15 novembre 2013

SALVIAMO LA LINGUA SARDA


E' in corso su La Nuova Sardegna un dibattito di grande spessore politico e culturale sulla sopravvivenza della lingua sarda in una società sempre più standardizzata e ad una dimensione. C'è chi vede nella pluralità delle parlate locali una garanzia di autenticità culturale e chi invece auspica una lingua sarda unica come fattore indispensabile di identità nazionale.

Giulio Angioni

Lingua sarda, salviamola dai cattivi maestri 

In Sardegna si è legiferato e sperato molto sulla cultura sarda e sul destino del sardo. L'avevano già fatto in Provenza, in Bretagna, in Tirolo, in Friuli, in Corsica, nelle regioni storiche britanniche e spagnole e in molti altri luoghi. Dovunque senza i risultati sperati, compresa la Catalogna: feste poetiche, premi letterari, raduni folkloristici, convegni di studio specialistici e no, toponomastica in parlate locali, insegnamento scolastico con risultati deludenti. L'idea era ed è che le lingue locali (magari unificate) possano e debbano servire alla normale comunicazione pubblica e privata, finora loro negata da lingue egemoni spesso di provenienza esterna.

Anche in questi tempi grami il destino del sardo rimane cosa seria, se non altro perché occupa non poche menti e scalda molti cuori. In Sardegna oggi c'è più accortezza di quando, decenni addietro, dominava il sardo, bisognava imparare l'italiano e si credeva che l'italiano guadagnasse dalla repressione del sardo, in vista di un inserimento collettivo e individuale nella compagine italiana.

Oggi invece non è rara l'idea che conoscere più lingue, specie se locali, è meglio per la conoscenza di entrambe, che il plurilinguismo non è un guaio ma un'opportunità, e che non è nemmeno cosa difficile, dato che anche lo scemo del paese è bilingue in un paese di bilingui. Il guaio semmai è che spesso si dimentica che, comunque si parli, rimane più importante ciò che si dice. Se oggi l'italiano è usato normalmente da tutti i sardi, è partendo da questa novità che bisogna preoccuparsi delle altre parlate della Sardegna. Ciò troppo spesso è accaduto in modi inadatti, paventando letali influenze e ibridazioni, imponendo unificazioni, trascurando il dato capitale che l'italiano in Sardegna è già un italiano sardo inconfondibile per pronuncia, lessico, sintassi e stile oggi anche letterario, che unifica linguisticamente tutti i sardi per la prima volta nell'ultimo millennio, rendendo meno urgente e non indispensabile l'ufficializzazione di una qualche forma di sardo.

La fine delle nostre parlate è dunque inevitabile, come la fine dei modi di vestire e di abitare, su cui da noi si piange molto meno? Comunque sia, è giusto che tutto ciò non accada senza di noi, pur sapendo che anche le lingue hanno tendenze incoercibili: lo sanno a loro spese i puristi, come sempre e dovunque anche qui malati di ortografia e di etimologia e odiatori dell'influsso tra lingue.

Mentre i più ingenui riciclano slogan fallaci come che a salvare il sardo si salva tutto e che se si perde il sardo si perde tutto. E certi politici credono, o fingono di credere in campagna elettorale, che ciò che non si ottiene altrimenti, si ottiene per decreto, seguiti da entusiasti più o meno pasticcioni, da incapaci, da profittatori, ignari o incuranti dei prezzi da pagare, dei tempi e modi e delle forze in campo. Mentre c'è sempre chi accusa di lesa sardità chi non pasticcia come loro con la politica o con l'ingegneria linguistiche.



Già, politica e ingegneria linguistiche da noi negli ultimi due decenni si sono quasi sempre ispirate a un unitarismo ottecentesco sabaudo, quando non inconsciamente mussoliniano, armato di decretazione tetragona quando non anche squadristica, puntellato dal sottinteso che, giusto o sbagliato, la patria sarda soprattutto.

Cosa che anche da noi, e non solo in Padania, piace a una silenziosa e sorniona maggioranza, sempre disposta ad applaudire dichiarazioni sardiste che non costano niente, salvano l'anima e sono pure moda, come le proclamazioni vuote che il sardo è una lingua e non un dialetto.
Niente dura per sempre

Purtroppo niente, e nemmeno le lingue durano per sempre, tanto meno quelle subalterne e dei piccoli popoli.

A evitarlo, finora non c'è mai stata una decretazione risolutiva. Ma se nemmeno i piccoli popoli si rassegnano alla scomparsa delle loro lingue e di altri aspetti dei loro modi di vivere, qui da noi oggi si impone l'ipotesi che la causa del sardo come lingua ufficiale delle relazioni pubbliche sia già una causa persa, anche per errori recenti di attivisti e politici che ora si muovono come Pilato, buttando su altri la responsabilità di non riuscire a fare ciò che essi si limitano a proclamare.

E in effetti è possibile che non ci sia in Sardegna una volontà generale abbastanza forte per compiere un’impresa così ardua, molto più ardua e costosa, sempre e dovunque, di quanto non immaginano il consiglio e la giunta regionali sarde, e soprattutto molto più ardua e costosa di quanto non immaginino a volte certi militanti del sardismo linguistico, così spesso poco accorti e informati delle difficoltà da affrontare, al di là dei proclami, a volte estremistici, al di là dei verbalismi vuoti, mentre quasi nessuno si mostra capace di suscitare e reclutare le forze, ma quasi solo di accanirsi contro presunti nemici sardi soprattutto interni accusati di tradimento, di scarso sardismo, di esterofilia linguistica e di altre vergogne. C'è anche chi individua il nemico del sardo nelle università sarde e in altre istituzioni ufficiali del sapere, dove invece non mancano né gli ideatori di politiche linguistiche improbabili, né i complici del burocratismo regionale, del foraggiamento al folklorismo deteriore, dell'improvvisazione, e dove non mancano le prefiche della sardità vilipesa dalla matrigna Italia e dai sardi servi.


