Ritorna
l'antisemitismo nell'Est Europa. Riprendiamo la denuncia di Adam
Michnik, storico, esponente del dissenso polacco, oggi coscienza
critica del suo paese retto da un governo islamofobo e antisemita.
Adam Michnik
L’antisemitismo e la storia che si ripete
Cinquant’anni fa nessuno si aspettava che qui in Polonia un’intera generazione dicesse no al partito comunista. Ma quel potere reagí violando le sue stesse leggi e distrusse la cultura nazionale con la purga antisemita. Sentimmo sulla nostra pelle che non potevi nemmeno manifestare contro violazioni della legge da parte delle autorità. Io organizzai dimostrazioni e finii in prigione per un anno e mezzo. La campagna antisemita mi colpí cosí. Mi sbatterono in prigione quindi non fui espulso dalla Polonia. Sono uno storico e studiai quanto era successo con quella purga. Lessi i giornali di quel marzo ‘68 e la stampa cecoslovacca dello stesso periodo, i mesi della Primavera. Fu illuminante scoprire linguaggi cosí diversi in due paesi vicini. I cecoslovacchi stavano assaggiando la libertà, noi con la purga piombammo nel buio del fango e dell’abominazione. Eppure non lasciai la Polonia: sarebbe stato un tradimento ingrato. Mi dissi che dovevo restare fino a vedere la fine del regime comunista. E ci riuscimmo.
Oggi non sento parlare nessuno di quelli che allora ci insultavano come cattivi polacchi o falsi polacchi. Sono scomparsi. Mezzo secolo dopo spero che finirà cosí anche con chi oggi usa linguaggi antisemiti. Allora era un linguaggio disgustoso, ma allora nessuno parlava dei campi né usava il termine “feccia” come invece si fa oggi.
Stereotipi stabili si sono radicati. La situazione ora è completamente differente, eppure viviamo la mutazione della purga del marzo ‘68. Certo, in un’altra situazione politica.Non c’è la dittatura di un partito unico, ma alcuni stereotipi mentali sono divenuti molto forti. L’ultimo scandalo sulla legge sulla Shoah mostra che noi allora lottavamo per il meglio e invece ancora oggi come allora l’abitudine si ripete. Non era intenzione del partito di governo attuale, del presidente o del leader della maggioranza Jaroslaw Kaczynski, far esplodere un simile conflitto con comunità ebraiche, Usa, Israele. Eppure è successo. Ora, comunque, hanno scatenato lo scandalo antisemita 50 anni dopo, e non possono fermarlo altrimenti il loro partito si spaccherebbe. Sono diventati ostaggi del loro elettorato radicalmente antisemita e Kaczynski non sa ammettere di potersi sbagliare.
Sfilata neofascista a Varsavia
Oggi, quando il
premier Morawiecki dice che i polacchi non vanno biasimati per la
purga del ‘68 ma solo i comunisti, egli mente. È un modo di
pensare sovietico, come dire che il bolscevismo non era russo ma solo
ebreo.
Recentemente sono stato a Budapest, mi hanno chiesto chi sia peggio, se Orbán o Kaczynski. Ho risposto che non lo so, ma che penso che tra i due il piú stupido non sia Orbán. Non sarebbe mai capace di gettare il paese in una simile crisi come quella aperta dalla legge sulla Shoah 50 anni dopo la purga antisemita dei comunisti.
Il presidente Duda e il premier Morawiecki hanno espresso simpatia per me e per le altre vittime della purga e della repressione del marzo ‘68. Alla tv polacca mi hanno chiesto cosa ne penso. Ho risposto: non basta lodare qualcuno che ha avuto un ruolo ieri, bisogna augurarsi che presidente e premier abbiano il coraggio di opporsi a Kaczynski come 50 anni fa noi repressi, perseguitati, alcuni di noi espulsi, avemmo il coraggio di opporci al regime di Gomulka.
La Repubblica – 9 marzo
2018
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August Bebel, autorevole
esponente della socialdemocrazia tedesca, nel 1893 definì
l'antisemitismo “il socialismo degli imbecilli”. E quella degli
imbecilli è una pianta che cresce in ogni clima, anche a sinistra, come
dimostra una ricerca di Michel Dreyfus, da poco tradotta in italiano.
Maria Grazia Meriggi
Le eterne ricadute del
pregiudizio
La traduzione italiana di
L’antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso
(1830-2016) di Michel Dreyfus (edizioni Free Ebrei, che si può
acquistare anche sul sito www.Freeebrei.com) interessa il lettore
italiano per i contenuti come per l’originalità metodologica.
L’autore è un autorevolissimo storico sociale del sindacalismo e
del mutualismo ed è quindi particolarmente in grado di individuare
le ricadute del pregiudizio nella vita quotidiana.
