Quanto accaduto ieri in Sardegna non è frutto di un'inevitabile disastro naturale, ma la logica conseguenza di ben precise scelte politiche
ed economiche. Questo affermano oggi due grandi scrittori sardi in giornali che non possono certamente essere considerati rivoluzionari.
Michela Murgia
Ora basta silenzi. Non è stata una fatalità
Davanti a un padre morto affogato abbracciando il figlio di tre anni non si possono scrivere editoriali ponderati. Pensando a un giovane precipitato con l’auto nella voragine di un ponte, o a una famiglia annegata in un seminterrato, non vien fuori altro che rabbia: l’insensatezza di quelle perdite ammutolisce tanto quanto la campagna devastata, i paesi sfollati, i sopravvissuti ospitati in palestre e scuole elementari dove per giorni non si farà lezione.
La Sardegna il silenzio lo sa fare bene da sempre, tanto che è da due giorni che siamo senza parole. Le uniche che abbiamo usato sono state quelle necessarie a riconoscerci vicini, fratelli e solidali. Eppure il bisogno di dire qualcosa in più sulle ragioni di questo disastro nazionale comincia a vincere anche il più sgomento dei silenzi.
Tiene sempre di meno il muro di educata omertà che vorrebbero imporci, come se fosse una prova di buon gusto non parlare di responsabilità delle morti davanti ai morti stessi. «Lasciamo a dopo le polemiche, adesso c’è l’emergenza», dirà chi aveva in carico la responsabilità che l’emergenza non si verificasse. Come se chiedere giustizia sui fatti fosse fare polemica. Come se pretendere risposte fosse un’offesa ai defunti. L’offesa vera davanti a quelle morti è altra: sarebbe affidarsi per l’ennesima volta a un dopo che non arriverà mai, come non è arrivato nelle alluvioni sarde precedenti: disastri ciclici tutt’altro che millenari, al punto che la mia generazione ne ha già viste tre.
Quindi stavolta, ci
dispiace, ma no: il silenzio beneducato di chi rimanda tutto a dopo
non ci sta bene. Li sentiamo già mentre in giacca e cravatta dicono
che l’alluvione in Sardegna è stata una terribile fatalità, un
evento imponderabile, una disgrazia senza preavviso, una catastrofe
fuori da ogni immaginazione, di quelle che accadono una volta ogni
mille anni. Lo diranno di sicuro ma non lo dicono sempre? abusando
cinicamente della parola «destino» per nascondere dietro
quell’alibi la responsabilità di tutte le loro ignavie. Questi
signori non lo sanno che il destino è una cosa seria, fuori dalla
loro portata, una cosa complessa che richiede di avere la misura del
presente, il coraggio di ricordarsi del passato e abbastanza
generosità per proiettare i propri sforzi nel futuro.
La categoria del destino
è quella che ci permette di sognare i figli, di cercare un lavoro,
di costruire una casa, piantare un albero, fare un prestito a un
amico e amare gli occhi di una donna o di un uomo per tutta la vita o
solo per un attimo. Il destino in questi atti è un bene collettivo:
non appartiene mai ai singoli, ma sempre alle comunità e vive della
consapevolezza che siamo custodi della sorte altrui in qualunque
nostro gesto e che quello che accade a ciascuno peserà prima o poi
sulla vita di tutti. Il destino non è quindi la pioggia che cade, ma
è l’argine invaso dai detriti non sgomberati. Non è il torrente
che ingrossa, ma è senz’altro la casa che gli è stata costruita
nel letto dove doveva scorrere.
Non è il fango che
scende a valle, ma di sicuro è la via chiusa tra villette a schiera
che gli fa da diga dove non dovevano esserci altro che le braccia
aperte della terra, pronte ad assorbire la furia del cielo. Il
destino è un progetto con nomi e cognomi e non è cieco né baro:
dipende da noi. Chi oggi chiede spiegazioni non è quindi uno
sciacallo inopportuno; è il sindaco lasciato solo che non tollera di
sentir chiamare casualità il taglio di tutti i fondi per il piano di
adeguamento idrogeologico, una decisione scellerata che appena
quattro mesi fa ha lasciato i comuni senza i mezzi per curarsi del
dissesto della terra.
Chi chiede spiegazioni oggi è il geologo che
non vuol più permettere che venga chiamata fatalità l’assenza di
un piano regionale di protezione civile, anche se la Sardegna ha una
legge che glielo impone dal 1989: in questi ventiquattro anni ci sono
state molte alluvioni, l’ultima appena cinque anni fa con quattro
morti, ma nessuna giunta regionale ha mai trovato il tempo di farlo.
