13 novembre 2013

PADRI E FIGLI OGGI



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In un libro di Michele Serra, Gli sdraiati,  uscito recentemente viene affrontato l'antico tema del rapporto tra le diverse generazioni. Di seguito proponiamo tre diverse letture che sono state fatte del libro:

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Annalena Benini - Padri comici e spaventati
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Il tormento di tutti i Michele Serra davanti agli Sdraiati, figli tecno-monosillabici indifferenti al nostro tentativo illusorio di vivere nello stesso mondo (e con le loro impronte sul divano).
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Sono le sette e trenta del mattino, la colazione è pronta, la quindicenne arriva in cucina, lasciando dietro di sé, in corridoio, sul pavimento, la scia dei vestiti che ha provato ma non l’hanno convinta. Come i sassolini di Pollicino, la scia di cotone, felpa, acrilico e jeans arriva fino all’armadio della camera da letto, poi fa una curva ed entra in bagno, dove giacciono quattro scarpe, cinque calze e due asciugamani molto bagnati. La madre non ci fa caso, non ci si può rovinare la giornata già a quest’ora del mattino, pensa: magari poi raccoglie tutto, amore della mamma. Camilla, dài, devi chattare anche a quest’ora? Facciamo colazione insieme, parliamo un po’, ti verso il caffè. La ragazza sta muovendo velocissima il pollice sullo smartphone, il pollice non è più un pollice ma una persona molto indaffarata, insonne, un dito più importante di Barack Obama, il dottor dito della comunicazione. Il signor dito si ferma per un momento, infastidito dall’interferenza, e manda un impulso al cervello della ragazza, che guarda sua madre e dice: ma di che dovremmo parlare, scusa? Poi massaggia il dito, come a dirgli: non farci caso, è solo mia madre, e il dito ricomincia a lavorare, febbrile. Non c’è tempo per raccogliere la scia dei vestiti, solo pochi minuti per dare un calcio a una scarpa in bagno perché i capelli, oggi, fanno davvero schifo. La ragazza e il suo dito destro escono di corsa, entrambi chini sul telefono, urlano ciao dopo aver lasciato, come messaggio finale, una spazzola sul tavolo della cucina, in mezzo ai biscotti. Il padre lava le tazze, la madre raccoglie i vestiti, non si guardano ma si chiedono, all’unisono, senza dirlo: ma chi è? da dove è uscita? E subito dopo: è colpa mia. Se è diventata un alieno con troppo eye liner, con quel dito prensile e scattante che mi sembra anche più grosso dei nostri pollici di una volta. Sicuramente Darwin parlerebbe di un’evoluzione del dito, ma allora perché quel cazzo di dito evoluto non lo usa anche per spostare la sua tazza dal tavolo al lavello? Sono venticinque centimetri d’aria, la cucina è piccola, potrebbe farcela. Potrebbe perfino sciacquare la tazza sporca di lucidalabbra appiccicoso alla fragola e caffè, metterla in lavastoviglie. E magari darmi un bacio, non con il dito, con la bocca anche piena di lucidalabbra appiccicoso alla fragola. Il pensiero successivo è: non ci ho parlato abbastanza? Ci ho parlato troppo? Non sono stato autorevole, ironico, carismatico, distaccato ma presente? Non sono stato un esempio, ho fatto troppi esempi? Avrei dovuto metterla in punizione quella volta che mi ha detto: stronzo? Il tormento davanti al mondo compatto dei figli cresciuti, adolescenti, appena maggiorenni, ancora con gli zaini della scuola da lanciare ogni volta in un nuovo angolo della casa, appartiene soltanto ai genitori: i figli stanno dentro un altro irraggiungibile mondo, sono solo sfiorati da quegli sguardi smarriti, da quel modo (se solo se ne accorgessero, lo troverebbero patetico) che hanno i genitori di specchiarsi nella giovinezza degli altri, di cercare le analogie con la loro, le differenze, i peggioramenti.
