In un libro di Michele Serra, Gli sdraiati, uscito recentemente viene affrontato l'antico tema del rapporto tra le diverse generazioni. Di seguito proponiamo tre diverse letture che sono state fatte del libro:
Annalena Benini - Padri comici e spaventati
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Il tormento di tutti i Michele Serra
davanti agli Sdraiati, figli tecno-monosillabici indifferenti al nostro
tentativo illusorio di vivere nello stesso mondo (e con le loro impronte
sul divano).
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Sono le
sette e trenta del mattino, la colazione è pronta, la quindicenne arriva
in cucina, lasciando dietro di sé, in corridoio, sul pavimento, la scia
dei vestiti che ha provato ma non l’hanno convinta. Come i sassolini di
Pollicino, la scia di cotone, felpa, acrilico e jeans arriva fino
all’armadio della camera da letto, poi fa una curva ed entra in bagno,
dove giacciono quattro scarpe, cinque calze e due asciugamani molto
bagnati. La madre non ci fa caso, non ci si può rovinare la giornata già
a quest’ora del mattino, pensa: magari poi raccoglie tutto, amore della
mamma. Camilla, dài, devi chattare anche a quest’ora? Facciamo
colazione insieme, parliamo un po’, ti verso il caffè. La ragazza sta
muovendo velocissima il pollice sullo smartphone, il pollice non è più
un pollice ma una persona molto indaffarata, insonne, un dito più
importante di Barack Obama, il dottor dito della comunicazione. Il
signor dito si ferma per un momento, infastidito dall’interferenza, e
manda un impulso al cervello della ragazza, che guarda sua madre e dice:
ma di che dovremmo parlare, scusa? Poi massaggia il dito, come a
dirgli: non farci caso, è solo mia madre, e il dito ricomincia a
lavorare, febbrile. Non c’è tempo per raccogliere la scia dei vestiti,
solo pochi minuti per dare un calcio a una scarpa in bagno perché i
capelli, oggi, fanno davvero schifo. La ragazza e il suo dito destro
escono di corsa, entrambi chini sul telefono, urlano ciao dopo aver
lasciato, come messaggio finale, una spazzola sul tavolo della cucina,
in mezzo ai biscotti. Il padre lava le tazze, la madre raccoglie i
vestiti, non si guardano ma si chiedono, all’unisono, senza dirlo: ma
chi è? da dove è uscita? E subito dopo: è colpa mia. Se è diventata un
alieno con troppo eye liner, con quel dito prensile
e scattante che mi sembra anche più grosso dei nostri pollici di una
volta. Sicuramente Darwin parlerebbe di un’evoluzione del dito, ma
allora perché quel cazzo di dito evoluto non lo usa anche per spostare
la sua tazza dal tavolo al lavello? Sono venticinque centimetri d’aria,
la cucina è piccola, potrebbe farcela. Potrebbe perfino sciacquare la
tazza sporca di lucidalabbra appiccicoso alla fragola e caffè, metterla
in lavastoviglie. E magari darmi un bacio, non con il dito, con la bocca
anche piena di lucidalabbra appiccicoso alla fragola. Il pensiero
successivo è: non ci ho parlato abbastanza? Ci ho parlato troppo? Non
sono stato autorevole, ironico, carismatico, distaccato ma presente? Non
sono stato un esempio, ho fatto troppi esempi? Avrei dovuto metterla in
punizione quella volta che mi ha detto: stronzo? Il tormento davanti al
mondo compatto dei figli cresciuti, adolescenti, appena maggiorenni,
ancora con gli zaini della scuola da lanciare ogni volta in un nuovo
angolo della casa, appartiene soltanto ai genitori: i figli stanno
dentro un altro irraggiungibile mondo, sono solo sfiorati da quegli
sguardi smarriti, da quel modo (se solo se ne accorgessero, lo
troverebbero patetico) che hanno i genitori di specchiarsi nella
giovinezza degli altri, di cercare le analogie con la loro, le
differenze, i peggioramenti.
