Sul FOGLIO di Giuliano Ferrara, di solito ben informato sulle cose che riguardano i potenti, ho trovato questo bel ritratto dei LETTA:
Il cardinal nepote
Ritratto a doppio specchio del premier Letta e dello zio Gianni, consigliere principe del Cav. Le potenti intese di una famiglia che conta molto sia a destra che a sinistra
“C’è un sottosegretario a nome Letta / che fa trasloco con un po’ di fretta. / Lasciar deve la stanza / al nuovo che s’avanza: / un sottosegretario a nome Letta” (Stefano Bartezzaghi)“Per legge di natura scritta et evangelica spetta di provveder li suoi (…). La legge di Natura insegna di giovare prima a più propinqui di sangue nella guisa che il sole prima d’ogni altra cosa e con maggior vantaggio riscalda l’oggetto più vicino” (Un cardinale a Papa Alessandro VII)
Se fu (se è) il Letta Zio, come ebbe a dire il Cav. – che ne fu protettore e che ne fu soprattutto protetto – “vero dono di Dio all’Italia”, c’è da pensare che pure il Letta Nipote sia almeno ragguardevole presente, nel triste frangente, alla patria tutta. E’ la significanza della Nipotanza che stringe il paese e insieme lo sostiene – e a volte è la generazione avanti che ara il solco e il braccio del virgulto lo difende, a volte l’opposto: è il mutato ordine dei fattori che il risultato mai muta. Anche perché Gianni, che Enrico ha per zio, è poi zio ideale sotto qualunque altra latitudine. E diceva così, Massimo D’Alema: “E’ una persona saggia e di buoni sentimenti”, esemplare modello, come avrebbe da essere ogni zio. E diceva così, Goffredo Bettini: “Se lei mi presenta come il Gianni Letta del Pd per me è un onore”, ideale modello, come avrebbe da essere ogni zio. E se lo zio è zio di tutti, di tutti, ovviamente, è il nipote. Ideal nipote, da pranzo domenicale, quello che arriva con le pastarelle (mai azzardate: diplomatici non arditi, bignè non fritti) per i commensali, uno da gioventù a Strasburgo a farsi europeo, mica a Ibiza a farsi di mojito. E’ la Nipotanza alla sua massima elevazione, santificazione insieme parentale e sociale. Niente a che vedere con re Claudio e Amleto, per dire. Né col maggiordomo di Crudelia e i piccoli dalmati, “venite, venite dallo zio” – che scorticava. Al più, uno è il Virgilio che guida nei misteri romani, l’altro il Dante pisano che rapido apprende. Uno l’ombra che l’altro contiene; l’altro l’ombra che nel primo si ripara e si fortifica. Bosco e sottobosco – a dir di forza e di fresco sollievo e di fronde, certo, non di bassezze politiche. Una danza quotidiana con le pattine ai piedi su pavimenti di marmo tirati a cera: è la leggerezza del passo, si sa, che determina la sicurezza del percorso. Stanno l’uno all’altro Enrico e Gianni (l’uno il Bottini, l’altro la Maestrina dalla penna azzurra), come la parola “eccitazione” – che certo mai pronunciano, che certo non procurano – nel galateo della Contessa Clara: “Aggettivo di pessimo gusto anche perché usato continuamente ed in genere a sproposito”. E infatti sempre sulla bocca di Renzi lo trovate, fateci caso. Sempre sulla bocca di quell’altro scapestrato nipote putativo che fu il Cav., puntate l’orecchio. E a buona ragione, per esempio, nel loro “Le potenti intese. Enrico e Gianni Letta, una famiglia bipartisan” (Castelvecchi) Matteo Marchetti e Luca Sappino assicurano che “Enrico Letta non riuscirebbe a litigare veramente nemmeno con il mostro di Rostov”, e zio Gianni sarebbe forse capace di servirgli una fetta di crostata – ché crostata nei giorni bicameralisti fu, anzi accertato ormai pare che fu crème caramel. “I Lettas, per fare il verso a The Sopranos”, secondo Marchetti&Sappino, scrutatori del lettismo marciante.