Il destino non è il futuro, questo ci piacerebbe dire ai signori con
la giacca e la cravatta che lo stanno usando come alibi, però lo
costruisce, prevedendolo. Peccato che la prevenzione non porti alcun
consenso politico: è risparmio, non spesa, quindi non fa rumore, non
procura alcuna audience emotiva, non ripaga nell’urna.
La disgrazia invece vale
molte cose: fondi in gran quantità, appalti per la ricostruzione e
soprattutto occhi chiusi sulle responsabilità, sempre ipocritamente
chiesti in nome del rispetto dei morti. I sardi e le sarde, che oggi
hanno dato di sé stessi al mondo una prova di solidarietà che
avrebbero di certo preferito risparmiarsi, se guardano l’orizzonte
forse non vedranno solo le nubi ancora cariche di pioggia, ma anche
il tramonto di un modello di sviluppo fondato sul mattone e sulla
speculazione. Davanti a questa evidenza, pagata a prezzo carissimo,
la comunità di destino che insieme rappresentiamo non può chiedere
a sé stessa l’ennesimo silenzio.
(Da: La Stampa del 20
novembre 2013)
Gavino Ledda
Ora non date la colpa
al cielo la mia terra è maledetta perché non l’abbiamo difesa
Non è l’acqua che uccide, ma l’uomo che non difende la terra.
Da quando ho scritto “Padre padrone”, negli anni Settanta, come pastore ho cantato la letizia della terra, sia pure con una lingua come quella italiana che non era del tutto in grado di esprimere questa gioia, tant’è vero che adesso sto rielaborando quel poema con uno spirito e un linguaggio diversi, più liberi. Ecco: con un’impostazione analoga si dovrebbero muovere politici, ingegneri, geologi, architetti. Invece oggi, così come troppo spesso è avvenuto nel recente passato in Sardegna e in altri luoghi, quel canto si è trasformato in pianto di morte. E la stessa questione si ripropone ogni volta che il cielo si deve sfogare: perché il cielo naturalmente ha tutto il diritto di sfogarsi.
L’uomo invece non si decide mai a prendere le misure giuste per salvaguardare la propria terra, l’ambiente naturale. Spesso costruisce le case lungo i fiumi o, come a Olbia, sotto il livello del mare. Non è la prima volta che accade. Cinque anni fa c’è stata la tragedia di Capoterra, vicino a Cagliari, con quattro morti. Ancora prima, nel 2004, c’è stato il disastro di Villagrande Strisaili, in Ogliastra. Ma non è solo l’isola a soffrire. Ovunque, con preoccupante ciclicità, si ripetono sciagure: dalla Liguria al Piemonte e alla Toscana. Bisogna essere meno egoisti. Tutto questo equivale a una forma di mancato rispetto nei riguardi della terra, una madre vivente che deve poter cantare senza costrizioni.
In passato, anche nel mio passato, quando sino a 20 anni stavo nell’ovile, per fortuna non ho assistito alla cementificazione selvaggia. Parlo del periodo tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta. E per capirlo basta pensare che in quell’epoca la strada tra la zona dove portavo le pecore al pascolo, Baddhevrùstana, e il mio paese, Siligo, non era neppure asfaltata. Sì, ho visto bonifiche ben fatte: interventi dell’uomo per aiutare la terra, canalizzazioni e opere di drenaggio che la rispettavano. E allora i boschi erano salvaguardati, protetti. Oggi invece gli alberi non fanno più da freno, non consentono più di evitare gli smottamenti, non contribuiscono alla salvaguardia dei suoli. E tutto questo perché non si comprende quanto continuiamo a forzare la natura.
Come si fa a pensare che l’acqua debba risalire la montagna e non andare a valle sino al mare? Per quale ragione non si tiene conto dell’esigenza di assecondare la natura quando si fanno opere per l’agricoltura, per l’architettura, per le urbanizzazioni? Perché la gente deve fare come le scimmie e arrampicarsi sugli alberi per salvarsi dall’acqua? Come si fa a vivere in cantine e poi ritenere che non si allagheranno?
Io resto convinto che l’uomo debba dormire nella propria casa, non nel letto dei fiumi o in luoghi soggetti alle forze del mare. E se oggi faccio questi discorsi è solo per evitare che tragedie del genere si ripetano, che si ritorni al solito punto: perché, non mi stanco di riaffermarlo, il cielo non ha colpe. Le responsabilità di queste tragedie che abbiamo sotto gli occhi e che si ripresentano in maniera così ricorrente sono degli uomini. E più precisamente dei politici, che non adottano giusti provvedimenti assecondando la natura, e degli imprenditori, che non si preoccupano del canto della terra perché pensano soltanto a facili arricchimenti. Ma così alla fine tutti noi siamo costretti al lutto, al dolore, al pianto.
(Da: La Repubblica del 20
novembre 2013)
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