12 marzo 2018

RANIERO LA VALLE PER IL PRIMO LUSTRO DI PAPA FRANCESCO







RANIERO LA VALLE *

FRANCESCO, VOCE DEI POVERI, VOCE DI TUTTI 

Dopo cinque anni di papa Francesco, che si compiono il 13 marzo, certamente si può confermare ciò che già apparve all’inizio del pontificato, e cioè che egli fosse venuto per riaprire, a una modernità che l’aveva chiusa, la questione di Dio . E infatti il ministero di papa Francesco è un ininterrotto annuncio del Dio del vangelo, un Dio inedito, un Dio che sorprende, un Dio non più “tremendum” ma solo “fascinans”. Però oggi dire questo non basta più. Ci vuole una sorta di “relectio de papa Francisco”, una rilettura che vada al di là dei due stereotipi in base a cui oggi si parla di lui: quello dell’esaltazione e quello della denigrazione: apologetica contro riprovazione. Mi pare invece che l’approccio giusto sia quello di una interpretazione: il pontificato di Francesco va interpretato perché nasconde un mistero. Come si parlò di un “mistero Roncalli”, “ le mystère Roncalli”, alludendo al mistero o carisma del papa che aveva convocato il Concilio, così c’è un segreto di questo pontificato che va interrogato, che va svelato. E forse da questa interpretazione, anche dopo che esso sarà concluso, dipenderà il futuro della Chiesa.
C’è un’interpretazione diffusa di questo pontificato come di un pontificato profetico. E certamente è verissima, né è smentita dal fatto che esso sia contrastato, perché anzi è proprio della profezia essere combattuta. Però se fosse solo profetico, non ci sarebbe niente di veramente straordinario, perché la storia della Chiesa, sia sul versante della successione apostolica che sul versante della tradizione dei discepoli, è piena di profeti, papi compresi: basta pensare a Leone Magno che con la sua lettera a Flaviano dona alla Chiesa la fede di Calcedonia, o a Gregorio Magno che attraverso la figura di san Benedetto è il vero padre dell’Europa.
Io però penso che si possa dare un’interpretazione ulteriore, come non solo di un pontificato profetico, ma di un pontificato messianico. Neanche questo di per sé sarebbe straordinario; perché messianico non è che l’altro nome del cristiano, Cristo non è che il greco di Messia, quindi “un papa messianico” è come dire “un cristiano sul trono di Pietro”, come si disse di papa Giovanni; ma siccome ci siamo dimenticati di questa identità messianica e il popolo cristiano ignora il greco, non è così ovvio, e un pontificato messianico appare effettivamente straordinario.
Ma di quale messianismo si tratta? Infatti non tutti i messianismi sono buoni, tanto che alcuni maestri talmudici hanno detto: “Se questo è il messia, non lo voglio vedere”. C’è un messianismo apocalittico, come quello di Qumram o del IV libro di Esdra, che annuncia un mondo nuovo ma attraverso la catastrofe del mondo presente, e non si tratta certo di questo, anzi come dice padre Antonio Spadaro nel suo ultimo libro , questo pontificato è una “sfida all’Apocalisse”, e come abbiamo detto noi nell’assemblea di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, semmai è una forza frenante, che resiste, che trattiene la catastrofe, come il katécon messianico paolino.
C’è poi un messianismo utopico che si aspetta il realizzarsi delle promesse messianiche nella storia, ma soffre l’angoscia del loro non avverarsi, del loro ritardo; secondo lo storico e filosofo ebreo Gershom Scholem, ciò avrebbe fatto della vita ebraica una vita in condizioni di rinvio, una vita vissuta nel differimento, mentre secondo molti saggi dell’ebraismo, un attivismo messianico che cercasse di abbreviare questo ritardo si risolverebbe in tragedia.
Né l’apocalisse, né l’irrealtà dell’utopia
Il messianismo del pontificato di Francesco non assomiglia a nessuno di questi modelli. Non a quello apocalittico; semmai, come dice la biblista Rosanna Virgili, è escatologico, dove l’escatologia accende un’attesa in cui si apre lo spazio al presente.
Ma quello del pontificato di Francesco non assomiglia neanche al messianismo che, tutto proteso verso il futuro, vive, come dice Scholem, “in una situazione di irrealtà”; il significato messianico del pontificato di Francesco non sta nella logica del differimento. La sua vera patria è l’oggi di Dio, l’oggi biblico dell’ascolto della sua voce, come dice la  paolino (Rm.Vόriak nunlettera agli Ebrei (Eb. 3, 7), è un nunc, è il  3,26; 8,18; 11,5), è il tempo presente investito dall’evento messianico, è l’irruzione del tempo di Dio nel tempo storico, nel tempo di ora. Non è il tempo che verrà, è il tempo che viene ed è questo, dice Gesù alla Samaritana. Sta qui, nella storia.
Però è un presente, un oggi che non è chiuso nella conservazione e nell’eterna ripetizione di se stesso, non è “un tempo omogeneo e vuoto”, come dice Walter Benjamin, ma è il tempo dove il nuovo accade e la storia avanza. Ma non si tratta di una crescita continua, di uno sviluppo costante e graduale dall’antico al moderno, al postmoderno, come lo pensa il progressismo; no, questo non è un papato migliorista. Esso infatti assume il tempo di ora, ma lo assume nel senso della discontinuità, una discontinuità che accade nel presente. C’è un cambiamento, pacifico, certo, ma vero, è una rivoluzione.
