L' Homo academicus
di Pierre Bourdieu
26 novembre 2013 |
[In Homo academicus,
pubbicato in Francia nel 1984, Pierre Bourdieu applica l’analisi
sociologica al mondo a cui egli stesso appartiene, quello degli
intellettuali, e in particolare dell’università. Rifiutando la polemica ad hominem
tipica della pamphlettistica anti-intellettuale, Bourdieu indaga il
mondo accademico come uno spazio di relazioni oggettive, un ‘campo’ di
forze costituito dagli attori e dalle istituzioni che vi agiscono, dei
quali è possibile descrivere gli habitus, le traiettorie, l’illusio
specifica, le poste in gioco. L’università viene così svelata come un
campo di lotte in cui i docenti, differenziati per risorse e
caratteristiche sociali, si scontrano per mantenere lo status quo,
o per trasformare i rapporti di forza. La traduzione italiana esce in
questi giorni per le edizioni Dedalo nella traduzione di Antonietta De
Feo, con prefazione di Mirella Giannini e postfazione di Loïc Wacquant
(collana La scienza nuova, 376 pp.). La prefazione di Wacquant si può
leggere sul sito Ragioni pratiche (Michele Sisto)].
Capitolo primo
Un «libro da bruciare»?
E non vogliono
che si faccia la storia degli storici. Si dedicano volentieri a trattare
molto a fondo l’indefinitezza del dettaglio storico. Ma non vogliono,
loro, essere considerati come parte di questa indefinitezza del
dettaglio storico. Non vogliono essere parte dell’ordine storico. È come
se i medici non volessero ammalarsi e morire. C. Péguy, L’argent (suite)
Se si prende come oggetto di studio un mondo sociale nel quale si è coinvolti, si è poi obbligati a confrontarsi, in una forma che si può definire drammatizzata,
con alcuni problemi epistemologici fondamentali, legati alla questione
della differenza tra conoscenza pratica e conoscenza scientifica e,
nello specifico, alla particolare difficoltà sia di rompere con
l’esperienza indigena sia di ricostruire poi la conoscenza che si ha
proprio grazie a questa rottura. Si sa bene che ciò che costituisce un
ostacolo alla conoscenza scientifica è tanto l’eccesso di prossimità
quanto l’eccesso di distanza, e come sia difficile sanare la rottura e
ristabilire questa relazione di prossimità che, a costo di lavorare a
lungo non solo sull’oggetto ma anche sul soggetto della ricerca,
consente di integrare tutto ciò che si può conoscere in quanto si è
dentro e tutto ciò che non si può o non si vuole conoscere fintanto che
si resta dentro. Si conoscono forse meno i problemi che sorgono,
soprattutto riguardo alla scrittura, quando ci si sforza di
trasmettere la conoscenza scientifica dell’oggetto, e che sono
particolarmente evidenti quando si tratta dell’esemplificazione:
una tale strategia retorica, comunemente utilizzata per «far
comprendere», ma che induce il lettore ad attingere dalla sua stessa
esperienza – dunque furtivamente a far ricorso, leggendo, a informazioni
incontrollate – comporta inevitabilmente la riduzione sul piano della
conoscenza ordinaria di quelle costruzioni scientifiche che sono state
ottenute contro di essa[1].
Basta anche inserire dei nomi propri – e come rinunciarvi del tutto,
visto che si tratta di un universo dove è importante «farsi un nome»? –
per incoraggiare la propensione del lettore a ridurre a individuo
concreto, percepito come indifferenziato, l’individuo costruito che, in
quanto tale, esiste solo nello spazio teorico in cui si mettono in
relazione di identità e di differenza l’insieme esplicitamente definito
delle sue proprietà con tutte le caratteristiche specifiche, definite
secondo gli stessi princìpi, degli altri individui.
