La testimonianza di Joan Baez
L’estate del Sessantotto fu segnata
dall’arresto di mio marito David Harris e dalla mia gravidanza. Mi ero calata
al cento per cento nei ruoli di moglie e di futura madre; non ero interessata a
nient’altro. Vivevamo sulle colline sopra Palo Alto, in una comune. Io e David
avevamo la nostra casetta, l’edificio era in comune con un’altra coppia. Anche
lei era incinta. A poche decine di metri c’era la costruzione principale della
comune, che si chiamava “Struggle Mountain”. I bambini vivevano
letteralmente sugli alberi, io passavo le mie giornate a cucinare e a fare il
pane nel forno. Il tempo era caldo e bello. Ognuno aveva il suo orto dove
coltivava le verdure.
Era un’estate meravigliosa, anche se
vivevamo nell’attesa dell'arresto di David per renitenza alla leva. Lui era uno
dei leader del movimento contro la guerra nel Vietnam e l’arresto veniva
considerato senza drammi, come parte di quella lotta. Lo davamo per scontato,
anche se con un certo batticuore da parte mia.
Avevamo amici nell’ufficio dello
sceriffo, quindi venimmo informati del loro arrivo. Li accogliemmo
calorosamente, con loro sconcerto. Demmo loro il benvenuto, offrimmo loro pane
e tè, li facemmo accomodare. La cosa buffa è che loro non sapevano chi
arrestare perché non potevano identificare
David, finché fu lui a farsi
riconoscere. Gli misero le manette e noi lo fotografammo, e continuammo a
chiacchierare. Alla fine fu l’ora di andare. Cantammo in coro “Amazing Grace”,
filmando tutto con una cinepresa.
I poliziotti lo misero nella
macchina e si avviarono. Ma nel frattempo i bambini erano riusciti a attaccare
alla targa della loro macchina un adesivo del movimento di renitenza alla leva,
e il film mostra tutto questo, con David che si volta a salutare dal lunotto
posteriore. Fu un momento buffo e triste. Non avevo paura, perché la polizia
non maltratta i leader del movimento, almeno non fisicamente. Sapevo, tuttavia,
che i primi giorni tengono gli arrestati nella cella del commissariato, e
questo può essere piuttosto sgradevole.
Dopo la partenza della macchina
dello sceriffo tutto ritornò molto quieto e io andai a fare una lunga
passeggiata nei boschi, camminai per varie ore cantando per me sola. Mi ricordo
che cantavo "There’s a lesson too late for learning" (C’è una
lezione che è troppo tardi per imparare), poi un verso di una canzone di Tom
Saxton, "The last thing in my mind”.
David rimase in carcere 20 mesi,
durante i quali nacque Gabriel Earl. Aveva 14 mesi quando suo padre usci. Fu un
periodo duro. Le visite erano molto, molto difficili e le guardie facevano di
tutto per renderle sgradevoli. Mi ricordo per esempio che in Arizona era
caldissimo. Tutte le mogli e i bambini erano in cortile. C’era una cannella
d’acqua e naturalmente i bambini giocavano a schizzarsi. La volta dopo avevano
tolto il rubinetto. Piccole persecuzioni.
Non ho mai raccontato a mio figlio
niente di quel periodo, niente di tutto ciò. Io stessa me ne ero praticamente
scordata finché la vostra richiesta non mi ha indotto a frugare tra i ricordi.
Penso che stasera glielo racconterò.
Da '68. Una storia aperta,
Supplemento a “L'Espresso”, 25 gennaio 1988
*****
LA RICOSTRUZIONE STORICA
Oltre (e per certi versi prima
ancora) che in un rifiuto dell’autorità come oppressione, la rivolta giovanile
ha le sue premesse, e lo dimostrano bene i primi documenti soprattutto
americani, in una ribellione morale, nel sentimento di avere a che fare con
autorità potenti ma prive di ogni legittimità che non sia il semplice esercizio
del dominio. Questa caratteristica del movimento non sfuggi ai suoi piu attenti
osservatori, da C. Wright Mills11 che già nel 1960 parlava di «una rivolta
morale che segna la fine dell’apatia», ad H. Arendt, che ha scritto di una
«rivolta mossa quasi esclusivamente da considerazioni morali».
Due sono gli aspetti di questa
ribellione che vorremmo qui sottolineare. In primo luogo il movimento
studentesco dava voce in Occidente a una crisi, quella che veniva definita
allora «crisi di credibilità», che coinvolgeva i rapporti fra istituzioni e
cittadinanza in quasi tutte le democrazie; mentre in Europa orientale prendeva
apertamente di mira la totale separazione fra potere e società. L'autorità
politica e quella delle istituzioni pubbliche appariva delegittimata in quanto
mistificante e menzognera, fondata sul segreto, sul rifiuto della trasparenza,
e sull’accorta manipolazione dell'opinione pubblica.