Restano allora da individuare alcuni momenti nodali, topici di questa discontinuità messianica, di questo cambiamento epocale (perché, come si dice, questa non è un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca). Ne indicherei tre.
Non scarti, non esuberi
1) Il primo è che si chiude l’età dello scarto. Cioè si chiude un intero ciclo della storia dell’Occidente, e non solo dell’Occidente, che si è fondato e si è svolto nel pensiero della diseguaglianza tra gli uomini. Se vogliamo assumere simbolicamente il nome che più rappresenta questo pensiero della diseguaglianza, che gli ha dato autorità e lo ha fatto diventare cultura diffusa, prenderei, e spero di non scandalizzare nessuno, il nome di Aristotile. Ancora nel 1500, al tempo della conquista delle Americhe, per dimostrare che gli Indi non erano veramente uomini, e che perciò gli Spagnoli avevano il diritto di assoggettarli, si ricorreva all’antropologia di Aristotile, per la quale vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono schiavi per natura, naturaliter servi. È la tesi che cita anche Francisco De Vitoria nella sua Relectio de Indis, per confutarla: ma intanto gli Indios erano stati assoggettati come incapaci di essere liberi e padroni di se stessi, e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.
Ma alla teoria dell’inevitabile diversità di destino tra sommersi e salvati hanno dato spago anche le culture castali dell’Oriente e, da noi, le teologie dell’elezione, della predestinazione, della natura non risanata dalla grazia, dell’ “extra Ecclesiam nulla salus”, che sono le teologie di un privilegio.
Il diritto aveva provato ad affermare che non c’è e non ci può essere un’umanità di scarto, ma basta vedere che fine fanno nel Mediterraneo gli scartati in nome del diritto, in nome della legge per la quale i perseguitati dalla fame, a differenza dei perseguitati dai signori del potere e della guerra, non hanno diritto di passare, per l’Europa non hanno diritto di esistere.
La discontinuità messianica di papa Francesco sta in questo, che oggi, e non domani, nessuno deve essere scartato, nessuno deve essere escluso, non ci sono tante umanità quanti sono gli Stati, le lingue, le religioni, c’è una sola ed unica umanità, ed è Dio stesso che se ne fa garante, perché si è fatto umanità nel Figlio, si è rivestito dell’umanità come di una tunica che in nessun modo può essere lacerata e spartita. È in questo scatto, in questa discontinuità messianica che si colloca il paradosso di una teologia missionaria che respinge il proselitismo, di un papa che “sta in Roma ma sa che gli Indi sono sue membra”, come già aveva ricordato il Concilio citando san Giovanni Crisostomo, e quindi considera una sciocchezza l’annetterseli, perché già sono nell’unità di Dio.
Non il contrappasso come giustizia
2) Il secondo punto cruciale di questo messianismo è l’uscita dall’ideologia del contrappasso. Il contrappasso è la giustizia della pesata uguale, come la chiamava Isacco di Ninive: tu hai fatto una cosa a me, io faccio una cosa a te. È la legge del taglione, occhio per occhio dente per dente. È la bilancia della giustizia che su un piatto mette il delitto, sull’altro la vendetta; una vendetta che poi, certo, l’incivilimento vuole non più privata, ma pubblica, ma a cui i privati non rinunciano e che continuano a pretendere, per loro soddisfazione, proprio dallo Stato. Quando dicono che “vogliono giustizia”, significa che vogliono vendetta. Anche Dio è incluso in questo girone infernale. Se non condanna non è giusto. Se lo si risarcisce, se lo si soddisfa, se gli si offre riparazione, sacrificio, allora può perdonare. Se vogliamo assumere il nome che più rappresenta questo pensiero, che gli ha dato autorità e lo ha fatto diventare cultura diffusa (e, di nuovo, non vorrei scandalizzare nessuno), prenderei il nome di Dante. L’Occidente non ha bisogno del catechismo, basta la Divina Commedia. L’immaginario è quello, inferno purgatorio e paradiso, contrappasso e stridor di denti.
Il pontificato messianico sta in questo, che annuncia la misericordia, come il tutto di Dio. Non è l’alchimia della retribuzione, non c’è un do ut des divino. La divina commedia è finita. Dio è il padre che non solo ti aspetta, ma accorcia il tempo dell’attesa, cancella il differimento, arriva per primo, “primerea”, come dice il papa con il suo neologismo argentino. E così devono fare gli uomini, secondo il vangelo: settanta volte sette, cioè sempre. Rimandare questo a domani è l’apocalisse, farlo oggi è messianismo.