E’, la Nipotanza, pianta che per ottima serra avrebbe una Bicamerale, una tavola con sobrietà imbandita, una vicinanza di poltrone a Santa Cecilia. Sono acque che si travasano – pur in vasi su opposti banconi depositati: uno al Pd, un altro al Pdl/Forza Italia, ecc. ecc. Avezzano e l’Aspen Institute, la signora Angiolillo e il British Council, un convegno per dibattere di “Sartoria su misura in Italia: realtà e prospettive” (davvero zio Gianni, uomo di asole e polsini, sulla faccenda una prolusione tenne) e la presidenza del Comitato per l’euro (davvero il nipote Enrico una simile noia ebbe a sbrigare), i Cavalieri del lavoro e i “vedroidi” di VeDrò. Ma soprattutto Giulio Andreotti (“Quando non c’è soluzione non esiste il problema”) e Beniamimo Andreatta (“Nessuno di noi si scopra sconsolatamente affezionato ai cocci di vecchi idoli infranti”) – così distanti nella storia e negli stili e adesso così mirabilmente ricomposti nel presente, come gli aviatori arditi e le signorine innamorate nei romanzi di Liala. Se Gianni è il buon esempio, Enrico è l’ottima evoluzione – uno invitava Andreotti a cena, l’altro Andreotti a cena osservava con giustificato rapimento: “Era la Presenza”, dice – e s’intuisce la devozione e si intravede il fantasma sulle torri di Elsinore (fantasma paterno, però nel caso benevolo) e si presume una giovanile infatuazione per “Ghostbusters”. Di due sorti, la Nipotanza fa un destino – non solo nel cuore e non solo nella ragione, ma nel secolo, piuttosto, nel mondo: mondo che la Nipotanza è destinata a percorrere, smaltite le pastarelle domenicali – con misura, però, tanto per gradire, mai vera abbuffata sulla tovaglia buona di pizzo sangallo. E l’acqua che da vaso a vaso magicamente si travasa, può ingenerare persino confusione, ma nella stessa confusione fornire prove di nuove soddisfazioni. Come fu quando il Belfast Telegraph confuse a giugno il nome di uno, “centre-left politician”, con la foto dell’altro – e il premier nostro altro pareva, ma pure lo stesso sempre lui pareva: come se il ritratto di Dorian Gray venisse fuori dalla sua soffitta. O come esattamente dicevano i cabli di Wikileaks, “il sottosegretario del primo ministro (Prodi), nipote del sottosegretario (dell’ex primo ministro) Berlusconi”, così che se il risultato non cambia mutando l’ordine dei fattori, mutando l’ordine dei contenitori (il Prof. bolognese, il cummenda meneghino) neppure il contenuto cambia. Una quarantina di anni fa, il mitico corsivista dell’Unità, Fortebraccio, sfotteva Gianni Letta con questo ritrattino: “Non conosciamo neppure di vista Letta, che non dimostra, beato lui, più di quindici anni: un paggio Fernando, pettinatino, leggiadrino, civettuolino e aggraziatamente bleso”. Levato il pettinatino (la sorte tricologica, col nipote, fu berlusconiana), non pare quasi di intravedere il nipotino? “Sono legato a zio”, ripete Enrico. “Ho un’alta stima” così, con apposita e misurata pubblica partecipazione, va detto, europea. Zio Gianni non lo dice, ma quanto e come sia legato – e chissà: identificato – in quel nipote studioso e morbido e faticatore facilmente s’intuisce. Quasi ambasciatore del fronte opposto presso se stesso.
Non che a volte qualche piccola differenza – di luce, di riflesso: una nota più alta, una nota più bassa, ma su identico spartito – non si avverta, ma essa non contrasta, anzi l’uniformità completa. Ecco, giusto questa faccenda incresciosa delle “palle di acciaio” proprie, che il nipote premier sembrò autocertificare, che decisamente smentì, “non c’è da parte mia né un cambio di linguaggio né un cambio strategico” – e si capisce che il linguaggio è molto, nella genesi di questa Nipotanza: ché zio mai l’acciaio evocò per le sue, e neppure, a tenersi sempre sul solido ma con maggiore sfumatura di friabilità, gli ottimi confetti prodotti nei pressi della nativa Avezzano, dove appunto in gioventù zio Gianni in uno zuccherificio s’impiegò, mica in salina o addirittura in fonderia. Forse eran solo palle senza aggiunte di parti metalliche, forse solo più indefiniti attributi. O forse forse solo qualcosa di mediaticamente spacciato e nella sostanza impalpabile, che sfuma all’orizzonte ma persiste nella memoria, come certe visioni degli Ufo – che figurarsi, chi ci crede?, ma del resto, possiamo essere da soli nell’universo? Che poi, negli zii di tale felice caratura, un po’ del manzoniano conte antenato sta quieto in perenne allerta: “Sopire, troncare, padre molto reverendo: sopire, troncare…”. Se Jorge Luis Borges aveva l’angoscia degli specchi, la paura di trovarci riflesso un altro diverso da sé, zio Letta e Letta nipote al contrario nello specchio si guardano, e il diverso da sé che incrociano immediatamente