Ma, per quanto ci si possa sforzare al
massimo di evitare tutte le allusioni che rischiano di funzionare nella
logica ordinaria, quella del pettegolezzo, della maldicenza o della
calunnia, o quella del libello e del pamphlet, che se oggi si mascherano
facilmente da analisi, non rinunciano a un solo aneddoto, una sola
riga, una sola parola solo per il piacere di ferire o di far bella
figura, per quanto ci si possa astenere metodicamente, come qui, dal
richiamare questioni già note a tutti – come gli evidenti rapporti degli
accademici con il giornalismo, senza parlare di quei legami nascosti,
familiari o di altro tipo, della cui scoperta gli storici faranno una
questione d’onore – non si sfuggirà comunque al sospetto di fare
un’azione di denuncia di cui il lettore stesso è di fatto
responsabile: è lui che, leggendo tra le righe, riempiendo più o meno
coscientemente i vuoti dell’analisi, o più semplicemente pensando, come
si dice, «ai fatti suoi», trasforma il senso e il valore del protocollo
dell’indagine scientifica volutamente censurato. Dal momento che non può
scrivere tutto ciò che sa, comprese le questioni che i lettori più
desiderosi di denunciare le sue «denunce» spesso conoscono meglio di
lui, sebbene su un piano completamente diverso, il sociologo rischia di
sembrare arreso alle più sperimentate strategie della polemica,
dell’insinuazione, dell’allusione, dei mezzi termini, dei sottintesi,
tutte procedure che sono particolarmente care alla retorica
universitaria. Eppure questa storia senza nomi propri che il sociologo
si limita a scrivere non è più rappresentativa della verità storica di
quanto lo sia la narrazione aneddotica dei fatti e delle gesta dei
singoli agenti, celebri o sconosciuti, alla quale si abbandona così
facilmente la storia, vecchia o nuova: gli effetti della necessità
strutturale del campo si manifestano solo attraverso legami personali
apparentemente accidentali, basati su casualità socialmente costruite di
incontri e di frequentazioni comuni e sull’affinità di habitus, in
termini di simpatia o antipatia. E come non rimpiangere che sia socialmente impossibile dimostrare
e far provare ciò che ritengo essere la vera logica dell’azione storica
e la giusta filosofia della storia, utilizzando appieno i vantaggi
legati alla relazione d’appartenenza, che consente di combinare
l’informazione raccolta attraverso le tecniche oggettive dell’indagine
con le intuizioni personali suscitate dalla familiarità?
Così, la conoscenza sociologica è sempre
suscettibile di essere riportata a una visione primaria quando una
lettura «interessata» finisce per concentrarsi sull’aneddoto e sui
singoli dettagli e, non essendo fissata in un formalismo astratto,
riduce a senso ordinario le parole che la lingua colta e quella
ordinaria hanno in comune. Questa lettura quasi inevitabilmente parziale
genera una falsa comprensione, fondata sull’incapacità di riconoscere
tutto ciò che si definisce come conoscenza propriamente scientifica,
cioè la struttura stessa del sistema esplicativo. Essa disfa quello che
la costruzione scientifica aveva fatto, mescolando ciò che era stato
separato, ovvero l’individuo costruito (singola persona o istituzione),
che non esiste se non all’interno della rete di relazioni elaborate dal
lavoro scientifico, e l’individuo empirico, direttamente accessibile
all’intuizione ordinaria. Dissolve tutto ciò che distingue
l’oggettivazione scientifica tanto dalla conoscenza comune quanto dalla
conoscenza semi-colta che, come si può ben vedere nella maggior parte
dei saggi sugli intellettuali – più mistificati che demistificatori –,
ha quasi sempre per principio quello che si potrebbe chiamare «il punto
di vista di Tersite», il semplice soldato invidioso, in Troilo e Cressida
di Shakespeare, spietato nel diffamare i grandi, oppure, per rimanere
più vicino alla realtà storica, «il punto di vista di Marat», di cui si
dimentica che fu anche, o prima di tutto, un cattivo fisico[2]. Essere poco lucidi comporta il bisogno di ridurre,
un bisogno ispirato dal risentimento, e conduce a una visione
ingenuamente finalista della storia che, incapace di andare al principio
ultimo delle pratiche, si ferma alla denuncia aneddotica di quelli che
appaiono come responsabili e finisce per sovrastimare i presunti autori
dei «complotti» denunciati, per farne cinici fautori di ogni spregevole
azione e per di più farli apparire in tutta la loro grandezza[3].