E di cercare
un passaggio segreto per entrare nella testa de “Gli sdraiati”
(Feltrinelli): è il titolo del nuovo libro, autobiografico ma
collettivo, di Michele Serra, ed è la definizione precisa, fulminante,
dell’esercito di figli sdraiati dappertutto: sul divano, sul pavimento, a
letto mentre studiano, sdraiati alla scrivania, sdraiati a tavola
(“Quando ero incinta di mia figlia e parlavo con le altre madri in
attesa, piene di certezze sui valori da insegnare ai bambini che
sarebbero nati – racconta la madre della ragazza di quindici anni con la
scia luminosa dei vestiti dietro di sé – io dicevo, scherzando, che mi
sarebbe bastato insegnarle a stare composta a tavola. Mia figlia mangia
come un carrettiere, e spesso mangia sdraiata”). Michele Serra osserva
il suo personale ma assoluto, amatissimo Sdraiato, anzi lo chiama al
telefono e quello naturalmente non risponde, lascia squillare a vuoto
(“Una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb
virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva
della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e
contemporaneamente sgridarti:
caricatura schizofrenica dell’autorità”). E’ l’autorità che manca, nel
ponte levatoio che serve a passare dal mondo pesante dei genitori
ingobbiti per l’ansia a quello lieve e pieno di briciole dappertutto
degli Sdraiati? L’autorità contro cui ci si è ribellati, la durezza
sconvolgente che esercitava, ad esempio, il padre di Oriana Fallaci:
nella biografia di Oriana scritta da Cristina De Stefano c’è il ricordo
più vivo dei quindici anni di Oriana, staffetta partigiana: sta
camminando con il padre in una strada di Firenze e viene sorpresa da un
allarme antiaereo, si rifugiano dentro un edificio, Oriana resta
raggomitolata su se stessa, non osa
abbracciare il padre, ma quando cominciano a cadere le bombe scoppia a
piangere. Suo padre le dà uno schiaffo: una ragazza non piange, le
sibila. Subito dopo avere letto questo aneddoto, bisogna leggere “Gli
sdraiati”, per riprendersi. “Autorità: attorno a questa parola
organizzo, da quando sei nato, convegni tanto pomposi quanto
inconcludenti. Ognuno dei relatori ha la mia faccia, è un’assemblea dei
miei cocci intellettuali che cercano la perduta unità, rinfacciando agli
altri la loro insipienza. Titolo ideale di questa farraginosa
convention dovrebbe essere: quante volte invece di mandarti a fare in
culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza
e invece avrei dovuto mandarti a
fare in culo”. E’ la prima pagina del libro, e contiene già tutto: la
confusione, il senso di colpa, l’ansia, ma anche la stronzaggine di chi
ha sempre quel cavolo di telefono in mano e non risponde mai. Sono suo
padre, sono sua madre, gliel’ho comprato io quell’aggeggio (una
pragmatica madre americana, nel regalare l’iPhone al figlio adolescente,
gli fece firmare un contratto privato. Regola numero uno: non ignorare
mai una chiamata quando sullo schermo leggi “mamma” o “papà”. Mai. E’ un
telefono, sta suonando. Rispondi. Regola numero due: saprò sempre la
password. Regola numero tre: se ti cade nel water, lo rompi, lo perdi,
lo paghi tu. Fiorello, più realisticamente, lancia appelli perché gli
adolescenti con le dita incollate al touch screen trovino il tempo di
scrivere ai genitori almeno due parole, meglio se ogni ora: “Sono
vivo”).
Così
l’incipit universale della guerra sfinente fra Giovani e Vecchi (dove
per essere Vecchi basta essere genitori, visti con lo sguardo di un
figlio, negli attimi di passeggera, velocissima curiosità, che un figlio
concede: mamma non ti puoi mettere quella gonna, sei vecchia. Mamma ma
voi non uscite mai, che vita miserabile, siete vecchi, mamma ma che
palle la vendemmia nelle Langhe, andateci voi che siete vecchi),
l’incipit definitivo, struggente, rassegnato a questa distanza è: “Ma
dove cazzo sei?”. Subito dopo, il ridimensionamento delle aspettative.