E di cercare un passaggio segreto per entrare nella testa de “Gli sdraiati” (Feltrinelli): è il titolo del nuovo libro, autobiografico ma collettivo, di Michele Serra, ed è la definizione precisa, fulminante, dell’esercito di figli sdraiati dappertutto: sul divano, sul pavimento, a letto mentre studiano, sdraiati alla scrivania, sdraiati a tavola (“Quando ero incinta di mia figlia e parlavo con le altre madri in attesa, piene di certezze sui valori da insegnare ai bambini che sarebbero nati – racconta la madre della ragazza di quindici anni con la scia luminosa dei vestiti dietro di sé – io dicevo, scherzando, che mi sarebbe bastato insegnarle a stare composta a tavola. Mia figlia mangia come un carrettiere, e spesso mangia sdraiata”). Michele Serra osserva il suo personale ma assoluto, amatissimo Sdraiato, anzi lo chiama al telefono e quello naturalmente non risponde, lascia squillare a vuoto (“Una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e contemporaneamente sgridarti: caricatura schizofrenica dell’autorità”). E’ l’autorità che manca, nel ponte levatoio che serve a passare dal mondo pesante dei genitori ingobbiti per l’ansia a quello lieve e pieno di briciole dappertutto degli Sdraiati? L’autorità contro cui ci si è ribellati, la durezza sconvolgente che esercitava, ad esempio, il padre di Oriana Fallaci: nella biografia di Oriana scritta da Cristina De Stefano c’è il ricordo più vivo dei quindici anni di Oriana, staffetta partigiana: sta camminando con il padre in una strada di Firenze e viene sorpresa da un allarme antiaereo, si rifugiano dentro un edificio, Oriana resta raggomitolata su se stessa, non osa abbracciare il padre, ma quando cominciano a cadere le bombe scoppia a piangere. Suo padre le dà uno schiaffo: una ragazza non piange, le sibila. Subito dopo avere letto questo aneddoto, bisogna leggere “Gli sdraiati”, per riprendersi. “Autorità: attorno a questa parola organizzo, da quando sei nato, convegni tanto pomposi quanto inconcludenti. Ognuno dei relatori ha la mia faccia, è un’assemblea dei miei cocci intellettuali che cercano la perduta unità, rinfacciando agli altri la loro insipienza. Titolo ideale di questa farraginosa convention dovrebbe essere: quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei dovuto mandarti a fare in culo”. E’ la prima pagina del libro, e contiene già tutto: la confusione, il senso di colpa, l’ansia, ma anche la stronzaggine di chi ha sempre quel cavolo di telefono in mano e non risponde mai. Sono suo padre, sono sua madre, gliel’ho comprato io quell’aggeggio (una pragmatica madre americana, nel regalare l’iPhone al figlio adolescente, gli fece firmare un contratto privato. Regola numero uno: non ignorare mai una chiamata quando sullo schermo leggi “mamma” o “papà”. Mai. E’ un telefono, sta suonando. Rispondi. Regola numero due: saprò sempre la password. Regola numero tre: se ti cade nel water, lo rompi, lo perdi, lo paghi tu. Fiorello, più realisticamente, lancia appelli perché gli adolescenti con le dita incollate al touch screen trovino il tempo di scrivere ai genitori almeno due parole, meglio se ogni ora: “Sono vivo”).