Inoltre, quelli che campeggiano al
confine tra la conoscenza colta e la conoscenza comune – saggisti,
universitari-giornalisti e giornalisti-universitari – hanno un interesse
vitale a confondere tale confine e a negare o annullare ciò che separa
l’analisi scientifica dalle oggettivazioni parziali, attribuendo a
singoli individui o a lobby – come si è visto nel caso del direttore di
una trasmissione televisiva letteraria[4] o nel caso dei membri dell’École des Hautes Études legati a «Le Nouvel Observateur» – gli
effetti che coinvolgono in realtà tutta la struttura del campo. Sarà
sufficiente che ora si lascino andare a una lettura guidata dalla
semplice curiosità, interpretando esempi e casi particolari secondo la
logica del pettegolezzo mondano o del pamphlet letterario, per ridurre
la spiegazione sistematica e relazionale, che è propria della scienza,
alle procedure più ordinarie della polemica riduttiva, la spiegazione ad hoc attraverso argomenti ad hominem.
Un primo effetto dell’analisi (che si
può trovare in Appendice 3) del processo (o della procedura) con cui si
raggiunge la notorietà giornalistica è che viene subito segnalata
l’ingenuità di tutte le denunce personali che, con il pretesto di
oggettivare il gioco, vi sono tanto più pienamente implicate quanto più
tentano di mettere le apparenze dell’analisi al servizio degli interessi
associati a una posizione in questo stesso gioco. Il funzionamento
dell’hit-parade letteraria non lo si deve al singolo agente (nel caso
specifico, Bernard Pivot), per quanto possa essere abile e influente, o a
una particolare istituzione (trasmissione televisiva, rivista), e
neppure all’insieme degli organi giornalistici capaci di esercitare un
potere sul campo della produzione culturale, ma all’insieme delle
relazioni oggettive che costituiscono questo campo e precisamente quelle
che si stabiliscono tra il campo della produzione per i produttori, e
il campo della grande produzione. La logica tipica dell’analisi
scientifica trascende ampiamente le intenzioni e le volontà individuali e
collettive (il complotto) degli agenti più lucidi e potenti, quelli
indicati dalla ricerca dei «responsabili». Detto questo, sarebbe del
tutto sbagliato trarre da queste analisi un motivo per cancellare
qualsiasi responsabilità individuale nella rete di relazioni oggettive
in cui ciascun agente è coinvolto. Contro chi, nell’enunciato delle
leggi sociali trasformate in destino vorrebbe trovare l’alibi di una
fatalista o cinica rassegnazione, occorre ricordare che la spiegazione
scientifica, che fornisce i mezzi per comprendere e perfino
giustificare, è anche quella che può portare al cambiamento. Una
conoscenza matura dei meccanismi che governano il mondo intellettuale
(impiego volutamente questo linguaggio ambiguo) non dovrebbe avere per
effetto di «liberare l’individuo dal fardello imbarazzante della
responsabilità morale», come teme Jacques Bouveresse[5].
Al contrario, essa dovrebbe insegnargli a situare le sue responsabilità
là dove si situano realmente le sue libertà e a rifiutare ostinatamente
le vigliaccherie e ogni minima rinuncia con cui si finisce per piegarsi
alla necessità sociale, a combattere in se stesso e negli altri
l’indifferentismo opportunista o il conformismo disincantato, che
accetta di dare al mondo sociale tutto quello che gli chiede, tutte le
piccolezze della rassegnata compiacenza e della complicità sottomessa.
