29 novembre 2013

I FANTASMI DI CORRADO AUGIAS




I fantasmi di Corrado Stajano



di Clotilde Bertoni

La stanza di un’abitazione privata, gremita di fotografie, riproduzioni, utensili misteriosi; e la loro capacità di squarciare il passato, di restituirne ampi periodi e singoli momenti: il nuovo libro di Corrado Stajano, intitolato appunto La stanza dei fantasmi (Garzanti, pp. 273, E 18,00), esplora con rara intensità la funzione evocativa degli oggetti, in grado di sprigionare suggestioni impensate, di custodire i ricordi consapevoli e di ridestare quelli inconsci, di trattenere o resuscitare interi mondi.
Se il libro prende le mosse da una dimensione personale e intima, in Stajano molto insolita, la oltrepassa però subito: le «memorie imbrogliate» che gli oggetti suscitano e le pagine dipanano agganciano costantemente la sfera privata a quella pubblica, le cronache familiari alla storia collettiva; il circoscritto spazio domestico si apre a un’avvincente e struggente ricognizione di altri spazi e tempi, alimentata da quella tensione critica, da quello slancio di denunzia che hanno innervato sempre la produzione dell’autore.
Un insieme di oggetti disparati – lo strumento di un veterinario, un mucchietto di foto, due schegge di bombe un tempo raccattate dallo zerbino di una cucina – rialza il sipario sulla Cremona e sui paesi circostanti patria della famiglia materna, sollecitando la ricostruzione della vita di un nonno agricoltore mai conosciuto, alcune reminiscenze della propria fanciullezza di «Tonio Kröger di provincia», ma anche l’inquadratura di un arco storico che va dalla grande guerra al fascismo alla liberazione. Un modellino in legno per un macchinario industriale riporta alla mente l’incontro con l’operaio che l’aveva costruito, Guido Alasia, padre del Walter brigatista giovanissimo, divenuto in rapida sequenza assassino e vittima durante uno scontro mai del tutto chiarito con la polizia; e apre uno spaccato sulla prima fase degli anni di piombo (alla cui ultima stagione Stajano ha dedicato invece un altro incisivo libro, L’Italia nichilista). Da una carta geografica della Sicilia, terra d’origine del padre, «isola amata e disamata», si irradiano memorie eterogenee, i soggiorni estivi di ragazzo, un’intervista a Lucio Piccolo, le sofferte indagini sul fenomeno mafioso.
È invece un’associazione particolarmente sinuosa a dar vita al capitolo più direttamente autobiografico, vero centro nevralgico del volume: una riproduzione dell’Auriga di Delfi, emblema di un ricordo mancato, di una visita non avvenuta al museo che lo custodisce, risveglia il ricordo bruciante del «lunghissimo giorno di paura» che l’aveva resa impossibile, il 21 aprile 1967, in cui l’autore e sua moglie (la fotografa Giovanna Borgese), giovane coppia in vacanza ad Atene, assistono sconvolti in diretta al golpe dei colonnelli; giorno di cui il testo ripercorre le diverse tappe e gli stridenti contrasti, la sovrapposizione alla radio dei decreti liberticidi e degli slogan di propaganda, l’alternanza tra i momenti di terrore (la corsa per strada tra gli spari) e quelli surreali (l’incontro con l’ancora ignaro ambasciatore italiano che ascolta distratto le notizie sfogliando la sua agenda), e soprattutto il passaggio dal senso iniziale di straniamento – che così spesso accompagna l’esperienza ravvicinata delle grandi svolte storiche – a un senso crescente di indignazione partecipe che segnerà la definitiva vocazione alla scrittura impegnata e al lavoro di inchiesta («La Grecia fu una grande passione, il mio ’68. [...] Com’erano stati evanescenti, prima di allora, quei temi che poi mi appassioneranno, l’ingiustizia, la difesa dei diritti, la sopraffazione, la violenza, l’esclusione»).
