Giovedi scorso Salvatore Settis ha indirizzato, dalla prima di «Repubblica», una eloquente lettera in cui ha elencato al cardinale Angelo Scola tutte le ragioni per cui sarebbe grave installare nel Duomo di Milano un ascensore che porti fino ad una terrazza-bar da realizzare tra le guglie: un pio ritorno alla Milano da bere che circola almeno da luglio, e che ha trovato un pericoloso sponsor nel ministro Maurizio Lupi.
Così conclude Settis: «Dobbiamo forse immaginare che ogni campanile, ogni cattedrale, ogni palazzo pubblico debba essere svilito aggiungendovi ascensori e terrazze-bar e noleggiandolo a ditte private che non vi vedono altro se non un’occasione di profitto? Dobbiamo forse suggellare per sempre, perfino nelle chiese, l’idea che il denaro è l’unico valore corrente? Una sola parola viene in mente per definire l’idea-base che una chiesa debba servire di supporto ad attività di intrattenimento commerciale. Questa parola è: simonia». Sacrosanto: solo che purtroppo non si tratta solo di immaginazione.
A Napoli solo l’intervento di Italia Nostra (nello scorso febbraio) ha evitato che la Curia realizzasse una caffetteria sulla terrazza absidale del Duomo.
A Bologna si sono già ‘celebrati’ alcuni aperitivi sui ponteggi del restauro della facciata di San Petronio: «unici per la qualità dei cibi, l’esclusiva collocazione, i suggestivi tramonti e la piacevole compagnia».
A Siena è stato appena lanciato «Un te all’Opera»: dove l’Opera non è un teatro, ma l’Opera del Duomo, che nella ‘cripta’ della cattedrale organizza mostre a pagamento.
Ma come è possibile che qualcuno pensi di sorbire al piano terra il sangue di Cristo della messa, al primo piano un moijto, al piano di sotto un Caravaggio? Non ci si è arrivati di colpo: è l’ultimo stadio della trasformazione di molte delle più insigni chiese italiane in attrazioni turistiche a pagamento. A Firenze (sempre all’avanguardia nella mercificazione selvaggia del proprio stesso corpo) si paga per entrare in Santa Maria Novella e in Battistero, le tombe dei Medici in San Lorenzo sono fisicamente coperte da un bookshop, e se si vogliono vedere le «urne dei forti» in Santa Croce occorre sborsare 6 euro (per esigere i quali il portico gotico esterno è stato trasformato in un’orrida biglietteria di metallo e vetro).
A Siena si entra in Duomo a pagamento, a Pisa si paga per il Camposanto e il Battistero e San Francesco di Arezzo (con gli affreschi di Piero della Francesca) viene ormai definita «museo» ed è stata affidata alla società Munus (presieduta da Alberto Zamorani: sì, quello di Mani Pulite), che stacca i biglietti in un cubo di cristallo che devasta lo spazio sacro. A Milano costa sei euro vedere il luogo dove sant’Ambrogio battezzò sant’Agostino. A Verona si paga in Duomo, a San Zeno, a Sant’Anastasia e a San Fermo. A Venezia l’associazione Chorus-Chiese vende un pass per entrare in ben sedici chiese, tra le quali i Frari. A Ravenna ci vuole il biglietto per varcare la soglia di Sant’Apollinare Nuovo, di San Vitale e di molti altri templi.Una selva di balzelli: un’altra barriera che impedisce l’accesso al patrimonio artistico da parte dei cittadini italiani che lo mantengono con le loro tasse.
E di fronte a questo dilagare del culto del denaro non è solo uno storico dell’arte laico come Settis a parlare di’simonia’, cioè di mercimonio del sacro. Qualche mese fa Francesco Moraglia, il patriarca di Venezia succeduto proprio ad Angelo Scola, ha tuonato contro l’accesso a pagamento nelle chiese: «non di rado succede che la mentalità funzionalistica si trasformi in mentalità imprenditoriale; fronteggiare tale tendenza e soprattutto recuperare il senso del sacro, del mistero e dell’adorazione è essenziale». In effetti, il contrasto non potrebbe essere più stridente: nel sito dell’Opera del Duomo di Firenze, dopo una fiscalissima serie di precisazioni sulla validità del biglietto (tipo: «Il biglietto va utilizzato entro la mezzanotte del sesto giorno a partire dalla data selezionata al momento dell’acquisto, ed ha validità di 24 ore dal passaggio al primo monumento»), si può leggere che «non è possibile accedere con un abbigliamento non confacente al luogo sacro che si intende visitare». Ed essendo il bel San Giovanni un luogo ormai sacro al mercato, ci si chiede se l’allusione sia alla bombetta e all’ombrello della City.
Per questo il 31 gennaio 2012 la Conferenza Episcopale ha diramato una nota in cui si ricorda che «secondo la tradizione italiana, è garantito a tutti l’accesso gratuito alle chiese aperte al culto, perché ne risalti la primaria e costitutiva destinazione alla preghiera liturgica e individuale». Salvo poi aprire una gesuitica via di fuga: «L’adozione di un biglietto d’ingresso a pagamento è ammissibile soltanto per la visita turistica di parti del complesso (cripta, tesoro, battistero autonomo, campanile, chiostro, singola cappella, ecc.), chiaramente distinte dall’edificio principale della chiesa, che deve rimanere a disposizione per la preghiera». Prescrizione comunque clamorosamente disattesa in moltissimi casi, da Santa Croce a Firenze ai Frari di Venezia.
Soluzioni? Un certo Giovanni, nel suo Vangelo ne racconta una radicale: «Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”». E così sia.
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