Anche una parodia dei Comandamenti che un figlio dovrebbe seguire, anche
pochissimo, basterebbe. Michele Serra lascia in giro biglietti
“comicamente imperativi”, delle specie di suppliche camuffate da ironia
affettuosa, sul frigo, in bagno, sulla porta d’ingresso: “Prima di
uscire, controlla di avere lasciato accese tutte le luci di casa!”,
“Verificare lo stadio di decomposizione dei cibi prima di ingoiarli”,
“Il water marezzato di merda è un’installazione artistica o mi è
consentito pulirlo?”, “Lasci i tuoi peli nel bidè per motivi
religiosi?”, “Per piacere, se passi dal ferramenta compra uno scalpello,
dobbiamo rimuovere dal lavandino i tuoi sputi di dentifricio
calcificati”. E’ un libro che fa ridere, e fa sentire anche una
sofferenza. Riesce a tenere entrambe le cose insieme, perché forse è
davvero così, che ci si sente: la sofferenza di essere smarriti, quasi
falliti di fronte alla montagna altissima, ma sdraiata sul divano, di
questa giovinezza che non ha nemmeno bisogno di ribellarsi, dovrebbe
sentirsi sollevata di dovere soltanto lasciare pulito il water, e la
comicità che sta dentro le cose della giovinezza, quelle scarpe
gigantesche, scafi di gomma imbottita in qualunque stagione, in
qualunque luogo della terra, l’indifferenza suprema al giro che fa la
terra intorno al sole, e quindi la capacità di dormire sempre oppure
mai, di solito in contrapposizione al resto del mondo, l’attacco di
panico che, in altre vite, altre voci, altre stanze, prende la madre
della quindicenne quando la quindicenne annuncia: faccio il bagno.
Perché fare il bagno significa usare tutti gli asciugamani del bagno, e
lasciarli poi bagnati per terra, insieme ai vestiti che ci si toglie (in
questo, maschi e femmine sono identici: si svestono con un unico gesto,
che comprende e sfila la maglietta, attaccata alla felpa, attaccata al
reggiseno, lanciata sul pavimento. Serra scrive: “La parte superiore del
tuo vestiario è tutt’una, un multistrato che si compone vestendosi ma
non si divide svestendosi”), fare il bagno significa riempire
la vasca fino all’orlo, starci dentro un’ora con tutti gli apparecchi
elettronici a disposizione accesi, tablet, telefono, computer portatile
in attesa dell’occasione di provocare un cortocircuito elettrico. E poi,
una volta uscite gocciolanti come Venere, non togliere il tappo.
