25 novembre 2013

CORPO FEMMINILE E LINGUAGGIO



Linguaggio e corpo femminile

  sul sito www.leparolele cose.it


di Tiziana de Rogatis

[Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La violenza da avversare non è soltanto quella, gravissima, che si consuma nelle forme più eclatanti dell'uccisione o dell'uso sprezzante del corpo femminile nella comunicazione pubblicitaria, ma anche quella, molto più impercepibile, che si consuma nelle categorie del discorso comune. Ne parla Tiziana de Rogatis in questo articolo, che prende spunto dalla ripubblicazione di un libro di Franco Rella, Ai confini del corpo. Una versione più breve dello scritto di de Rogatis uscirà sul numero 67 di «Allegoria» (dbr)].

Il sesso femminile è «foro», «aspettativa oscena», «richiamo di carne»: la donna è «”bucata”»; il «vischioso» «è un’attività molle, bavosa e femminea». Di chi sono queste parole? Di uno dei Padri della Chiesa? No. Leggiamo ancora: «l’oscenità del sesso femminile è quella di ogni cosa spalancata: è un rischio di essere». E poi la sintesi: «in sé la donna richiama la carne estranea che la trasforma in pienezza di essere, per penetrazione e diluizione». La penetrazione, naturalmente, sarebbe quella del sesso maschile; la diluizione verrebbe dallo sperma. Ancora: di chi sono queste parole? Forse di Adolf Hitler? Un passo di Mein Kampf? Una sorta di prologo all’inferiorità delle razze, inclusiva anche di quella femminile (Littel ha scritto in effetti un saggio sul dualismo parasessuale dell’umido/femminile e del secco/maschile, ricorrente nell’ideologia nazista)? No. L’autore di queste citazioni è Jean-Paul Sartre. Forse sono state pescate da un qualche suo testo marginale, secondario, postumo e non autorizzato? Ancora una volta, no. Sono le pagine finali dell’Essere e il nulla.
Il «rischio di essere» – cui Sartre vorrebbe inchiodare la donna – allude ad un elemento non quantificabile, non controllabile del desiderio femminile e quindi ad un’ansia maschile, spesso capace di evolvere in violenza, verso una sessualità doppia (clitoridea e vaginale), metamorfica (erotica e materna) e complessa: chiamata quindi – più che mai in questi tempi di modernità liquida – a individuarsi, ad esprimersi attraverso una soggettivizzazione, un transito della natura in cultura. Possiamo ritrovare questi frammenti sartriani (ovviamente riportati da una prospettiva critica) in un testo di Franco Rella, composto da altri centosettantotto frammenti: tasselli di un complesso mosaico, il cui senso va trovato attraverso il campo di tensione che ogni elemento – al tempo stesso dettaglio e totalità – stabilisce con il tutto.
C’è il metodo di Benjamin, a lungo argomentato, dietro questa struttura, certo. Ma c’è anche una originale scommessa: il montaggio dei frammenti non è più allegoria e mappa della città moderna, ma del corpo. E il libro di Rella si intitola infatti Ai confini del corpo (prima edizione Feltrinelli, Milano, 2000; nuova edizione aggiornata Garzanti, Milano 2012). Il mosaico dei frammenti è l’equivalente metaforico del corpo, ma anche l’unico strumento conoscitivo che può avvicinarlo, renderlo parlante e dicibile. Il corpo è un’entità plurale, molteplice, sfuggente, attraversata da mille soglie (p. 187): esse sono i transiti, i passaggi, gli attraversamenti delle nostre vite; la parola soglia – ci ricorda Benjamin (cui Rella dedica l’intera terza sezione del libro: Scrivere il corpo. La scrittura critica e il pensiero del confine, pp. 325-354) – comprende in sé «mutamento […], maree, significato» (p. 344. Il corpo ha bisogno di questa messa a fuoco mobile, situazionale, ampia e circoscritta nello stesso tempo, anche perché su di esso grava una secolare rimozione, inaugurata dalla condanna di Platone e quasi sempre confermata dalla tradizione filosofica occidentale (anche da una attuale deriva di un certo femminismo, tutto incentrato sulla onnipotenza dell’identità mutante, che trascende se stessa e il corpo; pp. 301, 305-306). Ecco spiegata la scelta di citare la miseria maschile di Sartre. Il corpo femminile è la «bestia», la «carogna» (p. 259), e questa volta è una donna che parla: Louise de Bellière du Tronchay, internata alla Salpêtrière nel 1677. Quindi è una donna che si esprime con il linguaggio della reclusione e della devianza, una donna che si rappresenta come il calco inerte della sessualità maschile e si firma Louise du Néant, Louise del Nulla. Ma il punto è che tutti i corpi sono devianti, tutti i corpi sono reclusi, tutti i corpi sono annullati; su quelli femminili, tuttavia, il dominio maschile ha proiettato le forme di animalità e materialità biologica che poteva, in questo modo, decantare da sé. Per essere finalmente puro pensiero. Louise du Néant, in fuga dal suo essere «bestia» e «carogna». Il suo pseudonimo ci ricorda che fino a quando rappresenterà solo il femminile, la fisicità continuerà a ricevere proiezioni antifemminili.
Ai confini del corpo ricostruisce le tappe, le oscillazioni, le sfumature e anche le controtendenze dell’immaginario maschile moderno, ma lo fa nella forma sintetica, intuitiva del frammento. Così alcuni brani sono riletture di splendidi luoghi letterari da Baudelaire a Proust, passando per Flaubert e Kafka (Franco Rella, un filosofo e un esteta, ci dice che la filosofia ha fallito nel raccontare il corpo; la sua messa in forma va cercata invece nella poesia, nei romanzi; pp.7-24, 35-36), altri sono brevi e intensi appunti autobiografici, altri ancora sono sparse schede di un possibile romanzo nel quale un femminicida e un investigatore incarnano alcune posture maschili verso il corpo della donna e verso il desiderio: posture omicide, rapaci o anche solo prensili. In ogni caso orientate verso un possesso: un «sapere maschile sul corpo» che si contrapporrebbe ad una potenzialità femminile di «sapere del corpo» (p. 222). Questa potenzialità, tuttavia, non va interpretata come un essenzialismo. Anch’essa si esprime all’interno di un dualismo; anch’essa è inscritta in una gerarchia di valore e disvalore tra maschile e femminile e può portare quindi a sviluppi nevrotici o patologici (basti pensare all’isteria o, nella nostra attualità, all’anoressia).
All’interno di questo percorso, il corpo parla quando si situa ai suoi stessi confini, nelle condizioni eccezionali dell’eros, del dolore, della malattia, della vecchiaia: frontiere esistenziali, cui sono dedicati moltissimi frammenti e molte riletture letterarie (qui l’elenco si apre a poetesse e scrittrici, da Achmatova a Szymborska). Ma – aggiungo io – il corpo femminile parla invece anche dal pieno centro di se stesso, non ha necessariamente bisogno di esorbitare da sé. La maternità, per esempio, può essere una straordinaria rivincita del corpo sul pensiero: è un corpo che chiede imperiosamente al pensiero di pensarsi attraverso la morte e la nascita di nuove parti psichiche. Altre soglie, quindi. Di una storia che deve essere ancora scritta.

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