uguale a sé percepiscono: la stessa sfumatura, pur nella diversa sfumatura (fosse prodiana, fosse berlusconiana). Come ha scritto Mattia Feltri sulla Stampa, un paio di anni fa: “Gianni sarà al governo perché è fedele, cordiale, intelligente, sobrio, grande mediatore e piace persino a sinistra mentre Enrico sarà al governo perché è fedele, cordiale, intelligente, sobrio, grande mediatore e piace persino a destra”. Come quando i giornali scrivono che Letta è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Letta, o che Letta a Palazzo Chigi ha sostituito come sottosegretario alla presidenza Letta – Enrico e Gianni, Gianni ed Enrico, zio e nipote, senior e junior, presente e futuro, passato mai, identica persistenza. La Nipotanza il nipote innalza, ma anche e sempre lo zio eleva – e quando è il nipote che eleva, è lo zio che allora pure s’innalza. E’ la palla che passa di campo, ma non è mai campo di battaglia, nemmeno stadio di contesa – piuttosto altra e ben più felice rappresentazione dell’idea di Ditta bersaniana: ché quella fu matrigna e terragna, questa amorevole e (apparentemente) eterea. Pur con Renzi da fronteggiare. Pur col Cav. da salvaguardare. Pur con l’Imu da dimezzare. Pur con l’Europa da accontentare. Pur con la Cancellieri da scortare. Pur con Alfano da scrutare.
Zio e nipote, nel groviglio d’acqua e di fango della palude indefinita tra Seconda e Terza Repubblica, necessità del fare e opportunità del sopire, quasi come Papa e cardinale. Non un Papa qualunque né un qualunque cardinale. Lo Zio Papa e il Cardinal Nepote – antica e per secoli osannata istituzione della chiesa cattolica. Con le buone opportunità che la consuetudine offriva, con i disgraziati incidenti che l’abitudine favoriva. “Il nipote di un Papa muore due volte – la seconda volta come tutti gli uomini, la prima volta quando muore suo zio”, spiegò Alessandro VII, che pure qualche nipote intraprendente e immediatamente imporporato dalla natia Siena si tirò dietro. Si capisce che zio Gianni con il nipote Enrico – con la capacità e la misura e l’intelligenza politica che, forse favorita dagli zuccheri giovanili, a volte una generazione all’altra passa – non corre il rischio di ritrovarsi, per esempio, come Gregorio XV con suo nipote Ludovico Ludovisi, di gran talento (e già poco non era, essendo parecchi di questi cardinal nipoti scapestrati o incapaci o semplicemente avidi) ma pure di favolosi approvvigionamenti personali tra abbazie, arcivescovadi, prebende varie – così da finire, alla fine, con l’essere chiamato “il cardinal padrone”, per alcuni storici il più potente di tutta la storia della chiesa. Ci fu un Papa, Clemente VI, che arrivò fino a ben sei cardinal nipoti – un’infornata ecclesiastica che per l’intero rapace parentado, tanto da lasciar traccia negli annali, “in ingrandire ed arricchire i suoi parenti non conobbe limiti, e la Chiesa rifornì di più cardinali suoi congiuntie fecene di sì giovani e sì disonesta e dissoluta vita, che n’uscirono di grande abominazione” – ma forse il più potente di tutti (in magnificenza e mecenatismo e fama e arricchimenti) fu Scipione Borghese, cardinal nipote di Paolo V. Carissimi i parenti, e due nipoti cardinali, ebbe Urbano VIII , quello del processo a Galileo – carissimi soprattutto per il saccheggio compiuto. Erano della famiglia dei Barberini, quelli con le api nello stemma – e così Roma commentò, quando il Papa morì: “Ingrassò l’api e scorticò l’armento”. Ma non ci fu quasi nessuno sul trono di Pietro, fino al Settecento, che non avesse almeno un cardinal nipote – e non pochi furono i cardinal nipoti destinati a loro volta a essere eletti in Conclave. L’ascesa predisponeva all’attenzione la famiglia d’origine, come sapeva bene e benissimo sfotteva Enea Silvio Piccolomini, cardinale e umanista, eletto col nome di Pio II: “Fin ch’ero Enea / nessuno mi volea / or che son Pio / tutti mi chiaman zio”. A qualcuno veniva meglio, a qualcuno veniva peggio. Innocenzo X, Giovan Battista Pamphilj, ci provò con parenti vari, tutti inadatti. L’unica in grado di svolgere quel ruolo sarebbe stata sua cognata, Olimpia Maidalchini – famosissima come “la Pimpaccia”, intelligente e avida e capace, che per dieci anni dominò il Vaticano e forse il letto stesso di Innocenzo X. “La sfortuna di Papa Pamphilj fu che l’unica persona della sua famiglia che aveva le qualità giuste per essere cardinal nipote era una donna”, disse Ludwig von Pastor. Ma così lo stesso la intese il popolo, la cardinal cognata: quando il Papa morì, i romani andarono all’assalto della potentissima Olimpia, volevano la sua pelle: “E’ morto il pastore / la vacca ci resta: / facciamole la festa / cavatele il core. / E’ morto il pastore”.