Lasciare la vasca così, piena d’acqua e di bagnoschiuma in via di
sparizione, a ricordo della regale abluzione, insieme alle impronte di
piedi bagnati fino alla camera da letto, dove finalmente ci si potrà
sdraiare di nuovo. Non potresti togliere almeno il tappo? Raccogliere
gli asciugamani, appenderli al gancio? Le tue mutande! L’assorbente! Il
computer è pieno di gocce! La risposta è universale: “Ah sì lo faccio,
adesso però chiudimi la porta”. Michele Serra si chiede se il problema
nuovo, inedito di questi millennials che chattano tantissimo e a voce
dicono solo: ah, no, boh, cià, sia che è tutto troppo poco: lasciare
pulito il cesso. Spegnere le luci. Non venire bocciati. Chiudere i
cassetti. Rispondere al telefono. Troppo poco, anzi niente, per sfamare
l’entusiasmo, il bisogno di eroismo che un ragazzo, non solo Oriana
Fallaci nel 1943, potrebbe avere. “Così che se io, per dire, mi
presentassi con gli occhi spiritati e ti dicessi che devi partire
subito, stanotte stessa, per liberare armi in pugno un popolo oppresso, o
per evangelizzare i selvaggi, o per ricacciare
oltreconfine gli impuri, allora sì che ti vedrei balzare dal divano,
farti in un attimo hombre vertical, preparare lo zaino e abbracciandomi
mormorare chino al mio orecchio: finalmente, padre mio, invece delle
meschine cazzate con le quali mi assilli da quando sono nato, mi indichi
una Meta degna di questo nome!”. Non il tappo del dentifricio da
richiudere, non lo zucchero da non spargere fuori dalla tazzina, non le
incrostazioni di sugo da togliere dalla padella prima che si marmorizzi,
ma una grande impresa, qualcosa che finalmente appaghi il bisogno di
assoluto. Padre e figlio finalmente si abbracceranno stretti, ingoiando
le lacrime, riuniti dalla battaglia, e il padre dirà: “E non
preoccuparti per le righe di merda! Ciò che mi era parso, fino a oggi,
un compito ingrato, mi sembrerà il più leggero e insieme il più
onorevole dei compiti. Perché saranno le righe di merda di un eroe!”. Si
può ridere, quindi, anche con il panico che prende di fronte a tutti
quei divani coi cuscini sformati dai corpi, davanti a tutti gli
asciugamani per terra, davanti all’impossibilità oggettiva che un figlio
diciottenne abbia voglia di venire con noi a vendemmiare l’uva alle
otto del mattino, e soprattutto davanti all’indifferenza assoluta che
gli Sdraiati ci offrono. Sembrano dire, con i loro monosillabi: ma
perché questi si agitano tanto? Ma perché pensano che il posacenere
pieno di cicche non buttate e le cuffie infilate nelle orecchie siano il
simbolo di qualcosa, sia qualcosa di cui discutere? Non hanno niente da
fare? Non si possono sdraiare un po’, dormire fino alle due del
pomeriggio? Forse è per questo, forse sono così perplessi da tanta
agitazione che non riescono nemmeno a guardarci dritto in faccia, come
fa Pia, l’amica del figlio che Serra va a prendere alla stazione,
rimandando una cena programmata da settimane (ma il figlio ha perso il
treno): “Pia pronuncia solo pochi monosillabi,
per giunta non indirizzati al suo unico interlocutore, che sarei io, ma
a una figura invisibile che si trova un paio di metri alla mia
sinistra, leggermente più in alto di me: è lì che Pia fissa lo sguardo
quando – per così dire – parla”. Lui si permette di svegliarla a
mezzogiorno, perché pensa che sia un buon orario di compromesso tra
l’ansia di un cinquantenne nevrotico e il bisogno di riposo di una
diciassettenne sdraiata. Le appoggia un caffè sul comodino. Ma, più
pericolosamente, coltiva un’illusione, ha un piano folle: vorrebbe farle
vedere il mare in tempesta dal terrazzo. Addirittura, vorrebbe
condividere lo spettacolo della natura. Pia invece si sdraia sul divano e
accende la tivù: “C’è la nuova serie di Qualcosa (Dice un acronimo
americano tipo Pi En Iu o Ai Ti Si o Uai En Ti)”. E lui teme che ci sia,
in quella separazione (lui sul terrazzo a guardare la pioggia, a
pensare a chi curerà i suoi vasi dopo di lui, e lei sul divano, di
spalle alla pioggia e a lui, a guardare Pi En Iu), la separazione
definitiva tra il passato e il futuro degli umani. Nessuna possibilità
di un anello di congiunzione. Nessuna possibilità di condividere
qualcosa, o di sentire di non avere completamente sbagliato tutto,
pensando di avere ragione, e illudendosi che sarebbe bastata
un’amichevole chiacchierata sul da farsi. “Tu, che hai di fronte un
dopopadre esitante e in fondo complice, possibile che non capisci la
fortuna che hai? Lo so bene che non basta, come Senso della Vita, un
water pulito. Non sono così cretino”. La sofferenza, quando cammina
insieme all’autoironia, sembra ancora più sincera. Ma questi figli
sdraiati, di malumore, con i computer appoggiati alla pancia, e la
televisione accesa a volume altissimo, le suole delle scarpe ben
stampate sui divani, stanno solo prendendo le misure al mondo, nel loro
modo. Che non può essere il nostro e che non può nemmeno concederci il
piacere di specchiarci o di sentirci né avversari né complici. Di
offrirci la possibilità vanitosa di sentirci protagonisti anche della
loro vita, delle loro scarpe di gomma. E’ la loro vita, è la loro gomma,
sono i loro pollici bionici (e un po’, per emulazione, diventano anche
nostri). A un certo punto, come nel libro, succederà qualcosa di
semplice come raccogliere un asciugamano bagnato da terra, o anche di
più, e i padri e le madri (dopo avere gridato al miracolo, crollando a
terra in ginocchio) si accorgeranno che i figli facevano soltanto finta
di tenere sempre le cuffie nelle orecchie.