Così l’incipit universale della guerra sfinente fra Giovani e Vecchi (dove per essere Vecchi basta essere genitori, visti con lo sguardo di un figlio, negli attimi di passeggera, velocissima curiosità, che un figlio concede: mamma non ti puoi mettere quella gonna, sei vecchia. Mamma ma voi non uscite mai, che vita miserabile, siete vecchi, mamma ma che palle la vendemmia nelle Langhe, andateci voi che siete vecchi), l’incipit definitivo, struggente, rassegnato a questa distanza è: “Ma dove cazzo sei?”. Subito dopo, il ridimensionamento delle aspettative. Anche una parodia dei Comandamenti che un figlio dovrebbe seguire, anche pochissimo, basterebbe. Michele Serra lascia in giro biglietti “comicamente imperativi”, delle specie di suppliche camuffate da ironia affettuosa, sul frigo, in bagno, sulla porta d’ingresso: “Prima di uscire, controlla di avere lasciato accese tutte le luci di casa!”, “Verificare lo stadio di decomposizione dei cibi prima di ingoiarli”, “Il water marezzato di merda è un’installazione artistica o mi è consentito pulirlo?”, “Lasci i tuoi peli nel bidè per motivi religiosi?”, “Per piacere, se passi dal ferramenta compra uno scalpello, dobbiamo rimuovere dal lavandino i tuoi sputi di dentifricio calcificati”. E’ un libro che fa ridere, e fa sentire anche una sofferenza. Riesce a tenere entrambe le cose insieme, perché forse è davvero così, che ci si sente: la sofferenza di essere smarriti, quasi falliti di fronte alla montagna altissima, ma sdraiata sul divano, di questa giovinezza che non ha nemmeno bisogno di ribellarsi, dovrebbe sentirsi sollevata di dovere soltanto lasciare pulito il water, e la comicità che sta dentro le cose della giovinezza, quelle scarpe gigantesche, scafi di gomma imbottita in qualunque stagione, in qualunque luogo della terra, l’indifferenza suprema al giro che fa la terra intorno al sole, e quindi la capacità di dormire sempre oppure mai, di solito in contrapposizione al resto del mondo, l’attacco di panico che, in altre vite, altre voci, altre stanze, prende la madre della quindicenne quando la quindicenne annuncia: faccio il bagno. Perché fare il bagno significa usare tutti gli asciugamani del bagno, e lasciarli poi bagnati per terra, insieme ai vestiti che ci si toglie (in questo, maschi e femmine sono identici: si svestono con un unico gesto, che comprende e sfila la maglietta, attaccata alla felpa, attaccata al reggiseno, lanciata sul pavimento. Serra scrive: “La parte superiore del tuo vestiario è tutt’una, un multistrato che si compone vestendosi ma non si divide svestendosi”), fare il bagno significa riempire la vasca fino all’orlo, starci dentro un’ora con tutti gli apparecchi elettronici a disposizione accesi, tablet, telefono, computer portatile in attesa dell’occasione di provocare un cortocircuito elettrico. E poi, una volta uscite gocciolanti come Venere, non togliere il tappo. Lasciare la vasca così, piena d’acqua e di bagnoschiuma in via di sparizione, a ricordo della regale abluzione, insieme alle impronte di piedi bagnati fino alla camera da letto, dove finalmente ci si potrà sdraiare di nuovo. Non potresti togliere almeno il tappo? Raccogliere gli asciugamani, appenderli al gancio? Le tue mutande! L’assorbente! Il computer è pieno di gocce! La risposta è universale: “Ah sì lo faccio, adesso però chiudimi la porta”. Michele Serra si chiede se il problema nuovo, inedito di questi millennials che chattano tantissimo e a voce dicono solo: ah, no, boh, cià, sia che è tutto troppo poco: lasciare pulito il cesso. Spegnere le luci. Non venire bocciati. Chiudere i cassetti. Rispondere al telefono. Troppo poco, anzi niente, per sfamare l’entusiasmo, il bisogno di eroismo che un ragazzo, non solo Oriana Fallaci nel 1943, potrebbe avere. “Così che se io, per dire, mi presentassi con gli occhi spiritati e ti dicessi che devi partire subito, stanotte stessa, per liberare armi in pugno un popolo oppresso, o per evangelizzare i selvaggi, o per ricacciare oltreconfine gli impuri, allora sì che ti vedrei balzare dal divano, farti in un attimo hombre vertical, preparare lo zaino e abbracciandomi mormorare chino al mio orecchio: finalmente, padre mio, invece delle meschine cazzate con le quali mi assilli da quando sono nato, mi indichi una Meta degna di questo nome!”