30 novembre 2013

RILEGGERE BASAGLIA







Pier Aldo Rovatti

Quando c’erano i matti. La lotta di classe secondo Basaglia


Come si fa un corso su Basaglia? Noi leggiamo delle parole, ma Basaglia è tutto rivolto alle pratiche. C’è o non c’è un pensiero di Basaglia? Io credo che ci sia, ma non è un pensiero facile da disegnare. Possiamo dire che abbia un’intonazione prevalentemente fenomenologica, ma dopo aver usato questa espressione non siamo giunti da nessuna parte, perché far rientrare Basaglia all’interno di una corrente filosofica significa dissanguare, rendere astratta un’esperienza, che è solo in parte un’esperienza di pensiero. Ci sono anche altri autori che entrano a far parte del pensiero di Basaglia, ci sono Foucault, Goffman… andremo alla ricerca di un’identificazione che ancora manca. Ma chi è Basaglia? Un apolide? Qualcuno che non può essere inserito né nella storia della psichiatria né in quella del pensiero?



C’è anche una parte del pensiero di Basaglia fortemente influenzata dal marxismo, da cui preleva alcune nozioni, come quella di una lotta di classe tra chi ha il potere e chi lo subisce, in questo caso gli internati, caratterizzati dalla parola “miseria”. Quando Basaglia entra nella bolgia infernale del manicomio di Gorizia, quello che vede è la miseria. C’è un accoppiamento nella testa di Basaglia tra psichiatria e miseria, tra quella psichiatria che bisogna esercitare e la miseria di fronte alla quale ci si trova quando si esercita la psichiatria dentro l’istituzione totale del manicomio. Anche le storie triestine sono storie di povertà, miseria ed esclusione.

La parola esclusione spicca in tutta la riflessione di Basaglia: gli esclusi, gli interdetti, gli emarginati. Perciò il suo discorso è attuale, perché riguarda quel gioco tra inclusione ed esclusione che comanda la nostra società, dove l’esclusione non è solo quella sotto i nostri occhi, l’esclusione degli altri, sottoprivilegiati o senza privilegi, ma ha a che fare anche con la vita comune, l’esperienza del sentirsi esclusi può avvenire anche in situazioni di non-miseria e anche quando non siamo oggetto di un effettivo rifiuto sociale (rifiuto che molto spesso passa attraverso un’apparente accoglienza).


Ho l’impressione che Basaglia –nomen che comprende l’esperienza, il pensiero, gli effetti che produce – non sia stato confinato, ma lentamente e gradualmente assimilato dalla psichiatria ufficiale. Nei luoghi deputati di questa psichiatria gli sono state aperte le porte: nessuno oggi si azzarda a fare un’esplicita difesa dell’istituzione psichiatrica intesa come istituzione di contenimento. La distruzione del manicomio è accolta da tutti, ma credo che spesso si dica una cosa e se ne faccia un’altra. Basaglia, nell’esperienza psichiatrica italiana, è in realtà un cane morto. Si va avanti diritti nella convinzione che la medicalizzazione della cosiddetta follia sia la linea da seguire, con tutta la fiducia accordata alla scoperta scientifica e al continente delle neuroscienze, il cui obiettivo è di costruire la catalogazione delle malattie mentali.

Ho conosciuto direttamente persone che hanno avuto esperienze con le strutture della cura psichiatrica e quasi mai ne ho ricavato una bella immagine. La velocità con cui a una situazione viene collegata un’etichetta è molto rapida, perfino là dove ci dovrebbe essere maggior cautela, vista la storia passata. Lo stigma della malattia mentale non è davvero scomparso. Una volta c’era anche uno stigma legato alla psicoanalisi, le persone che erano in analisi non amavano dirlo, ma questo era un piccolo stigma, invece, ancora oggi, se affermi di essere psichiatrizzato, la tua identità si sgretola agli occhi degli altri e anche ai tuoi stessi occhi. È un territorio estremamente delicato, è molto facile che certe parole (psicosi, schizofrenia, disturbo bipolare, ecc.) vengano usate, e una volta usate rimangano appiccicate addosso alla persona.



Quanta civiltà c’è in un operare che non vuole applicare etichette? In una pagina delle sue Conferenze brasiliane Basaglia afferma che non è una questione di diagnosi, ma di saper descrivere la crisi di vita che si ha di fronte. Non arriverei a dire che la filosofia può sostituire gli psicofarmaci, fa un po’ ridere. Fa però meno ridere se alla filosofia diamo un ruolo. Cosa se ne fa Basaglia della filosofia? La filosofia stessa diventa per lui qualcos’altro. Prima di dare un’etichetta, di fare una diagnosi, forse c’è da fare un’operazione – e qui può entrare in gioco la fenomenologia – di sospensione del giudizio.

Basaglia si identifica con questa difficile lotta, difficile perché i numeri sono grandi: cinquecento, mille persone ricoverate in manicomio. È molto complicato lavorare singolarmente con questi numeri, perché le istituzioni hanno già livellato. Basaglia sospende il giudizio e ipotizza un lavoro inimmaginabile quanto a impegno, strutture, personale, formazione, che entri nelle storie singole, storie che possono anche non essere cupe. La storia del San Giovanni liberato è anche una storia di feste (“Marco Cavallo” e tante altre situazioni), Basaglia libera anche una voglia di allegria.



Prima ancora di ogni terapia bisogna analizzare la crisi di vita. Come si fa? Come utilizza Basaglia la sua formazione psichiatrica? La psichiatria non va rifiutata, va messa in una situazione di sospensione rispetto all’attenzione alle crisi di vita. Con questo Basaglia apre il campo a tutta una serie di implicazioni e magari anche a una ripresa di interesse nei confronti della psicoanalisi. Imparare a sospendere il giudizio, a rallentare la velocità con cui si stigmatizza, ecco il punto. Se esiste il manicomio, l’etichetta coincide con l’entrata in manicomio; se entri lo stigma è immediato. Ma anche quando abbiamo distrutto il manicomio permane il problema della velocità del-l’etichetta, nell’individuo e nella società, in ognuno di noi (sesso, età, provenienza, colore della pelle, cultura).

(Da: Pier Aldo Rovatti, Restituire la soggettività, Alpha & Beta, 2013)


(Da: La Repubblica del 30 novembre 2013)




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