24 marzo 2018

Joan Baez e Peppino Ortoleva raccontano il '68





La testimonianza di Joan Baez



L’estate del Sessantotto fu segnata dall’arresto di mio marito David Harris e dalla mia gravidanza. Mi ero calata al cento per cento nei ruoli di moglie e di futura madre; non ero interessata a nient’altro. Vivevamo sulle colline sopra Palo Alto, in una comune. Io e David avevamo la nostra casetta, l’edificio era in comune con un’altra coppia. Anche lei era incinta. A poche decine di metri c’era la costruzione principale della comune, che si chiamava “Struggle Mountain”. I bambini vivevano letteralmente sugli alberi, io passavo le mie giornate a cucinare e a fare il pane nel forno. Il tempo era caldo e bello. Ognuno aveva il suo orto dove coltivava le verdure.
Era un’estate meravigliosa, anche se vivevamo nell’attesa dell'arresto di David per renitenza alla leva. Lui era uno dei leader del movimento contro la guerra nel Vietnam e l’arresto veniva considerato senza drammi, come parte di quella lotta. Lo davamo per scontato, anche se con un certo batticuore da parte mia.
Avevamo amici nell’ufficio dello sceriffo, quindi venimmo informati del loro arrivo. Li accogliemmo calorosamente, con loro sconcerto. Demmo loro il benvenuto, offrimmo loro pane e tè, li facemmo accomodare. La cosa buffa è che loro non sapevano chi arrestare perché non potevano identificare
David, finché fu lui a farsi riconoscere. Gli misero le manette e noi lo fotografammo, e continuammo a chiacchierare. Alla fine fu l’ora di andare. Cantammo in coro “Amazing Grace”, filmando tutto con una cinepresa.
I poliziotti lo misero nella macchina e si avviarono. Ma nel frattempo i bambini erano riusciti a attaccare alla targa della loro macchina un adesivo del movimento di renitenza alla leva, e il film mostra tutto questo, con David che si volta a salutare dal lunotto posteriore. Fu un momento buffo e triste. Non avevo paura, perché la polizia non maltratta i leader del movimento, almeno non fisicamente. Sapevo, tuttavia, che i primi giorni tengono gli arrestati nella cella del commissariato, e questo può essere piuttosto sgradevole.
Dopo la partenza della macchina dello sceriffo tutto ritornò molto quieto e io andai a fare una lunga passeggiata nei boschi, camminai per varie ore cantando per me sola. Mi ricordo che cantavo "There’s a lesson too late for learning" (C’è una lezione che è troppo tardi per imparare), poi un verso di una canzone di Tom Saxton, "The last thing in my mind”.
David rimase in carcere 20 mesi, durante i quali nacque Gabriel Earl. Aveva 14 mesi quando suo padre usci. Fu un periodo duro. Le visite erano molto, molto difficili e le guardie facevano di tutto per renderle sgradevoli. Mi ricordo per esempio che in Arizona era caldissimo. Tutte le mogli e i bambini erano in cortile. C’era una cannella d’acqua e naturalmente i bambini giocavano a schizzarsi. La volta dopo avevano tolto il rubinetto. Piccole persecuzioni.
Non ho mai raccontato a mio figlio niente di quel periodo, niente di tutto ciò. Io stessa me ne ero praticamente scordata finché la vostra richiesta non mi ha indotto a frugare tra i ricordi. Penso che stasera glielo racconterò.