Un lavoro di inchiesta, quello di Stajano, tanto più penetrante perché capace di illuminare dinamiche differenti di sopruso e facce altrettanto differenti del dolore, di inoltrarsi negli stati d’eccezione quanto nel lungo corso della vita quotidiana. Capacità più che mai resistente e vivida in questo libro: l’oppressione del fascismo ha non solo il volto ribaldo del duce e dei gerarchi, ma anche quello placidamente opportunista della grassa borghesia cremonese che «struscia ai piedi» del ras Farinacci (per poi rimuovere la propria ventennale complicità con una frettolosa epurazione); al martirio lancinante dei partigiani e dei deportati si affianca quello sgranato giorno per giorno dei contadini privi di ogni diritto, sbalzati dalla prigionia delle cascine a quella delle trincee; la scia di sangue degli anni di piombo si intreccia a una scia meno vistosa di angherie sottili, come quelle inflitte ai familiari di Walter Alasia, al fratello oggetto di discriminazione sul luogo di lavoro, ai genitori nel momento della tragedia ignorati dal loro partito, un imbarazzato Pci (che avrebbero ugualmente continuato a votare); il potere della mafia è individuato, ancor più che nell’aperta brutalità del crimine, nella vischiosa rete di connivenze e affari intessuta nella sua ombra; la rievocazione della lotta antimafiosa accosta ai nomi sacri di Falcone e Borsellino quelli di eroi precedenti assai meno celebrati, caduti per le strade del centro di Palermo, quasi tutti lasciati senza protezione allora, spesso cancellati dalla memoria adesso, come il procuratore Gaetano Costa, ucciso mentre curiosava tra bancarelle di libri poco tempo dopo aver firmato da solo decine di ordini di cattura, come il Pio La Torre sempre in prima linea, coraggioso autore di leggi decisive, assassinato mentre si recava al lavoro insieme al compagno di partito Rosario Di Salvo, e come parecchi altri ancora.
L’ibridazione tra il taglio saggistico e quello narrativo è sorvegliatissima, esclude risolutamente dilatazioni o deformazioni romanzesche, resta lontana dalle tipologie di non fiction attualmente più diffuse; eppure, il libro va continuamente oltre la rigidità dei dati oggettivi e dei fatti accertati, continuamente esprime la persuasione che «i documenti sono soltanto scheletri che vanno nutriti di carne». Innanzitutto, con l’energia di una prosa serrata e densa, insieme sobria e incandescente; e poi con saltuari ricorsi alla fantasia, che prendono però non la forma imperiosa dell’invenzione, ma quella inquieta della congettura aperta: i vari interrogativi posti dal racconto – sull’atteggiamento verso il fascismo del nonno, self made man «con il genio della terra», su cosa passava nel cuore di tre partigiani immortalati in una foto (avuta in dono da Nuto Revelli) mentre si avviavano alla fucilazione, sulle ragioni che portarono velocemente Walter Alasia dalla contestazione al terrorismo – restano sospesi, e tanto più perciò pungolano le emozioni e il pensiero.
Inoltre – come in molte altre opere dell’autore, dalla più celebre, Un eroe borghese, alla più recente, La città degli untori – la letteratura è un persistente punto di riferimento: i libri, che insieme agli oggetti popolano la stanza dei fantasmi, passano a popolare le pagine del testo, evocati fugacemente (l’aggettivo «dolceridente» coniato da Alceo per Saffo, riservato a un’immagine della madre ragazza), o invece estesamente citati, volti a enucleare sensi profondi del discorso: da un brano del Grand Meaulnes di Alain-Fournier sulle atmosfere magiche e misteriose della provincia, alle parole del principe Andrej tolstojano sulla follia della guerra, fino al «riaffluir di sogni» agognato nel componimento di Montale Riviere, su cui il volume termina, come a schiudere nello sguardo amarissimo sul nostro paese «rotto e corrotto», uno spiraglio di speranza, un auspicio di rigenerazione.
[Questo articolo è già uscito su «alias - il manifesto»].

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