10 marzo 2018

UNA MOSTRA DI J. MIRO' A PADOVA



Padova dedica una grande retrospettiva all’artista catalano, a Palazzo Zabarella. Ci sono i dipinti, ma anche i collage, le sculture e gli arazzi di un maestro che creò un universo unico fatto di colore.

Chiara Gatti

Le magnifiche ossessioni di Joan Miró

Aveva solo sette anni Joan Miró (1893-1983) quando, in una piccola scuola elementare di Barcellona, a due passi dall’antico e centralissimo Barrio Gotico, scoprì la passione per le lezioni di disegno. «Queste lezioni erano per me come una cerimonia religiosa – ricorderà più tardi, nei suoi diari – mi lavavo le mani con cura prima di toccare la carta e le matite; gli strumenti da disegno diventavano oggetti sacri e lavoravo come se eseguissi un rito liturgico».

Già da bambino era preciso e devoto come un miniatore. Riponeva con attenzione ogni colore nel cassetto del suo banco di legno, accanto a ritagli di carta, pezzetti di stoffa e ninnoli raccolti per la strada. Forse già immaginava di costruire, un giorno, assemblaggi di materie diverse, sculture o teatrini popolati di figure visionarie. I denti di un rastrello erano la corona di un re di latta. Matasse di corda rubate sulla banchina del porto sarebbero cresciute come chiome di personaggi circensi.

Feltri cuciti su sacchi di iuta preannunciavano stemmi araldici dai toni accesi. La sua natura di artista in grado di esprimersi con qualsiasi mezzo non tardò a manifestarsi. Sebbene il padre Miquel, orafo e orologiaio, lo volesse contabile in una drogheria della città, la vocazione per l’arte fu più forte di ogni imposizione.

Sullo sfondo di una Barcellona modernista e cosmopolita di inizio Novecento, dovette iscriversi a un corso di commercio, ma frequentò contemporaneamente l’Accademia – dove, qualche anno prima, era passato anche Picasso – e quei materiali misti di umori quotidiani uscirono presto dai cassetti.
Si intitola, non a caso, Joan Miró. Materialità e metamorfosi (fino al 22 luglio) la mostra che inaugura oggi al Palazzo Zabarella di Padova e indaga proprio l’attrazione del grande artista catalano verso un universo politecnico e il valore espressivo, inedito e sperimentale, di pergamene e cartoni, vetri, sugheri e catrami, pelli di pecora e fili di lana, carte vetrate o fibre di tessuto, trasformati in elementi plastici di un nuovo lessico imprevisto, ironico, eterogeneo.

Promossa dalla Fondazione Bano insieme al Comune di Padova, l’esposizione è curata da Robert Lubar Messeri e allinea oltre 85 opere, fra quadri, disegni, sculture, collage e arazzi, usciti da una raccolta di proprietà dello Stato portoghese che l’ha concessa in prestito per quest’unica tappa italiana in attesa della collocazione permanente al Museu de Arte Contemporânea di Porto. «Da tempo Palazzo Zabarella punta su mostre di autori internazionali – spiega Federico Bano, presidente della Fondazione – proposti secondo chiavi di lettura meno consuete. Per esplorare e raccontare aspetti poco conosciuti del loro lavoro».
Ecco allora l’altro Miró. Il collezionista di resti. L’anti-pittore dei suoi “anti-dipinti”. Che preferiva residui di scarto alla pittura canonica. La magnifica ossessione del ricordo nascosto in un brandello di panno macero o nei sassolini raccolti sui sentieri di Tarragona, durante le vacanze estive nell’amata casa di Mont-roig. È un Miró curioso e assorto, un po’ distante dal famoso surrealista stimato da Breton, dal flâneur romantico passato dalle ramblas ai caffè concerto di Montmartre. Il primo viaggio nella Ville Lumière del 1920 nutrì però la sua ansia di sperimentazione.

L’incontro con Tristan Tzara, il padre del dadaismo, fu come un lampo. La libertà di comporre, assemblare, costruire senza regole, seguendo l’istinto, il potere magnetico di ogni oggetto trovato, di ogni materia alternativa. Era inebriante.

«Il confronto con lo strumento e con la materia produce uno shock che è cosa viva!» ripeteva davanti ai suoi telai distorti, le tele traforate, i supporti di rame, alluminio o cellotex, il materiale industriale che, nella seconda metà del secolo, sarebbe diventato uno degli strumenti preferiti di Alberto Burri.
La pelle ruvida di questo agglomerato di fibre chimiche spicca in un capolavoro come Il canto degli uccelli all’autunno, dove la fisicità della materia è stemperata dalla leggerezza di una pittura limpida. La carta spalmata di catrame e sabbia nelle opere degli anni Trenta precede la scoperta della caseina usata per illuminare gli sfondi opachi della masonite. Il suo biografo Jacques Dupin la descrisse come una superficie «a metà strada tra terracotta e paglia pressata, appiattita e leggermente carbonizzata». Nelle mani di qualsiasi altro artista sarebbe stato un supporto sordo. Miró lo accese di segni in guerriglia, bagliori nella notte che, realizzati all’alba della guerra civile spagnola, alludevano ai drammi dello scontro, alle ombre cupe dei regimi totalitari.

Dividendosi fra la ceramica, le xilografie a colori e le sculture polimateriche, si avvicinò infine anche all’arte tessile; con l’aiuto di Josep Royo imbastì i celebri Sobreteixims, bizzarri arazzi tridimensionali, un ibrido di scultura, collage e pittura, con cascami di matasse e i grandi occhi delle sue creature notturne cuciti con bottoni lucidi di osso.

Il tema delle metamorfosi che lo ha accompagnato per tutta l’esistenza nei ritratti immaginari, nei personaggi onirici, nelle carrucole navali trasformate in totem primitivi, aleggia anche sullo sfondo di un omaggio ai classici italiani. La Fornarina di Raffaello ondeggia, nelle sue fantasie cosmiche, simile a un corpo molle nella sera, con un’iride gigantesca, luminosa come una stella polare.

Prévert, amico per sempre, dedicò a lui un’immagine siderale: «La lavandaia vedova, che chiamano notte, sorge senza rumore e, nel blu del suo bucato, l’astro di Miró, la stella tardiva, splende».

La Repubblica – 9 marzo 2018

Nessun commento:

Posta un commento