. Non il tappo del dentifricio da richiudere, non lo zucchero da non spargere fuori dalla tazzina, non le incrostazioni di sugo da togliere dalla padella prima che si marmorizzi, ma una grande impresa, qualcosa che finalmente appaghi il bisogno di assoluto. Padre e figlio finalmente si abbracceranno stretti, ingoiando le lacrime, riuniti dalla battaglia, e il padre dirà: “E non preoccuparti per le righe di merda! Ciò che mi era parso, fino a oggi, un compito ingrato, mi sembrerà il più leggero e insieme il più onorevole dei compiti. Perché saranno le righe di merda di un eroe!”. Si può ridere, quindi, anche con il panico che prende di fronte a tutti quei divani coi cuscini sformati dai corpi, davanti a tutti gli asciugamani per terra, davanti all’impossibilità oggettiva che un figlio diciottenne abbia voglia di venire con noi a vendemmiare l’uva alle otto del mattino, e soprattutto davanti all’indifferenza assoluta che gli Sdraiati ci offrono. Sembrano dire, con i loro monosillabi: ma perché questi si agitano tanto? Ma perché pensano che il posacenere pieno di cicche non buttate e le cuffie infilate nelle orecchie siano il simbolo di qualcosa, sia qualcosa di cui discutere? Non hanno niente da fare? Non si possono sdraiare un po’, dormire fino alle due del pomeriggio? Forse è per questo, forse sono così perplessi da tanta agitazione che non riescono nemmeno a guardarci dritto in faccia, come fa Pia, l’amica del figlio che Serra va a prendere alla stazione, rimandando una cena programmata da settimane (ma il figlio ha perso il treno): “Pia pronuncia solo pochi monosillabi, per giunta non indirizzati al suo unico interlocutore, che sarei io, ma a una figura invisibile che si trova un paio di metri alla mia sinistra, leggermente più in alto di me: è lì che Pia fissa lo sguardo quando – per così dire – parla”. Lui si permette di svegliarla a mezzogiorno, perché pensa che sia un buon orario di compromesso tra l’ansia di un cinquantenne nevrotico e il bisogno di riposo di una diciassettenne sdraiata. Le appoggia un caffè sul comodino. Ma, più pericolosamente, coltiva un’illusione, ha un piano folle: vorrebbe farle vedere il mare in tempesta dal terrazzo. Addirittura, vorrebbe condividere lo spettacolo della natura. Pia invece si sdraia sul divano e accende la tivù: “C’è la nuova serie di Qualcosa (Dice un acronimo americano tipo Pi En Iu o Ai Ti Si o Uai En Ti)”. E lui teme che ci sia, in quella separazione (lui sul terrazzo a guardare la pioggia, a pensare a chi curerà i suoi vasi dopo di lui, e lei sul divano, di spalle alla pioggia e a lui, a guardare Pi En Iu), la separazione definitiva tra il passato e il futuro degli umani. Nessuna possibilità di un anello di congiunzione. Nessuna possibilità di condividere qualcosa, o di sentire di non avere completamente sbagliato tutto, pensando di avere ragione, e illudendosi che sarebbe bastata un’amichevole chiacchierata sul da farsi. “Tu, che hai di fronte un dopopadre esitante e in fondo complice, possibile che non capisci la fortuna che hai? Lo so bene che non basta, come Senso della Vita, un water pulito. Non sono così cretino”. La sofferenza, quando cammina insieme all’autoironia, sembra ancora più sincera. Ma questi figli sdraiati, di malumore, con i computer appoggiati alla pancia, e la televisione accesa a volume altissimo, le suole delle scarpe ben stampate sui divani, stanno solo prendendo le misure al mondo, nel loro modo. Che non può essere il nostro e che non può nemmeno concederci il piacere di specchiarci o di sentirci né avversari né complici. Di offrirci la possibilità vanitosa di sentirci protagonisti anche della loro vita, delle loro scarpe di gomma. E’ la loro vita, è la loro gomma, sono i loro pollici bionici (e un po’, per emulazione, diventano anche nostri). A un certo punto, come nel libro, succederà qualcosa di semplice come raccogliere un asciugamano bagnato da terra, o anche di più, e i padri e le madri (dopo avere gridato al miracolo, crollando a terra in ginocchio) si accorgeranno che i figli facevano soltanto finta di tenere sempre le cuffie nelle orecchie.