Che cosa c’era di specificamente
giovanile nel modo m cui il movimento studentesco proponeva la sua critica
all'autorità? Mentre nelle generazioni adulte il distacco e la diffidenza nei
confronti del potere avevano la forma passiva dell’apatia, la ribellione dei
giovani contro il potere esprimeva la contestazione all'autorità in forma
attiva, volta al cambiamento, ed esaltava anzi le potenzialità inesauribili
dell’agire politico di contro alla rassegnazione: la sua critica morale si
rivolgeva quindi allo stesso tempo, e spesso con la stessa durezza, sia alle
istituzioni dominanti, sia a una cittadinanza, quella delle generazioni
precedenti, che aveva accettato senza reagire la propria espropriazione da ogni
forma di reale partecipazione politica, sia ancora alla stessa leadership dei
movimenti di opposizione già esistenti, che veniva accusata allora non solo e
non tanto di cedimenti ideologici, quanto di non aver saputo evitare il
chiudersi degli spazi politici. Mentre nei paesi più autoritari (come quelli
dell’Europa orientale, ma anche il Messico) ciò comportava soprattutto una
esplicita richiesta di democrazia e di trasparenza, in Occidente il compito che
il movimento si assumeva era anche un altro, quello della «demistificazione»,
quello di stracciare i veli che nascondevano la reale natura del potere,
mostrando cosi il suo vero volto anche a coloro che erano stati assuefatti da
decenni di «falsa coscienza»: per questa via, tra l’altro, gli aspetti
politici, quelli morali, quelli conoscitivo-educativi della lotta studentesca
si trovavano strettamente interconnessi.
La manifestazione prima, e più
immediata, di questa crisi del rapporto con l’autorità fu la caduta di ogni
forma di deferenza, anzi la pratica aperta dell’irriverenza. Fra i tratti più
universali del ’68 vi furono l’uso generalizzato della beffa (nelle scritte,
nei volantini, nel confronto personale), il rifiuto di rispettare ogni tipo di
procedura prestabilita per la «presa della parola», l’attacco sistematico a
ogni rituale e simbolo del potere e dell’ordine costituito: pratiche che
vennero vissute dalla comunità giovanile come esperienza ludica e grande
elemento unificante, mentre da coloro che ne furono oggetto furono risentite,
spesso, come dramma e trauma. Ciò contribuì ad approfondire il fossato, e le
difficoltà di comunicazione, fra le generazioni. Gli aspetti giocosi di tanti
comportamenti contestativi non potevano che irritare chi era fuori del gioco (e
tutti gli adulti lo erano): coloro che si schieravano con l’autorità perché ne
condividevano il senso di dignità ferita, coloro che dubitavano della serietà
di una simile contestazione, e denunciavano (a volte con preveggente lucidità)
i suoi aspetti «carnevaleschi», violentemente trasgressivi quanto alla fine
destinati, passata la festa, a lasciare poche tracce.
In secondo luogo, il movimento
studentesco avvertiva drammaticamente il problema della responsabilità: il
mondo che i giovani si preparavano a ereditare era condizionato da «macchine»
sempre più complesse e impersonali, proprio quelle macchine di cui lo studente
era destinato a divenire, con l’educazione universitaria, una ruota inconsapevole
e passiva. Chi rispondeva di scelte che potevano mettere a rischio il futuro
stesso dell’umanità? Chi rispondeva delle distruzioni irrimediabili che erano
state prodotte negli ultimi decenni di storia? L’irresponsabilità programmata
della società moderna è sicuramente un tema privilegiato dei testi del
movimento americano, ma in forme diverse compare anche in quelli europei, con
accenti simili a est e a ovest della cortina di ferro.
Proprio questa società
irresponsabile imponeva al giovane e allo studente una condizione
contraddittoria e insopportabile: da un lato, lo rinchiudeva in una sorta di
limbo, incapace di provvedere a se stesso e ridotto di fatto in una prolungata
condizione di dipendenza; dall’altro gli chiedeva di sottoporsi a prove per
dimostrare di essere «adeguato» ad accedervi. In questa situazione, anche
l’autorità degli educatori si presentava come puro dominio impersonale, in cui
un’istituzione irresponsabile pretendeva conformismo e «senso di
responsabilità» dagli educati, mentre li condannava a uno stato di minorità.
La rivolta giovanile si proponeva
anche come una via per uscire da questa condizione: i suoi protagonisti
assumevano, attraverso l’azione politica, l’onere di riconoscere, denunciare,
superare, i mal prodotti dal dominio impersonale sul mondo, e: possibilmente
smascherare i reali colpevoli; sfidavano le autorità ad accettare d sottoporsi
loro per prime a esami, ed eventualmente a bocciature, esaltavano la disobbedienza
come prima e necessaria risposta degli individui a un ordine oppressivo. Ma
questa spinta (particolarmente forte nei movimenti dell’Europa orientale) si
intrecciava con un’altra, contraddittoria: il rifiuto di assumersi
responsabilità per una società irresponsabile; l’esaltazione della propria
condizione separata, e per molti versi dis-inserita, come modo di «star fuori»
rispetto a un sistema che si rifiutava di condividere. Nella contro-cultura,
questa posizione poteva portare a sbocchi decisamente, e volutamente,
apolitici; nell’insieme della ribellione giovanile essa si incontrò con
l’azione politica in forme complesse e dinamiche: in un intreccio complessivo
fra spinte politiche e spinte antipolitiche che costituisce uno degli aspetti
più enigmatici dell' intero ’68.
da Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968
in Europa e in America, Editori riuniti, 1988
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