da il Foglio 9 novembre 2013
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Marco Belpoliti - Se questo è un padre
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C’è una
generazione che ha voluto demolire la figura paterna. Ma ora, alle prese
coi figli alieni in casa, se ne pente. A metà. Il nuovo libro di
Michele Serra
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Bisogna
partire dal finale per capire il senso di questo
racconto-saggio-monologo interiore, “ Gli sdraiati ”, di Michele Serra
in uscita con Feltrinelli. È lì che appare evidente cosa è in gioco
nella storia di un padre che cerca il contatto con il proprio figlio, e
non riesce ad averlo. Dopo aver perseguitato il ragazzo, un tipico
adolescente d’oggi, nativo digitale, come si dice, uno “sdraiato”, con
la prova della salita al Colle della Nasca, il padre riesce a
trascinarcelo. Una salita faticosa compiuta dall’adolescente con le
scarpe e il vestiario inadatto. A un tratto il padre perde il figlio di
vista. Pensa che sia rimasto indietro, crede di doverlo soccorrere, e
invece il ragazzo l’ha superato. Lo chiama e lui risponde: “Sono
quiiiii! Papààààà!”. La parola -papà – risuona per la prima volta.
L’uomo ascolta “il nome del padre nella sua forma infantile”. Ha un
sussulto di spavento. Sarà in difficoltà? Poi capisce: è più avanti di
lui, è lassù, sta per arrivare in cima. La sua risposta è perfetta:
“Aspettami!”. Ma il ragazzo non risponde, non lo sente più. La
conclusione paradigmatica: “Finalmente potevo diventare vecchio”.
Appartengo
alla generazione di Serra e come lui ho dei figli, delle figlie – il che
è un poco diverso che essere genitori di maschi. Per noi diventare
vecchi è un incubo e insieme un porto sicuro, una paura, quasi uno
spavento, e un approdo. La generazione nata tra la fine degli anni
Quaranta e la fine dei Cinquanta, è senza un punto di partenza e senza
un punto d’arrivo certo. Rimasta a
metà strada tra il vecchio mondo, andato in pezzi alle nostre spalle
(con il nostro contributo), e il nuovo in cui non siamo ancora giunti e
forse non giungeremo mai. Il Sessantotto, sia che vi abbiamo
partecipato, sia che siamo stati testimoni, ha bruciato le navi con cui
eravamo arrivati, e addio possibilità del ritorno. Siamo eterni figli
senza più padri, e padri senza veri figli. Una lunga storia che comincia
ancor prima, come ha raccontato in un libro rivelatore qualche anno fa
lo psicoanalista Luigi Zoja ( “Il gesto di Ettore. Preistoria, storia e
attualità e scomparsa del padre”, Bollati Boringhieri). A un certo
punto del nostro viaggio abbiamo capito che la figura del Padre, a
differenza di quella della Madre, è un artificio, una costruzione. I
mammiferi maschi sono stati per milioni di anni tali senza essere padri.