 da  il Foglio 9 novembre 2013


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Marco Belpoliti -  Se questo è un padre
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C’è una generazione che ha voluto demolire la figura paterna. Ma ora, alle prese coi figli alieni in casa, se ne pente. A metà. Il nuovo libro di Michele Serra
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Bisogna partire dal finale per capire il senso di questo racconto-saggio-monologo interiore, “ Gli sdraiati ”, di Michele Serra in uscita con Feltrinelli. È lì che appare evidente cosa è in gioco nella storia di un padre che cerca il contatto con il proprio figlio, e non riesce ad averlo. Dopo aver perseguitato il ragazzo, un tipico adolescente d’oggi, nativo digitale, come si dice, uno “sdraiato”, con la prova della salita al Colle della Nasca, il padre riesce a trascinarcelo. Una salita faticosa compiuta dall’adolescente con le scarpe e il vestiario inadatto. A un tratto il padre perde il figlio di vista. Pensa che sia rimasto indietro, crede di doverlo soccorrere, e invece il ragazzo l’ha superato. Lo chiama e lui risponde: “Sono quiiiii! Papààààà!”. La parola -papà – risuona per la prima volta. L’uomo ascolta “il nome del padre nella sua forma infantile”. Ha un sussulto di spavento. Sarà in difficoltà? Poi capisce: è più avanti di lui, è lassù, sta per arrivare in cima. La sua risposta è perfetta: “Aspettami!”. Ma il ragazzo non risponde, non lo sente più. La conclusione paradigmatica: “Finalmente potevo diventare vecchio”.
Appartengo alla generazione di Serra e come lui ho dei figli, delle figlie – il che è un poco diverso che essere genitori di maschi. Per noi diventare vecchi è un incubo e insieme un porto sicuro, una paura, quasi uno spavento, e un approdo. La generazione nata tra la fine degli anni Quaranta e la fine dei Cinquanta, è senza un punto di partenza e senza un punto d’arrivo certo. Rimasta a metà strada tra il vecchio mondo, andato in pezzi alle nostre spalle (con il nostro contributo), e il nuovo in cui non siamo ancora giunti e forse non giungeremo mai. Il Sessantotto, sia che vi abbiamo partecipato, sia che siamo stati testimoni, ha bruciato le navi con cui eravamo arrivati, e addio possibilità del ritorno. Siamo eterni figli senza più padri, e padri senza veri figli. Una lunga storia che comincia ancor prima, come ha raccontato in un libro rivelatore qualche anno fa lo psicoanalista Luigi Zoja ( “Il gesto di Ettore. Preistoria, storia e attualità e scomparsa del padre”, Bollati Boringhieri). A un certo punto del nostro viaggio abbiamo capito che la figura del Padre, a differenza di quella della Madre, è un artificio, una costruzione. I mammiferi maschi sono stati per milioni di anni tali senza essere padri. Come ha scritto Zoja, su un arco di centinaia di milioni di anni solo la specie umana ha ipotizzato l’esistenza della figura paterna. Si tratta di un mestiere che si apprende attraverso un addestramento culturale. Noi, e i nostri fratelli maggiori, questo addestramento l’abbiamo rifiutato tre decenni fa, e per questo siamo proceduti nel deserto della figura paterna. Dopo aver odiato e respinto i padri autoritari, dopo aver dileggiato quelli senza spina dorsale, seduti al desco serale con la tv accesa davanti, ci siamo trovati, tutto a un tratto, per via di un atto compiuto per amore e con incoscienza, e speranza del futuro, a essere padri. Procedendo nei decenni successivi questa generazione, i veri sdraiati siamo noi, ha incontrato sempre maggiori difficoltà. Il problema, come ha scritto Massimo Recalcati (“Cosa resta del padre?”, Cortina), è diventato, via via, quello dell’eredità. Cosa abbiamo da passare ai figli?
Domanda imbarazzante che il protagonista di Serra si fa, in forma indiretta, più volte. La traduce in: cosa abbiamo in comune? Dna, tratti somatici, atteggiamenti ? In cosa ci somigliamo? L’inizio del libro è altrettanto paradigmatico del finale. Nell’ingresso della casa che abita con il figlio – non c’è alcuna figura femminile nel libro – c’è un tappeto, un kilim. Il figlio lo calpesta, stropiccia, piega. Quest’oggetto, quasi un topos da radical chic, diventa l’emblema di ciò che il figlio bistratta. Il padre è il tappeto. Il figlio ci passa sopra con le sue scarpacce, oggetto chiave nel racconto, ed è come se calpestasse il padre stesso, che s’identifica, a torto – presume sempre – con chi ha tessuto amorevolmente il tappeto, che il figlio non rispetta. Un altro degli oggetti che lui rifiuta, perché rifiuta il passaggio del testimone. E qui sta il dramma: il padre non sa cosa ha da passargli, una volta evaporata la figura paterna come autorità o autorevolezza. D’altra parte, il figlio gli sta lontano, lo teme, anche se non glielo dice in modo diretto: non vuole la lotta.