È ben noto che i gruppi non amano «chi
fa la spia», forse soprattutto quando la trasgressione o il tradimento
può dirsi che siano tra i loro più alti valori. Gli stessi che non
esiterebbero ad acclamare come «coraggioso» o «lucido» il lavoro di
oggettivazione quando riferito a gruppi estranei e antagonisti, saranno
portati a gettare sospetto sui requisiti di lucidità di chi pensa di
essere in grado di analizzare il proprio gruppo. L’apprendista stregone,
che decide a suo proprio rischio di interessarsi alla stregoneria
indigena e ai suoi feticci, invece di andare a cercare in terre lontane
le rassicuranti attrazioni di una magia esotica, deve aspettarsi di
veder ritorcere contro se stesso la violenza che ha scatenato. Karl
Kraus era in una posizione tale da poter formulare la legge secondo cui
l’oggettivazione ha tante più chance d’essere approvata e celebrata come
«coraggiosa» nelle «cerchie familiari» quanto più gli oggetti ai quali
si applica sono lontani nello spazio sociale; e anzi egli affermava,
nell’editoriale del primo numero della sua rivista, «Die Fackel», che
colui che rifiuta il piacere e i facili benefìci della critica
distaccata per indagare l’ambiente immediato – dove è consigliabile che
consideri sacra qualsiasi cosa – deve aspettarsi i tormenti della
«persecuzione soggettiva». In questo senso potremmo essere tentati di
riprendere il titolo Libro da bruciare che Li Zhi, mandarino
rinnegato, dava a quelle opere autodistruttive in cui venivano rivelate
le regole del gioco mandarinale. Non per lanciare una sfida a quelli
che, sebbene disposti a insorgere contro ogni autodafé, metterebbero al
rogo qualsiasi opera percepita come oltraggio sacrilego contro le
proprie credenze[6],
ma per evidenziare semplicemente la contraddizione che si trova nel
divulgare i segreti tribali e che è così dolorosa solo perché la
pubblicazione (anche parziale) di ciò che è molto privato è anche una
sorta di confessione pubblica[7].
[1]
Ho completamente preso coscienza di questo problema quando alcuni dei
miei primi lettori mi chiesero di «fare esempi» in analisi da cui avevo
consapevolmente escluso ogni informazione «aneddotica», anche fra le più
note negli «ambienti ben informati», quelle stesse che il giornalismo o
la saggistica sensazionalistica intendono rivelare.
[2] Si veda C. C. Gillispie, Science and Polity in France at the End of the Old Regime, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 290-330; trad. it., Scienza e potere in Francia alla fine dell’Ancien Régime, il Mulino, Bologna 1983.
[3]
Tra gli altri, si può citare l’ultimo venuto di questo filone, Hervé
Coutau-Bégarie, le cui analisi dell’École des Annales svelano, con
assoluta ingenuità, la violenza repressa generata dall’esclusione
intellettuale e dalla distanza provinciale: «I nuovi storici hanno
dunque un progetto coerente e ideologicamente adatto al
pubblico al quale è destinato [...]. È questa espansione che spiega il
successo dei nuovi storici. Inoltre, essi sono partiti alla conquista
dell’editoria e dei media prevedendo di ottenere ciò che Régis Debray ha
chiamato «visibilità sociale»; H. Coutau-Bégarie, Le phénomène nouvelle histoire, Economica, Paris 1983, pp. 247-248.
[4] Il riferimento è a Bernard Pivot, conduttore dello show televisivo Apostrophes dedicato alla letteratura e al dibattito culturale, che fu criticato in una famosa intervista da Régis Debray, consigliere presidenziale e autore di un libro di denuncia degli intellettuali, Les scribes [N.d.T.].
[5] J. Bouveresse, Le philosophe chez les autophages, Éditions de Minuit, Paris 1984, p. 93.
[6]
Per una sorta di autodafé simbolico, con ogni probabilità non
concertato, tutti i giornali viennesi hanno osservato il silenzio più
assoluto su «Die Fackel», per tutta la durata della vita di Karl Kraus.
[7] L’interpretazione dei sogni,
che Freud considerava la sua opera scientifica più importante,
contiene, sotto la logica manifesta del trattato scientifico, un
discorso profondo, in cui Freud, attraverso una serie di sogni
personali, intraprende un’analisi dei suoi rapporti, inestricabilmente
mescolati, con suo padre, con la politica e con l’università. Si veda in
particolare C. E. Schorske, Fin de Siècle Vienna: Politics and Culture, Knopf, New York 1980, pp. 181-207; trad. it., Vienna fin de siècle: politica e cultura, Bompiani, Milano 1981.
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