Eppure, in tema di consapevolezza della situazione linguistica, le cose in Sardegna stanno molto meglio di ieri, quando chi aveva voce in capitolo auspicava più italiano e meno sardo. Il sardo allora era dominante e si poneva il problema di apprendere l'italiano, ma erroneamente pensando che l'italiano avesse da guadagnare dall'indebolimento (e a scuola dalla repressione) del sardo. Bisogna puntare sul fatto che oggi non è rara la consapevolezza che il plurilinguismo è un vantaggio, un arricchimento; e che è un'occasione per un recupero di coscienza storica e sociale di ciò che siamo, siamo stati e vogliamo essere in futuro, oltre che utile a una conoscenza più profonda delle parlate disponibili.

Ora che le speranze generate dalla legislazione regionale, specie di quella dei tempi della giunta Soru, ora ci vuole calma e riflessione, anche per evitare che la delusione sia distruttiva di ogni fattività, specialmente quando si faranno i conti e ne risulteranno bruscolini pagati a suon di milioni di euro. Ora bisogna riflettere e guardarsi intorno a come le cose sono andate qui e altrove, per non chiamarsi fuori accusando la pochezza di noi sardi, al solito incapaci e disuniti, come già accade.
È successo e succede di solito altrove in casi simili al nostro che si sia ottenuto poco, oltre i proclami, gli slanci patriottici, i circoli di irriducibili e gli atti di fede. Proclami e atti di fede forse qui da noi sono ancora necessari, come supporto sentimentale in questi momenti di ripensamento, rifiutando finalmente la trita sindrome del complotto antisardo. E ci si decida magari a considerare un valore il pluralismo linguistico ancora esistente in Sardegna, coltivandolo ciascuno come meglio può.

(Da: La Nuova Sardegna del 10 novembre 2013)





Alberto Mario Delogu

«Caro Angioni, il suo fatalismo non lo possiamo condividere»



Gentile Giulio Angioni, dal suo articolo "Lingua sarda, salviamola dai cattivi maestri" del 10 novembre scorso sulla Nuova Sardegna, traspare un fatalismo linguistico quasi entropico, quasi darwiniano. "La fine delle parlate è inevitabile", suggerisce lei. Eppure lei è un intellettuale, e sa molto bene che la lingua è tanto un prodotto di liberi flussi, quanto di puntuali indirizzi politici.

Anzi, le ricorderò (non che lei già non sappia) che la lingua di un popolo ne è più figlia legittima che naturale. Così per l'italiano, cui anche il milanese Manzoni dovette piegarsi, perché i suoi lettori non si limitassero al numero di 25. Così per la Catalogna, che scegliendo ope legis la variante barcellonese restituì forza alla sua llengua. Così nel Quebec, dove la draconiana legge 101 salvò il francese da morte certa nel Nordamerica anglofono. Così persino l'inglese, per il quale George Puttenham, a metà del 1500, teorizzò la scelta della variante londinese ("Ye shall therefore take the usual speach of the Court, and that of London and of the shires lying about London within 60 miles") con motivazioni che oggi sarebbero etichettate di elitarismo e di fascismo culturale.

Come vede, l'unitarismo linguistico, che a lei che vive in Sardegna appare come un Minotauro sabaudo-mussoliniano, è moneta corrente nell'evoluzione socio-politica del mondo, ieri come oggi. Di "decretazione tetragona" si sono macchiati tanto l'Ucraina del dopo-URSS quanto i democratici Stati Uniti nella chiusura verso il bilinguismo anglo-ispanico. Si chiamano scelte politiche, e determinano (e mi creda, determinano eccome!) il destino linguistico di un popolo. Di "decretazione tetragona" siamo del resto vittime sia io che lei, che su queste pagine conversiamo in italiano.


Eppure, tertium non datur. Il "pluralismo linguistico" che lei si augura, quello sì che in Sardegna sarebbe (meglio: è) un divide et impera, non molto dissimile dallo stracampanilismo che divide bidda da bidda e cunzadu da cunzadu, ciascuno convinto di parlare il vero sardo, e tutti indistintamente incapaci di scriverlo. E tutti insieme in marcia verso l'oblio, consolati da una "diversità" che lei vede come un valore, ma che molti di noi, che guardiamo da lontano, vediamo come un ergastolo di minorità.

È tempo invece che gli intellettuali sardi abbandonino il fatalismo remissivo dei "tempi grami" e prendano per mano il proprio ruolo, industriandosi d'indicare una strada. Anche coloro, come lei, che devono il proprio credito ed il proprio uditorio ad un idioma "anche letterario", che a suo parere unifica linguisticamente tutti i sardi, ma che a parere d'altri, tra i quali metto Gramsci, resta lingua "povera, monca, puramente infantile", e comunque testimonianza di un'imposizione autoritaria. Dettata a suo tempo dalle migliori intenzioni, per carità. Certo non peggiori di quelle di coloro che oggi si spendono per una lingua ed una grafia sarda comune.


(Da: La Nuova Sardegna del 15 novembre 2013)

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