24 marzo 2018

Goffredo FOFI, Italia perduta



Distinguere i buoni-veri dai buoni-finti è, oggi come oggi, molto difficile. Più facile è distinguere tra i libri buoni e quelli che toccano i problemi fondamentali con la superficialità dei piccoli profittatori opportunisti. Il dovere di chi segue la produzione libraria e in generale artistica e culturale è quello di segnalare il meglio, soprattutto tra i saggi che parlano dell’Italia e dei suoi problemi, e per fortuna ce ne sono diversi che non sono né pretestuosi né ruffiani, perché nonostante tutto l’università continua ad avere, in alcune sacche e in alcuni anfratti, molte teste pensanti e riesce ancora a produrre molti giovani di talento che non fuggono dall’Italia appena possibile (ma se lo fanno, hanno tutte le ragioni per farlo) e che sono interessati a una conoscenza attiva e propositiva, a confrontarsi con la realtà. Lo fa l’università, non lo fanno i media, quasi sempre micidiali.
Dei tanti libri inutili che narrano le pene dell’Italia odierna l’elenco di quelli brutti sarebbe interminabile, ma è piuttosto lungo anche quello dei buoni, e uno in particolare dovrebbe sollecitare l’attenzione dei lettori, Italia sperduta di Carlo Donolo (Donzelli). Donolo è un sociologo serio, seriamente preoccupato di capire l’Italia, le ragioni del nostro declino e anche i pochi motivi di speranza, l’indicazione pur generica di qualche strada possibile, di qualche accidentato sentiero per uscirne. Il suo è anzitutto un libro di analisi e constatazione e non indulge ai toni lamentosi o altisonanti dei più, e cioè alla retorica. Se si vuole uscire dalla melma in cui ci siamo ridotti e abituati a vivere, bisogna capire come e perché ci siamo finiti. Con parole certamente diverse da quelle di Donolo, ricavo dalla sua analisi: la grande miseria intellettuale e morale dei ceti dirigenti (anche di sinistra) e il risultato della loro incapacità o delle loro truffe: “illegalità e corruzione, criminalità organizzata, inefficienza delle istituzioni, crisi fiscale, bassa produttività, disoccupazione”; il populismo che trionfa e che ha la sua base in una piccola borghesia amorale e aggressiva, familista e lobbista, stupida e frastornata, che è divenuta la forza maggiore e decisiva nel paese, sostanzialmente amorale essa cerca di mantenere i suoi standard anche in una situazione di sviluppo bloccato e si lascia incantare e manipolare dalla sua parte più ricca e più cinica; un sistema elettorale decisamente antidemocratico; l’incertezza e lo sconcerto dei più giovani di fronte a modelli piuttosto ignobili (e che, comunque, anche quando sembrano migliori, non hanno la vista lunga e le gambe solide, la mente aperta e il cuore al posto giusto, e non sembrano tenere in alcun conto valori come la sincerità e l’interesse pubblico).
La nostra classe dirigente, insiste Donolo, è “socio-culturalmente omogeneizzata per stile di vita e ambizioni, abituata a un tenore di vita stravagantemente più elevato di quello della popolazione lavoratrice, auto-referenziale nel lessico, nei gesti, nelle condotte, e occupata in maniera preponderante dalle questioni interne. Poca capacità di rispondere alle esigenze sociali e poco senso di responsabilità, poca cultura europea, poca fantasia” e una “costante dipendenza da cattive abitudini”. E a sinistra? “Un riformismo che si potrebbe dire mai nato, fragile, poco convinto, attratto dal moderatismo, poco incline a dire la verità”. Il risultato è una società senza conoscenza e senza morale, un’identità già fragile ma mai così tanto, per non parlare della perdita di senso della politica che è diventata casta e mestiere, mai vocazione alta alla responsabilità verso la “res publica”. Eppure le potenzialità ci sarebbero, ma anche Donolo è costretto a constatare senza mezzi termini sia la presenza di una gran quantità di “buoni” che la loro debolezza e l’incapacità di collegarsi e farsi politica.
Queste forze ci sono “in ogni settore e in ogni territorio: ma sono frammentarie, divise, spesso isolate, e non hanno ancora elaborato un lessico comune, per quanto sotto molti aspetti ne esistano ormai tutte le precondizioni. Molti dei migliori italiani tacciono: per la sorpresa dell’essere andati così avanti nel degrado, per lo choc di constatare la fragilità degli anticorpi, per la sofferenza della solitudine e della mancanza di prospettive”. La nota finale è decisamente malinconica e, per quel che mi riguarda, condivisibile: “Quelli della mia generazione che, come si dice, hanno fatto il ’68, chiudono un ciclo di vita tra rassegnazione, indignazione e frustrazione, con il rimorso di lasciare ai giovani una società intimamente corrosa e un patrimonio di beni comuni pericolante”.

Goffredo Fofi, “l’Unità” 27 marzo 2011

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