Come ha scritto Zoja, su un arco di centinaia di milioni di anni solo
la specie umana ha ipotizzato l’esistenza della figura paterna. Si
tratta di un mestiere che si apprende attraverso un addestramento
culturale. Noi, e i nostri fratelli maggiori, questo addestramento
l’abbiamo rifiutato tre decenni fa, e
per questo siamo proceduti nel deserto della figura paterna. Dopo aver
odiato e respinto i padri autoritari, dopo aver dileggiato quelli senza
spina dorsale, seduti al desco serale con la tv accesa davanti, ci siamo
trovati, tutto a un tratto, per via di un atto compiuto per amore e con
incoscienza, e speranza del futuro, a essere padri. Procedendo nei
decenni successivi questa generazione, i veri sdraiati siamo noi, ha
incontrato sempre maggiori difficoltà. Il problema, come ha scritto
Massimo Recalcati (“Cosa resta del padre?”, Cortina), è diventato, via
via, quello dell’eredità. Cosa abbiamo da passare ai figli?
Domanda
imbarazzante che il protagonista di Serra si fa, in forma indiretta, più
volte. La traduce in: cosa abbiamo in comune? Dna, tratti somatici,
atteggiamenti ? In cosa ci somigliamo? L’inizio del libro è altrettanto
paradigmatico del finale. Nell’ingresso della casa che abita con il
figlio – non c’è alcuna figura femminile nel libro – c’è un tappeto, un
kilim. Il figlio lo calpesta, stropiccia, piega. Quest’oggetto, quasi un
topos da radical chic, diventa l’emblema di ciò che il figlio
bistratta. Il padre è il tappeto. Il figlio ci passa sopra con le sue
scarpacce, oggetto chiave nel
racconto, ed è come se calpestasse il padre stesso, che s’identifica, a
torto – presume sempre – con chi ha tessuto amorevolmente il tappeto,
che il figlio non rispetta. Un altro degli oggetti che lui rifiuta,
perché rifiuta il passaggio del testimone. E qui sta il dramma: il padre
non sa cosa ha da passargli, una volta evaporata la figura paterna come
autorità o autorevolezza. D’altra parte, il figlio gli sta lontano, lo
teme, anche se non glielo dice in modo diretto: non vuole la lotta.
Ettore,
nell’Iliade, si piega verso il figlio, gli tende le braccia, ma il
figlio si ritrae perché l’armatura che indossa lo spaventa. Dice Zoja
che la corazza di Ettore non è una difesa dal nemico, bensì dal
figlio, dal mondo dell’infanzia perduto ed estraneo. Il padre di Serra
non ha corazza, è indifeso e sguarnito; armato solo del suo non-capire,
non-sapere, si tende verso il figlio e questo si sottrae. Una condizione
dilaniante: niente infanzia alle spalle, nessun futuro davanti. Solo
quell’amara conclusione: “Finalmente potevo diventare vecchio”.
Ma siamo mai diventati adulti? Grandi sì, adulti forse no. Siamo una generazione che per eccesso di affettività da ricevere - desiderata e non avuta dai nostri padri- e da dare – voglia di dare, senza riuscirci -
è diventata anaffettiva. Per troppo affetto, ci siamo ritratti nel
nostro spazio difendendolo sino all’eccesso ed escludendo l’altro. Il
libro di Serra è un catalogo di spazi, da quelli della memoria a quelli
della casa, sentiti come violati, o non capiti e non apprezzati dal
figlio. Un figlio che è quasi un fratellino più piccolo, un altro sé,
con cui il protagonista si rapporta passando attraverso la memoria del
proprio sé. Il grande libro nazionale, “Pinocchio”, suggerisce Zoja,
presenta l’immagine di una società di Fratelli: Geppetto non è un vero
padre; la madre adottiva, la Fata, è una sorella; Lucignolo, personaggio
centrale dell’antropologia italiana, è il Fratello, detentore dei veri
riti d’iniziazione, che portano Pinocchio a trasformarsi prima in
animale poi in un vero ragazzo, piccolo uomo. Quello che il padre de
“Gli sdraiati” cerca è questo rito di passaggio. Lo identifica nella
salita al Colle, dopo aver cercato di comprendere nel capitolo più
graffiante e più disperato del libro, quello dedicato al negozio delle
felpe, invaso dalle ninfette e dai giovanissimi satiri, i riti
d’iniziazione dei figli, respinti attraverso il sarcasmo – nel libro
sarcasmo e ironia sono la crosta sotto cui la voce narrante seppellisce i
suoi dolori. Essere superati dal figlio nell’ascesa, è cominciare a
morire. A differenza di quello che credeva Zoja alcuni anni fa, ne “Il
gesto di Ettore”, oggi il sentimento di nostalgia verso la figura del
padre sta riemergendo con forza. Diventare vecchi è diventare padri?,
Serra ci lascia con questo interrogativo.
