23 novembre 2013

ANNIVERSARI DIMENTICATI


L’anniversario dimenticato di Lewis e Huxley, oscurati da JFK

La loro morte arrivò nel giorno in cui gli occhi e i cuori del mondo erano rivolti a Camelot, non a Narnia

New York. Ieri si è celebrato il cinquantesimo anniversario della morte di un venerato irlandese che per gli amici era soltanto “Jack”. Il 22 novembre 1963 Clive Staples Lewis si è spento all’ospedale di Cambridge per un’insufficienza renale, dopo mesi di malattie e ricadute, compreso uno sprofondamento nel coma dal quale si era chissà come risvegliato. La commemorazione pubblica della sua figura è durata all’incirca un’ora, dopodiché tutti gli occhi del mondo si sono rivolti a Dallas, dove un altro Jack di origini irlandesi era stato appena abbattuto dai colpi di fucile di un ex marine venduto ai sovietici, Lee Harvey Oswald. L’ultimo giorno del poliedrico romanziere, critico e teologo cristiano è stato oscurato dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, un uomo di vent’anni più giovane di lui la cui acerba vicenda presidenziale era stata largamente superata, nell’immaginario popolare, da un’aura leggendaria fatta di capelli scompigliati dal vento, nuove frontiere e immaginifico repertorio glamour.
Kennedy se ne andava tra gli sguardi sgomenti del mondo, gettando istantaneamente un’intera generazione in quella “valle del dolore” – Lewis aveva usato quest’espressione due anni prima nel suo “Diario di un dolore”, esplorazione fisica e metafisica del terreno arido lasciato dalla scomparsa dell’amata Joy – dalla quale la famiglia Kennedy non sarebbe mai uscita, e con lei l’America, forse il mondo intero: “Come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio affatto nuovo. A volte la sorpresa è di segno opposto: ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti lasciato alle spalle chilometri prima. E’ allora che ti chiedi se per caso la valle non sia una trincea circolare”. Lewis se n’è andato in silenzio, perché tutta la capacità di sgomento era rivolta altrove, e forse la coincidenza non sarebbe dispiaciuta a un uomo che si trovava a proprio agio in una casa piena di gente che non gli rivolgeva la parola. Questa era la situazione ideale.
La sovrapposizione degli anniversari lo ha sgravato dal fardello della celebrazione rituale. I giornali sono ingombri di osessioni kennediane, di ricordi, di giudizi postumi, di teorie del complotto indicizzate, di disamine sul significato e l’eredità spirituale di una presidenza incompiuta e di un presidente martirizzato, gli scenari a basso costo del tipo “se Kennedy fosse ancora vivo cosa direbbe dell’Obamacare?”, e in questa trincea circolare della rievocazione del dolore non si incontrano celebranti troppo sbracati dell’anniversario del professore di Belfast. I più attenti si districano fra le migliaia di volumi su Camelot e vanno ad afferrare “Image and Imagination”, raccolta inedita di saggi e recensioni salvata da un incendio nella casa di famiglia e appena data alle stampe nell’occasione del meno trionfante degli anniversari.
A Sergei Prokofiev è andata persino peggio in termini di ricordo collettivo. Il compositore è morto lo stesso giorno di Stalin, il 5 marzo 1953. La sua casa si affacciava sulla Piazza Rossa, dove si è addensata nel giro di qualche ora tutta la massa sovietica in lutto. Ci sono voluti tre giorni per portare la salma dell’artista fuori dalla piazza per celebrare i funerali presso la casa dei compositori di stato. Alla cerimonia, poi, tutti pensavano ad altro, a quell’altro, l’uomo d’acciaio che tutta l’Unione accorreva a salutare e a cui il giorno è stato automaticamente dedicato. Il 5 marzo è il giorno in cui è morto Stalin, non Prokofiev; il 22 novembre è morto Kennedy, non Lewis.
Dialogo in purgatorio
Aldous Huxley non ha avuto nemmeno quell’ora storica prima di essere oscurato dalla più vasta ombra di Kennedy. Mentre Jackie teneva la testa sanguinante del marito fra le braccia, Huxley, incapace ormai di parlare, tendeva un biglietto alla moglie con l’ultima richiesta: un’iniezione di Lsd. Per quasi dieci anni l’acido lisergico aveva aperto le “porte della percezione” dell’autore di “Brave New World”, eminente rappresentante di una famiglia di altrettanto eminenti biologi; Aldous era quello con l’inclinazione mistica e spirituale, rapito da divinità indiane che si combinavano chissà come con l’universalismo ateo e naturalista che in casa andava per la maggiore. Il nonno era stato soprannominato il “bulldog di Darwin” per l’instancabile energia con cui aveva promosso la teoria dell’evoluzione. Il fratello, Julian, era il punto di riferimento per le teorie eugenetiche, un “cittadino del mondo” che credeva nell’internazionalismo – è stato il primo direttore dell’Unesco – e nella religione senza rivelzione. E’ stato il primo a introdurre nel discorso pubblico il termine “transumanesimo”. Quando è arrivata la comunicazione della morte di Kennedy, Huxley era ancora vivo, in un letto d’ospedale a Los Angeles, e trascinato in chissà quali mondi dalla sostanza che aveva promosso presso tutti i suoi amici come propalatrice di esperienze mistiche. E’ morto mentre tutta l’America aveva la testa e il cuore altrove. A cinquant’anni di distanza le cose non sono cambiate.

Il filosofo Peter Kreeft ha approfittato della coincidenza della morte per immaginare un incontro fra Kennedy, Lewis e Huxley. Il dialogo intitolato “Between Heaven and Hell” è ambientato, appunto, in purgatorio, e i tre discutono della vita e della morte, dell’uomo e di Dio, arrivando a incarnare posizioni religiose che contengono una perfetta rappresentazione della contemporaneità. Lewis è il cristiano tradizionale, Kennedy il cattolico moderno e Huxley il panteista. A un certo punto Kennedy chiede a Lewis chi sia Gesù. Risposta: “Dio fatto uomo”. Kennedy: “Letteralmente?”. Lewis: “Sì”. “Come può un uomo colto del Ventesimo secolo avere un’opinione così antiquata?”, risponde il dominatore della memoria collettiva, con un’improbabile ma efficacissima citazione di Dostoevskij.

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