A stimolare la ricerca sono state le polemiche più recenti: gli accenti di pregiudizio
presenti talvolta nelle critiche alla legittimità di Israele,
l’intreccio di anticolonialismo e pregiudizio antisemita che si
insinua pericolosamente nelle subculture delle periferie popolari. Un
preconcetto tuttora presente in Francia, a sinistra, ben più che in
altri paesi. Ma questo libro rimanda alle radici dei problemi ed è
scritto dal punto di vista di una cultura di sinistra che intende,
prima di tutto, capire le ragioni della caduta nel pregiudizio per
sconfiggerlo.
Il caso francese è
particolarmente interessante perché la completa emancipazione degli
ebrei coincide con la Rivoluzione, la Repubblica ma anche un processo
lento e contradittorio di modernizzazione economica. Nelle campagne
dove sopravvive l’agricoltura di sussistenza, nelle città dove
resiste un artigianato assediato dalla fabbrica la xenofobia viene
legittimata da un patriottismo che rischia di degenerare in
nazionalismo e vi trova spazio la forma moderna dell’antisemitismo,
l’identificazione degli ebrei con la finanza capitalistica.
Proudhon
L’antisemitismo di
Proudhon e di Toussenel, quello meno pervasivo di Blanqui, quello
esplicito di Benoit Malon, la deriva ipernazionalista del
filocomunardo Rochefort sono espressione di una resistenza
«reazionaria» alla modernità cui si affianca l’accecamento di
coloro che – come il sindacalista d’azione diretta Emile Pouget –
credono che l’antisemitismo popolare sia il primo passo verso
l’anticapitalismo e non il più pericoloso ostacolo a una coscienza
socialista.
Dall'accurata ricostruzione di Dreyfus emergono due aspetti del tenace paradosso.
La sinistra – con la sua analisi concreta delle relazioni sociali e
l’universalismo della sua tensione egualitaria – avrebbe a
disposizione due potenti antidoti. La sua critica si rivolge alla
«silenziosa coazione dei rapporti economici» per definizione
impersonali: l’identificazione della formazione sociale
capitalistica con la rapacità di individui o gruppi etnici o
religiosi ne viene non solo superata ma addirittura ridicolizzata.
D’altra parte spinti dalla lunga depressione e dalla violenza dei
pogrom migliaia e migliaia di proletari e operai ebrei emigrano in
Francia, Inghilterra, Stati Uniti con una partecipazione i movimenti
sindacali e politici di emancipazione che a sua volta rende
impronobile l’ identificazione degli ebrei con la finanza: anzi
risibile, se non fosse tragica.
Eppure la sinistra in ben
determinate fasi storiche, di crisi generalizzata della società
ambiente, di sue interne sconfitte e debolezze analitiche e
organizzative si lascia permeare dal pregiudizio sostituendo ad
analisi specifiche e differenziate dei rapporti di forza sociali
formule che non solo sono moralmente esecrabili ma analiticamente
impotenti.
Nel caso francese all’antisemitismo «socialista» ottocentesco segue la
mobilitazione collettiva del caso Dreyfus e il periodo della grande
Guerra e della ricostruzione, in cui tutte le risorse del paese sono
chiamate in causa. Una fase interrotta dalla crisi degli anni ’30,
in cui il riemergere di toni antisemiti coincide con gravi cadute, a
sinistra, della capacità di analisi della fase. Quei socialisti che
per pacifismo senza principi accusano «gli ebrei» e il loro
segretario Léon Blum di volere la guerra con Hitler non si rendono
conto che la guerra è inevitabile. Il gruppo dirigente comunista
accettando il tragico patto Molotov-Ribbentrop subordina le proprie
analisi a quelle dello «stato operaio» e adotta nella campagna
contro Georges Mandel la definizione di «ebreo» come un’accusa.
Nelle stesse settimane in
cui un dirigente del Pcf chiede l’autorizzazione all’occupante
nazista di pubblicare legalmente l’Humanité, la Naïe Presse, il
giornale operaio filocomunista in yiddish, si organizza in
clandestinità. Vediamo così all’opera il contrasto fra il
cedimento al «socialismo degli imbecilli» e la concreta realtà
sociale ebraica in quei luoghi e in quegli anni.
È anche significativo
che la mobilitazione antifascista e la Resistenza, con il contributo
di tanti ebrei e immigrati (pure italiani), mettano a tacere il
pregiudizio antisemita. Dreyfus analizza poi con finezza, senza
sopravvalutarle, le nuove forme di preconcetto che si esprimono nella
identificazione fra il governo israeliano, lo stato d’Israele e le
contraddizioni che agitano le società mediorientali, compresa
Israele. Ancora una volta l’antisemitismo non è solo rivelatore di
caduta etica ma di incapacità di analisi concreta: insomma, la
battaglia contro il «socialismo degli imbecilli» è necessaria,
innanzitutto, alla sinistra.
Il Manifesto – 31
gennaio 2018
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