Salviamo la bellezza della cultura classica
I nostri licei sono invidiati nel mondo. Vanno migliorati non aboliti
Rimandati in latino
Maurizio Bettini
“La Repubblica”, 30 novembre 2013
Il liceo
classico è in crisi. Negli ultimi mesi e settimane si è parlato molto di
questo tema, anche sui quotidiani, e per la verità, visto il modo in
cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, dovremmo stupirci del
contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche
lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano:
perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella
percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e
gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura”
si è trasformata in una sorta di hobby senza oneri per lo Stato, capace
di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri
“beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo
“culturali”. Ciò detto, penso che allontanare per un momento lo sguardo,
per riflettere sul problema della presenza della cultura classica nelle
scuole italiane – “latino”, “greco” o “latino e greco” che sia – ,
potrebbe risultare più utile che non fare semplicemente della polemica.
Cominciamo dunque col constatare che la scuola superiore italiana appare
ancora caratterizzata da una notevole presenza del latino
nell’insegnamento liceale, soprattutto se si analizza questo dato
tenendo a mente la frequente obbligatorietà di questa disciplina nei
licei. E questo anche a dispetto della continua erosione di ore che
l’insegnamento delle materie classiche ha subito, e continua a subire,
ad opera delle sempre nuove indicazioni ministeriali.
Ritengo importante che le civiltà classiche continuino a far parte della
nostra enciclopedia culturale; sono però altrettanto convinto che
questo legame di memoria debba ormai passare attraverso un paradigma
differente, più vicino alle esigenze culturali della società
contemporanea. Il fatto è che lo studio delle materie classiche, e del
latino in particolare, si fonda su un’idea di cultura piuttosto
parziale: “cultura” nel senso di apprendimento di una lingua nobile – né
io intendo certo mettere in dubbio questa caratteristica – , della sua
poderosa grammatica e della relativa storia letteraria. Altri aspetti
della civiltà classica non vengono sostanzialmente presi in
considerazione: eppure sarebbero proprio quelli che compongono il
paradigma della “cultura” nel senso che l’antropologia ha dato a questa
parola; ma soprattutto nel senso che oggi si dà a questa espressione,
quando parliamo di “incontro fra culture”, di “conflitto fra culture” o
dei “mutamenti culturali” a cui la nostra società va quotidianamente
incontro.
Questo mi pare il punto centrale della questione. Lo studio del latino o
del greco nella sola prospettiva di apprenderne la lingua non mi pare
più attuale; allo stesso modo, penso anche che uno studio puntiglioso
della storia letteraria di Roma antica – le tragedie perdute di Ennio,
la data di composizione delle orazioni di Cicerone, le bucoliche di
Nemesiano – suoni decisamente fuori tono nella scuola di oggi. Quello
che occorrerebbe far conoscere ai giovani è piuttosto la cultura antica
nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate.
Parlare del significato che la divinazione aveva per i Romani,della loro
organizzazione familiare, del modo in cui essi concepivano la
religione, il sogno, i modi del «raccontare», suscita negli studenti un
immediato interesse. La ragione di ciò è molto semplice. Vista sotto
questa forma, la cultura romana si presenta inaspettatamente altra,
diversa dalla nostra, uno spazio privilegiato in cui sperimentare che si
può vivere anche in tanti altri modi, i quali non sono necessariamente
identici ai nostri.
I Romani avevano nomi e comportamenti differenti per ciascuno dei vari
“zii” e “zie” che componevano la famiglia, attribuivano un enorme
significato ai processi divinatori – prima di attaccare battaglia, ogni
generale leggeva scrupolosamente le viscere della vittima sacrificale o
osservava come beccavano i polli – , adoravano piccole divinità che
stavano nel focolare, nutrendole con una patella, e tenevano in casa
donnole e serpenti domestici. Ce n’è già abbastanza per incuriosire
qualsiasi studente, e spingerlo a chiedersi perché mai i Romani si
comportassero in questo modo. Lo stesso si può dire dei momenti in cui
si mettono i ragazzi di fronte all’origine o al significato di certe
parole, possibilmente ancora vive nella nostra lingua – operazione
peraltro non difficile, visto che l’italiano ne ha talmente tante, di
queste parole, da poter essere considerato a buon diritto un semplice
“dialetto” del latino, ovvero un latino parlato male. Se si spiega agli
studenti, per esempio, che il terminemonstrum “mostro” deriva da monere «far
ricordare», questa semplice esperienza linguistica li metterà di fronte
al fatto che, per i Romani, la “mostruosità” era una categoria
religiosa: un vitello con due teste o una pioggia di meteoriti erano per
loro non un disguido della genetica o un fenomeno astronomico, ma
altrettanti messaggi che giungevano loro da parte degli dei, per
ammonirli del fatto che la pax con i signori del mondo si era incrinata.
Sperimentare l’alterità dei Romani può indurre i giovani anche a
pensare che modi di vita diversi, anche quando ci vengono da società
lontane nel tempo o nello spazio, non sono necessariamente inferiori ai
nostri, modelli culturali sorpassati o semplicemente barbari; al
contrario, ci si può accorgere che in queste differenti configurazioni
culturali esistono elementi di civiltà estremamente interessanti, su cui
vale la pena di riflettere soprattutto per comprendere meglio “noi”,
oltre che “loro”. E questa costituisce, assieme alla tolleranza,
un’acquisizione formativa di estrema importanza.
Il liceo classico è ancora, a mio giudizio, un’ottima scuola, che
vediamo invidiata dai nostri concittadini europei ogni volta che capita
di parlarne. Perché dunque distruggere, o snaturare – piuttosto che
cercare di potenziarla in ogni modo –, una delle non molte istituzioni
italiane che hanno credito anche fuori dal nostro Paese?
In ogni caso, se mi fosse permesso concludere queste riflessioni con una
piccola punta polemica, vorrei affermare quanto segue. Qualora un
ministro della Pubblica istruzione decidesse, a un certo punto, di
ridurre ulteriormente il peso orario dell’insegnamento del “latino” e
delle materie classiche in generale – ovvero nell’ipotesi deprecabile di
una sua abolizione – ci piacerebbe perlomeno avere la possibilità di
dire la nostra sulle materie con cui lo si vorrebbe sostituire. Perché
se la scelta dovesse cadere su ore di socializzazione, educazione a
esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la
patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i
dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare
all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un
insegnante che a sua volta non la sa, e altre trovate del genere, il
danno che la cultura italiana riceverebbe da simili decisioni
risulterebbe davvero irreparabile.
Il testo di Maurizio Bettini anticipato qui in parte appare integralmente nel prossimo numero della rivista “il Mulino”
Assolutamente condivisibile l'argomentazione di Maurizio Bettini, così come l'analisi rivolta all'insegnamento delle materie classiche che spesso si arena di fronte all'immaginario dei nostri studenti che vorrebbero vivere diversamente i loro percorsi di studio. Purtroppo l'ottimismo( fiducioso) dell'autore non trova riscontro nella realtà poichè da tempo i ministri non si curano più di consultare i docenti su eventuali percorsi scolastici volti a valorizzare la "vera" scuola, si parla ormai solo di mercato del lavoro e offerte formative, e cercano di convincerci che obiettivo prioritario è portare studio e studenti in zona compro/vendo. E per questo, e qui devo correggere Bettini, via il latino dal liceo linguistico (si studia ormai solo nel biennio) e la storia al linguistico e allo scientifico passa da tre a due ore settimanali nel triennio, tanto a che serve ormai studiare la storia? E' così "invecchiata"! Bisogna guardare al futuro e al mercato europeo! Che bella conquista!
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