da l’Espresso n. 45 14 novembre 2013
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Massimo Recalcati - Generazione orizzontale. Il silenzio dei padri di fronte ai figli.
Preferiscono la tv alla natura,
vivono in un mondo dove tutto rimane acceso comprano più di ciò che gli
serve. I ragazzi di oggi visti da un genitore tra humour, senso di
impotenza e tenerezza. È il nuovo libro di Michele Serra
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Freud dava
ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il
mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i
migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come
dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei
propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della
genitorialità. Tutt’altro. E’ da queste due notizie che trae linfa Gli sdraiati, il
nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua
testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della
paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché
intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe
più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre
nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può
esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola
di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che
chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto
del bene e del male, della vita e della morte?
Il padre di
cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto
la paradossale “fragilità materna”, la schizofrenica incarnazione
dell’autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella
a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento
interno, abitato, come quello di tutti – come ricordava giustamente
Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta – , da reazionari
che invocano il ristabilimento repressivo dell’ordine. Questo nuovo
padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua
potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione
repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un
amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina
d’autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la
mattina nei loro letti anziché unirsi ai “vecchi”. «Non si era mai visto
prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono». Una mutazione
antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri
figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta
a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro
felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero
prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di
oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della
natura, che non amano le bandiere dell’Ideale, ma che vivono
anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove
«tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto
iniziato, niente concluso». Eccoli i consumisti perfetti, «il sogno di
ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in
piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo
scalda, mangi più di quanto lo nutre, l’illumini più di quanto può
vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo
soddisfa».
Non si era
mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun
moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, «è
l’evoluzione della specie», come commenta suo figlio.
Gli Sdraiati è
un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che
tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una
nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura.
Come quando descrive l’orizzonte metafisico delle Langhe o la
resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla
terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con
stupore la scoperta dell’abitudine del figlio ipertecnologico di
raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo
descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato
che «contiene il suo addio agli anni dell’innocenza», o come quando,
ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio
oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli
dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo.
La giovinezza si palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive
soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell’età
della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe.
Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del loro corpo era
quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie
del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio
odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione
sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini
puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa
sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a
suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che
li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni
possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo
chiuso allo scambio.
In Pastorale americana di
Philip Roth l’impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa
spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo
religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo
modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di
Serra. Il figlio non sceglie la via dell’opposizione ideologica, della
lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra
piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza
giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che
non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a
porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta – in una
atmosfera oniroide alla Blade Runner- come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.
Il
condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la
sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza,
guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente
escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo.
Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il
passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover
vincere la guerra perché è «la bellezza che deve vincere la guerra. La
natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi
giovani dovete vincere la guerra». Il segreto più grande nel rapporto
tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche
quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del
proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da
una generazione all’altra. E non dispererei che le portulache che sono
state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del
mare – «la cura del mondo è una abitudine che si eredita», scrive Serra –
possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo
spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile.
da La Repubblica 6 novembre 2013
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