
inevitabile, ma nessuno lo sa. Compio i miei doveri quotidiani; mi si può
rimproverare un po’ di distrazione ma non molto. Ben inteso, ogni uomo
combatte, ma io combatto più di ogni altro. La maggior parte combatte come
dormendo, come quando si agita la mano in sogno per scacciare un apparizione.
Ma io sono agli avamposti e combatto di mia volontà fino a sfinire
completamente le mie forze… Perché sono uscito per combattere agli avamposti?…
Perché sono ora inscritto sulla prima lista del nemico? Non lo so. Un’altra
forma di vita non mi sembrava valere la pena di vivere. Uomini di questa
specie, la storia della guerra li chiama nature di soldati. Eppure non è così,
io non spero la vittoria e non amo il combattimento per se stesso. Io lo amo solo
perché è l’unica cosa che ho da compiere. E in questa sua qualità il
combattimento mi procura molta più gioia di quanta non sia realmente capace di
assaporare, più di quanta io possa esalare e forse non è il combattimento, ma
questa gioia che mi farà perire.
Kafka non è né romanziere né poeta
che possa divenire popolare. Quel che passa in proverbio di lui è lo schema
letterario o la barzelletta. Kafka è un maestro di verità e di vita, di quelli
che non consolano, ma incitano come spine nella carne. Uomini di questa specie
la storia della guerra li chiama nature di soldati: la storia della guerra cioè
la storia dell’uomo, che è milizia, secondo la parola cristiana. Kafka combatte
tuttora per noi, nel buio, contro i draghi, come fanno i santi. E pare di un
antico mistico umbro o fiammingo questo passo delle sue meditazioni: Non è
necessario che tu esca di casa. Resta seduto al tuo tavolo e ascolta. Non
ascoltar neppure, attendi soltanto. Non attendere neppure, resta in silenzio e
solitudine. Il mondo sta per offrirsi a te per essere smascherato, non potrà
rifiutarsi. Estasiato, si torcerà intorno a te in larghi cerchi.
«La Lettura», II, 3, 17 gennaio 1946
in https://francofortini.wordpress.com/
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