Andò avanti per secoli. Gregorio Leti, autore del fenomenale “Il puttanismo romano”, sulla faccenda scrisse un altro libretto – destinato anch’esso, si capisce, all’Index librorum prohibitorum”: “Il nipotismo di Roma, o vero Relatione delle raggioni che muovono i Pontefici all’aggradimento de’ Nipoti”. Innocenzo XI ci provò a mettere fine alla storia dei cardinal nipoti, ma fu sconfitto dalla stessa curia. Pietro Ottoboni, cardinal nipote di Alessandro VIII, fu l’ultimo della specie. Nel 1692, Innocenzo XII con la Romanum decet pontificem fece calare il sipario sulla familistica istituzione – anche se qua e là, cardinal nipoti affiorarono nel secolo successivo. Di pochi papi, come di Benedetto XIV, il cardinale Lambertini, si poteva dire “prete senza indolenza né interesse, principe senza favoriti, Papa senza nipoti”. Ma era la stessa chiesa, che premeva a favore dei cardinal nipoti – temendo l’ignoto, soprattutto, dei favoriti. C’è un saggio scritto da Marzio Bernasconi, “Il cuore irrequieto dei papi”, che proprio del dibattito curiale del XVII secolo intorno alla figura del cardinal nipote si occupa. Scrivono le stesse Eminenze al Santo Padre che “gli’Ecclesiastici possono anzi devono ceteris paribus preferire li proprii Parenti à stranieri nel provederli et ingrandirli”, e si scomoda la Bibbia, e si mettono di mezzo Mosè e Davide, “hanno li Sommi Pontefici la stessa amplissima podestà e nelle materie spirituali e nelle temporali che hebbero misticamente Moisé, Aaron, Samuele e Davide. Sommi Sacerdoti del Testamento Vecchio (…), e pure si mantennero sempre con supremi honori tutti della loro famiglia”.
Però lo stesso c’era chi scriveva direttamente al cardinal nipote regnante (con zio Papa regnante), quasi facendo eco agli sberleffi di Gregorio Leti: “Roma tutta e con lei si può dire tutto il mondo, resta talmente scandalizzata dall’avidissima ingordia dei Nipoti e Parenti dei Papi a tesaurizzare, che non può far di meno di non fulminare maledittioni sopra quelli che tutti intenti al loro interesse nulla curano il bene dei Popoli alla lor cura commessi, né che di loro si habbia anco a dire che il nostro Romano Poeta satirico cantò dicendo che a Roma havevano fatto più danno d’un Papa i Nepoti che i Vandali e i Gothi”.
Né il fasto né tantomeno il nefasto di quei secoli, si capisce, tocca e riguarda il cardinal nipote, che oggi è il nostro Nipote premier, e il suo Papa zio. Il merito personale non si discute, la singolare parentela certo incuriosisce – con Enrico che può sempre confidare nella bottiglietta di acqua di Lourdes che un amico saggiamente gli ha regalato (e che lui ha subito spedito al mondo attraverso Twitter: cosa che zio mai farebbe, giustamente valutando che centoquaranta caratteri sono insieme troppo pochi per dire qualcosa di sensato e abbastanza per dire qualcosa di compromettente) e Gianni che qualche amico cardinale, pur nelle ristrettezze e nell’imboscamento cui li costringe Francesco, può sempre consultare. Va bene lo stesso: sono giorni in cui, se non si può mettere insieme una strategia, pure un paio di poste di rosario recitate insieme vengono buone. “We can be heros” – la parola marciante all’ultima adunata di VeDrò. Possiamo essere eroi – mica male. Ma pure essere nipoti è una bella cosa. Dicevano tutti che zio Gianni sarebbe stato un buon presidente della Repubblica. C’è pure chi dice che Enrico sarebbe mica male come presidente della Repubblica. A volte il cardinal nipote diventava Papa. I papi son stati pure al Quirinale – e ci stavano da Papa. C’è da pensarci. VeDrò. Vedremo.
© - FOGLIO QUOTIDIANO 24 novembre 2013
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