C’è una miriade di detti di papa Francesco che si potrebbero citare a questo proposito. Ne citerò solo uno, rivolto il 4 gennaio scorso a un gruppo di ragazzi romeni ospiti di un orfanotrofio. Un ragazzo gli aveva raccontato che di uno di loro, che era morto l’anno scorso, un prete ortodosso (perché i romeni sono ortodossi) aveva detto che era morto peccatore e per questo non sarebbe andato in paradiso. E il papa ha risposto: “Forse quel prete non sapeva quello che diceva, forse quel giorno quel prete non stava bene, aveva qualcosa nel cuore che l’aveva fatto rispondere così. Ti dico una cosa che forse ti stupisce: neppure di Giuda possiamo dirlo”. E ha aggiunto: “Io ti dico che Dio vuole portarci tutti in paradiso, nessuno escluso. Dio non se ne sta seduto, lui va, come ci fa vedere il vangelo, è sempre in cammino per trovare quella pecorella, e anche se siamo sporchi di peccati, se siamo abbandonati da tutto e dalla vita, lui ci abbraccia e ci bacia. Sono sicuro che questo è ciò che il Signore ha fatto con il vostro amico”.
La discontinuità messianica è tra ciò che quel prete aveva nel cuore, in base alla teologia che gli era stata insegnata, e la buona notizia che Francesco ha dato ai ragazzi, e che sta dando al mondo, che il Signore non lascia indietro nessuno. Se si pensa all’angoscia di Lutero riguardo alla salvezza e se si pensa alle prime quattro tesi di Wittenberg, secondo le quali tutta la vita dei fedeli deve essere un sacro pentimento, vissuto nella mortificazione della carne fino all'ingresso nel regno dei cieli , si vede che la vera Riforma è questa. La “sola misericordia” è la vera risposta alla “sola fide”, la trascende; è per questo che, 500 anni dopo, l’ecumenismo si può ora realizzare.
Il Signore ritorna, continua a parlare
3) La terza discontinuità messianica sta nell’annuncio che Gesù veramente ritorna, e ritorna oggi. Il cuore del messianismo cristiano sta nella fiducia che il Signore torni. I cristiani aspettano il ritorno di Gesù. Ma egli non può tornare se tutto è già scritto, se la rivelazione è chiusa, e tutto quello che c’è da fare è di portare a buon fine ciò che la Tradizione ci ha già consegnato. C’è stato anche il buon lavoro fatto dall’esegesi, che al di là del Cristo della fede ha ritrovato il Gesù storico, ma proprio in quanto storico quel Gesù è definitivo. Se vogliamo assumere il nome che più rappresenta questo pensiero dell’impossibile ritorno di Gesù, prenderei quello del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che dice a Gesù, tornato a Siviglia, di non venire a disturbare il loro lavoro.
Il messianismo di questo pontificato sta nel mostrare che Gesù continua a parlare, non solo spiegando meglio e facendoci capire meglio le cose già dette, ma proprio dicendo cose nuove, inedite, che erano sconosciute anche a lui. Il papa sa che nel Vangelo non tutto è stato scritto, perché anzi, come dice Giovanni alla fine, se fossero scritte tutte le cose compiute da Gesù, “il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”; e ci sono cose che Pietro non ha capito nemmeno quando aveva Gesù ai suoi piedi che glieli lavava, e che capirà solo dopo, non l’indomani, perché anzi l’indomani lo tradirà, ma nei secoli futuri; per esempio Pietro ha capito solo adesso che la pena di morte non ci deve stare nel Catechismo, e ha detto ai suoi di toglierla, perché “è necessario … che la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce; questa Parola non può essere conservata in naftalina”: Gesù di Nazaret cammina con noi, lo Spirito Santo non si può legare e Dio non cessa di parlare alla Chiesa (discorso dell’11 ottobre 2017). Questo dice il papa: la rivelazione infatti non è chiusa e la notizia migliore è quella che oggi ancora non fa notizia, non si può dare, non ci può essere nei Telegiornali, perché è una notizia che ancora non c’è. E allora Gesù può tornare. Ma non per essere licenziato di nuovo con un bacio, come quello esangue del Grande Inquisitore, ma per essere accolto e fatto parlare e ascoltato, certo, attraverso le voci degli angeli che lo acclamano ma anche attraverso le voci della sterminata moltitudine di uomini, di donne, di poveri che lui ama e che sono, dopo di lui, i secondogeniti di Dio sulla terra, di noi che siamo i secondogeniti del Padre. Le loro voci, le nostre voci. Come disse papa Giovanni la sera dell’apertura del Concilio, affacciandosi alla finestra di piazza san Pietro nel buio illuminato dalle fiaccole: “Sento le vostre voci”, ascolto le vostre voci…”

* Raniero La Valle è presidente del Comitato Dossetti per la Difesa della Costituzione. Direttore de Il Popolo, quotidiano Dc durante il governo Moro, nel 1961 dirige L’Avvenire, quotidiano cattolico. I suoi documentari Rai-Tv raccontano realtà lontane: Stati Uniti, America Latina, Medio Oriente. Parlamentare della Sinistra Indipendente è promotore del Manifesto per la Sinistra Cristiana, rilancia i valori del Patto Costituzionale del ’48 e la critica alla democrazia maggioritaria. Fra i suoi libri “Dalla parte di Abele”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”, “Quel nostro Novecento”, “Cronache Ottomane”

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