Da '68. Una storia aperta, Supplemento a “L'Espresso”, 25 gennaio 1988

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 LA RICOSTRUZIONE STORICA 


Oltre (e per certi versi prima ancora) che in un rifiuto dell’autorità come oppressione, la rivolta giovanile ha le sue premesse, e lo dimostrano bene i primi documenti soprattutto americani, in una ribellione morale, nel sentimento di avere a che fare con autorità potenti ma prive di ogni legittimità che non sia il semplice esercizio del dominio. Questa caratteristica del movimento non sfuggi ai suoi piu attenti osservatori, da C. Wright Mills11 che già nel 1960 parlava di «una rivolta morale che segna la fine dell’apatia», ad H. Arendt, che ha scritto di una «rivolta mossa quasi esclusivamente da considerazioni morali».
Due sono gli aspetti di questa ribellione che vorremmo qui sottolineare. In primo luogo il movimento studentesco dava voce in Occidente a una crisi, quella che veniva definita allora «crisi di credibilità», che coinvolgeva i rapporti fra istituzioni e cittadinanza in quasi tutte le democrazie; mentre in Europa orientale prendeva apertamente di mira la totale separazione fra potere e società. L'autorità politica e quella delle istituzioni pubbliche appariva delegittimata in quanto mistificante e menzognera, fondata sul segreto, sul rifiuto della trasparenza, e sull’accorta manipolazione dell'opinione pubblica.
Che cosa c’era di specificamente giovanile nel modo m cui il movimento studentesco proponeva la sua critica all'autorità? Mentre nelle generazioni adulte il distacco e la diffidenza nei confronti del potere avevano la forma passiva dell’apatia, la ribellione dei giovani contro il potere esprimeva la contestazione all'autorità in forma attiva, volta al cambiamento, ed esaltava anzi le potenzialità inesauribili dell’agire politico di contro alla rassegnazione: la sua critica morale si rivolgeva quindi allo stesso tempo, e spesso con la stessa durezza, sia alle istituzioni dominanti, sia a una cittadinanza, quella delle generazioni precedenti, che aveva accettato senza reagire la propria espropriazione da ogni forma di reale partecipazione politica, sia ancora alla stessa leadership dei movimenti di opposizione già esistenti, che veniva accusata allora non solo e non tanto di cedimenti ideologici, quanto di non aver saputo evitare il chiudersi degli spazi politici. Mentre nei paesi più autoritari (come quelli dell’Europa orientale, ma anche il Messico) ciò comportava soprattutto una esplicita richiesta di democrazia e di trasparenza, in Occidente il compito che il movimento si assumeva era anche un altro, quello della «demistificazione», quello di stracciare i veli che nascondevano la reale natura del potere, mostrando cosi il suo vero volto anche a coloro che erano stati assuefatti da decenni di «falsa coscienza»: per questa via, tra l’altro, gli aspetti politici, quelli morali, quelli conoscitivo-educativi della lotta studentesca si trovavano strettamente interconnessi.
La manifestazione prima, e più immediata, di questa crisi del rapporto con l’autorità fu la caduta di ogni forma di deferenza, anzi la pratica aperta dell’irriverenza. Fra i tratti più universali del ’68 vi furono l’uso generalizzato della beffa (nelle scritte, nei volantini, nel confronto personale), il rifiuto di rispettare ogni tipo di procedura prestabilita per la «presa della parola», l’attacco sistematico a ogni rituale e simbolo del potere e dell’ordine costituito: pratiche che vennero vissute dalla comunità giovanile come esperienza ludica e grande elemento unificante, mentre da coloro che ne furono oggetto furono risentite, spesso, come dramma e trauma. Ciò contribuì ad approfondire il fossato, e le difficoltà di comunicazione, fra le generazioni. Gli aspetti giocosi di tanti comportamenti contestativi non potevano che irritare chi era fuori del gioco (e tutti gli adulti lo erano): coloro che si schieravano con l’autorità perché ne condividevano il senso di dignità ferita, coloro che dubitavano della serietà di una simile contestazione, e denunciavano (a volte con preveggente lucidità) i suoi aspetti «carnevaleschi», violentemente trasgressivi quanto alla fine destinati, passata la festa, a lasciare poche tracce.
In secondo luogo, il movimento studentesco avvertiva drammaticamente il problema della responsabilità: il mondo che i giovani si preparavano a ereditare era condizionato da «macchine» sempre più complesse e impersonali, proprio quelle macchine di cui lo studente era destinato a divenire, con l’educazione universitaria, una ruota inconsapevole e passiva. Chi rispondeva di scelte che potevano mettere a rischio il futuro stesso dell’umanità? Chi rispondeva delle distruzioni irrimediabili che erano state prodotte negli ultimi decenni di storia? L’irresponsabilità programmata della società moderna è sicuramente un tema privilegiato dei testi del movimento americano, ma in forme diverse compare anche in quelli europei, con accenti simili a est e a ovest della cortina di ferro.
Proprio questa società irresponsabile imponeva al giovane e allo studente una condizione contraddittoria e insopportabile: da un lato, lo rinchiudeva in una sorta di limbo, incapace di provvedere a se stesso e ridotto di fatto in una prolungata condizione di dipendenza; dall’altro gli chiedeva di sottoporsi a prove per dimostrare di essere «adeguato» ad accedervi. In questa situazione, anche l’autorità degli educatori si presentava come puro dominio impersonale, in cui un’istituzione irresponsabile pretendeva conformismo e «senso di responsabilità» dagli educati, mentre li condannava a uno stato di minorità.
La rivolta giovanile si proponeva anche come una via per uscire da questa condizione: i suoi protagonisti assumevano, attraverso l’azione politica, l’onere di riconoscere, denunciare, superare, i mal prodotti dal dominio impersonale sul mondo, e: possibilmente smascherare i reali colpevoli; sfidavano le autorità ad accettare d sottoporsi loro per prime a esami, ed eventualmente a bocciature, esaltavano la disobbedienza come prima e necessaria risposta degli individui a un ordine oppressivo. Ma questa spinta (particolarmente forte nei movimenti dell’Europa orientale) si intrecciava con un’altra, contraddittoria: il rifiuto di assumersi responsabilità per una società irresponsabile; l’esaltazione della propria condizione separata, e per molti versi dis-inserita, come modo di «star fuori» rispetto a un sistema che si rifiutava di condividere. Nella contro-cultura, questa posizione poteva portare a sbocchi decisamente, e volutamente, apolitici; nell’insieme della ribellione giovanile essa si incontrò con l’azione politica in forme complesse e dinamiche: in un intreccio complessivo fra spinte politiche e spinte antipolitiche che costituisce uno degli aspetti più enigmatici dell' intero ’68.

da Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori riuniti, 1988

 


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