Ettore, nell’Iliade, si piega verso il figlio, gli tende le braccia, ma il figlio si ritrae perché l’armatura che indossa lo spaventa. Dice Zoja che la corazza di Ettore non è una difesa dal nemico, bensì dal figlio, dal mondo dell’infanzia perduto ed estraneo. Il padre di Serra non ha corazza, è indifeso e sguarnito; armato solo del suo non-capire, non-sapere, si tende verso il figlio e questo si sottrae. Una condizione dilaniante: niente infanzia alle spalle, nessun futuro davanti. Solo quell’amara conclusione: “Finalmente potevo diventare vecchio”. 
Ma siamo mai diventati adulti? Grandi sì, adulti forse no. Siamo una generazione che per eccesso di affettività da ricevere - desiderata e non avuta dai nostri padri- e da dare – voglia di dare, senza riuscirci - è diventata anaffettiva. Per troppo affetto, ci siamo ritratti nel nostro spazio difendendolo sino all’eccesso ed escludendo l’altro. Il libro di Serra è un catalogo di spazi, da quelli della memoria a quelli della casa, sentiti come violati, o non capiti e non apprezzati dal figlio. Un figlio che è quasi un fratellino più piccolo, un altro sé, con cui il protagonista si rapporta passando attraverso la memoria del proprio sé. Il grande libro nazionale, “Pinocchio”, suggerisce Zoja, presenta l’immagine di una società di Fratelli: Geppetto non è un vero padre; la madre adottiva, la Fata, è una sorella; Lucignolo, personaggio centrale dell’antropologia italiana, è il Fratello, detentore dei veri riti d’iniziazione, che portano Pinocchio a trasformarsi prima in animale poi in un vero ragazzo, piccolo uomo. Quello che il padre de “Gli sdraiati” cerca è questo rito di passaggio. Lo identifica nella salita al Colle, dopo aver cercato di comprendere nel capitolo più graffiante e più disperato del libro, quello dedicato al negozio delle felpe, invaso dalle ninfette e dai giovanissimi satiri, i riti d’iniziazione dei figli, respinti attraverso il sarcasmo – nel libro sarcasmo e ironia sono la crosta sotto cui la voce narrante seppellisce i suoi dolori. Essere superati dal figlio nell’ascesa, è cominciare a morire. A differenza di quello che credeva Zoja alcuni anni fa, ne “Il gesto di Ettore”, oggi il sentimento di nostalgia verso la figura del padre sta riemergendo con forza. Diventare vecchi è diventare padri?, Serra ci lascia con questo interrogativo.

da l’Espresso n. 45 14 novembre 2013
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Massimo Recalcati - Generazione orizzontale. Il silenzio dei padri di fronte ai figli.

Preferiscono la tv alla natura, vivono in un mondo dove tutto rimane acceso comprano più di ciò che gli serve. I ragazzi di oggi visti da un genitore tra humour, senso di impotenza e tenerezza. È il nuovo libro di Michele Serra
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Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della genitorialità. Tutt’altro. E’ da queste due notizie che trae linfa Gli sdraiatiil nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte?
Il padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale “fragilità materna”, la schizofrenica incarnazione dell’autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti – come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta – , da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell’ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d’autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai “vecchi”. «Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono». Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell’Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso». Eccoli i consumisti perfetti, «il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l’illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa».
Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, «è l’evoluzione della specie», come commenta suo figlio.
Gli Sdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l’orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell’abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che «contiene il suo addio agli anni dell’innocenza», o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo.
La giovinezza si palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell’età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. 
In Pastorale americana di Philip Roth l’impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell’opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta – in una atmosfera oniroide alla Blade Runner- come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.
Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è «la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra». Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. E non dispererei che le portulache che sono state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare – «la cura del mondo è una abitudine che si eredita», scrive Serra – possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile.

da  La Repubblica 6 novembre 2013

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